Camillo Ruini: «Da sacerdote mi innamorai. Con sofferenza, ma ho resistito»
I 90 anni del cardinale ed ex presidente dei vescovi: «La Littizzetto? Mi divertiva. Draghi è una svolta positiva»
di Aldo Cazzullo
Cardinal Ruini, qual è il suo primo ricordo privato?
«Un prato, una palla, un filo spinato su cui la palla andò a finire; a Piandelagotti, sull’Appennino modenese, dove ero in villeggiatura con mia madre Iolanda. Avevo due anni e mezzo».
Qual è invece il suo primo ricordo pubblico?
«La guerra d’Etiopia. Dichiarata nel 1935, quando avevo quattro anni e mezzo. Abissinia, Negus… nomi che restano impressi».
Come ricorda la figura di Mussolini?
«Mussolini e il fascismo non mi piacevano; specialmente da quando l’Italia entrò in guerra. Dicevo ai miei compagni di scuola che l’avremmo perduta, e per questo un dirigente fascista di Sassuolo si lamentò con mio padre Francesco, che era favorevole al regime».
Suo padre la rimproverò?
«Mi raccomandò di essere più prudente, ma non mi rimproverò. Aveva anche lui i suoi dubbi, aiutò gli ebrei che conosceva a mettersi in salvo dalle leggi razziali».
Come viveste, lei e la sua famiglia, durante la guerra civile?
«È stato il periodo peggiore. Da entrambe le parti si sono compiuti atti di inaudita crudeltà e ferocia. Per grazia di Dio, la mia famiglia è stata risparmiata, probabilmente perché mio padre era un medico molto stimato e generoso, che curava gratuitamente parecchi poveri. In quel periodo si è prodigato per curare i feriti delle due fazioni».
Lei si è mai innamorato o fidanzato?
«Fidanzato mai. Sono stato attratto fortemente da alcune donne, ma ho sempre cercato di resistere e, pur soffrendo, ci sono riuscito, con l’aiuto decisivo del Signore».
Attratto prima o dopo essere diventato sacerdote?
«Anche dopo. L’attrazione per le donne è inestirpabile nell’uomo e di per sé non è affatto un peccato».
Quando e perché decise di farsi prete?
«Ho deciso nell’ultimo anno di liceo, in modo molto rapido, pensando che mettermi al servizio di Dio fosse la cosa migliore».
È vero che i suoi genitori erano contrari?
«Erano profondamente contrari. Per loro fu un grande dolore. Ma non posero veti, anche se avrebbero potuto, dato che ero minorenne. Poi, vedendomi felice, furono felici anche loro».
Come ricorda Pio XII?
«Pio dodicesimo è stato il Papa della mia giovinezza e del mio sacerdozio. L’ho ammirato moltissimo, e l’ho difeso con tutte le mie forze dagli attacchi della sinistra politica e anche dai malumori interni alla Chiesa, che ho scoperto con sorpresa quando sono entrato in seminario a Roma».
È vero però che lei è stato un giovane prete «di sinistra»?
«Non direi proprio. È vero che alcuni lo pensavano, perché ero aperto alle nuove idee e al pensiero critico. In effetti è diffusa la convinzione che questi atteggiamenti possano ritrovarsi solo a sinistra».
Come visse il Concilio?
«Con gioia ed entusiasmo. E ho lavorato per farlo conoscere, invitando a Reggio Emilia alcuni protagonisti dei dibattiti conciliari».
L’esito del Concilio è stato tradito?
«No. Nel complesso il suo esito non è stato tradito, e viene progressivamente assimilato; anche se molto lavoro rimane da compiere. Tradiscono invece il Concilio sia i tradizionalisti, sia coloro per i quali il Concilio rappresenterebbe una novità radicale rispetto alla precedente tradizione della Chiesa».
Come ricorda il primo incontro con Giovanni Paolo II?
«Era l’autunno del 1984. L’invito a cena del Papa mi giunse del tutto inaspettato. Giovanni Paolo II mi rivolse tante domande; risposi con una franchezza che lui apprezzò molto. Da allora i nostri rapporti sono diventati sempre più intensi».
Come lo ricorda come persona?
«Misericordioso: perdonava tutti, anche quelli che gli facevano cattiverie. Grande senso dell’umorismo. Intelligenza sbalorditiva».
Ad esempio?
«In qualsiasi Paese andassimo, parlava la lingua: francese, spagnolo, portoghese, inglese, slovacco… Con Ratzinger parlava in tedesco. In Ucraina parlò fluentemente ucraino. Finalmente in Ungheria scoprimmo che pure lui non parlava il magiaro. Leggeva due libri contemporaneamente».
Come si fa a leggere due libri contemporaneamente?
«Leggeva quello difficile e si faceva leggere ad alta voce quello più facile, magari un classico della letteratura».
Di sinistra era considerato il cardinal Martini.
«Lo era, anche psicologicamente. L’ho sempre stimato molto: grande intellettuale, con grandi capacità di governo. Aveva un rapporto dialettico con Giovanni Paolo II, che però l’aveva voluto a Milano».
Lei è stato il presidente dei vescovi italiani per sedici anni. Che bilancio fa? C’è qualcosa che non rifarebbe?
«Il bilancio non spetta a me. Posso dire che ricordo quegli anni con grande piacere e gratitudine al Signore per i risultati ottenuti. Non cambierei la direzione di marcia che del resto, prima che da me, veniva dal Papa. In alcune occasioni temo di aver avuto la mano troppo pesante con chi si opponeva».
In quali occasioni?
«Quando vedevo che un nostro collaboratore prendeva decisamente una direzione diversa, lo sostituivo».
Qualcuno la rimprovera di aver sostenuto troppo Berlusconi. Cosa risponde?
«Non ho sostenuto Berlusconi o qualche altro politico come tale. Ho cercato di realizzare alcune cose; e in questo mi sono trovato non di rado in sintonia con Berlusconi».
Come sono oggi i rapporti con Prodi? Lei celebrò le sue nozze, ma ci fu la rottura sul referendum sulla fecondazione assistita: «Sono un cattolico adulto…» disse l’allora premier.
«Oggi i nostri rapporti sono scarsi ma buoni. Da giovane sacerdote a Reggio Emilia sono stato molto legato a lui e alla sua famiglia di origine. Le nostre strade si sono diversificate molto prima del referendum sulla procreazione assistita, quando la crisi della Dc diventò irreversibile e Romano si collocò a sinistra, diventando rapidamente il leader di quello schieramento. Che sosteneva posizioni etiche e antropologiche che non potevo condividere».
È vero che Cicchitto una volta le disse che avrebbe dovuto fare il segretario di Forza Italia?
«Cicchitto me l’ha detto non una ma parecchie volte (Ruini sorride). Pur avendo su alcuni temi idee assai diverse, siamo amici da anni e ne ho molta stima: lui più di me capisce di politica».
Quando Luciana Littizzetto la chiamava Eminenz, le dava fastidio o la divertiva?
«Decisamente mi divertiva. Irritava invece varie persone a me affezionate».
In morte di Welby non poteva comportarsi diversamente? Celebrare il funerale religioso?
«In coscienza non potevo agire diversamente. Welby ha deciso di porre fine alla sua vita con piena lucidità e consapevolezza. Mi rendevo conto che negargli il funerale religioso mi avrebbe attirato forti critiche, ma questo non mi ha mai spaventato. E soprattutto il funerale religioso è una cosa assai diversa dal giudizio di Dio. Per la salvezza eterna di Welby ho pregato molto».
Quando vide Wojtyla l’ultima volta?
«Il mattino prima che morisse. Non era più al Gemelli, era tornato in Vaticano. Chiesi la sua benedizione. Tracciò a fatica un segno di croce. Ho pregato un poco, poi sono uscito perché stava troppo male e non volevo affaticarlo ulteriormente».
Il Conclave cui lei partecipò fece la scelta giusta?
«È stato un conclave permeato dalla gioia e dalla gratitudine a Dio per il pontificato di Giovanni Paolo II e per l’apoteosi finale alla sua morte. L’elezione del cardinale Ratzinger è avvenuta rapidamente e con poche opposizioni. Riconoscevamo in lui il più qualificato collaboratore e continuatore del Pontefice defunto. Anche oggi ritengo che sia stata la scelta giusta».
Cosa provò quando Ratzinger si dimise?
«Ho provato totale sorpresa. Sconcerto. E dolore. Poi ho pensato che pochi giorni dopo sarebbe stato eletto il nuovo Papa, e così il trauma sarebbe stato superato».
Oggi lo vede ancora?
«Lo vedo un paio di volte all’anno, e il nostro legame affettivo è sempre più forte».
Che cosa pensa davvero lei di papa Francesco?
«Forse non ho con lui quella spontanea sintonia che avevo con Giovanni Paolo II e anche con Benedetto XVI. Ma di lui penso molto bene. Ammiro la sua dedizione alla Chiesa, ai poveri, alla fraternità tra tutti gli uomini e i popoli. In una parola, in Francesco riconosco il mio Papa, senza riserve».
La Chiesa italiana oggi è in declino? La sua autorevolezza, la sua influenza sulla società sono in declino?
«Purtroppo un certo declino è innegabile. Le cause sono molte. La principale è la forza della secolarizzazione, anzi della scristianizzazione che attraversa le società occidentali e si allarga anche oltre; ad esempio in America Latina. Non dobbiamo però rassegnarci, tanto meno disperare. Occorre insistere nell’evangelizzazione e prendere posizioni chiare, coraggiose e realistiche sui problemi che interessano alla gente. Soprattutto, dobbiamo aver fiducia nel Signore che non abbandona il suo popolo».
Ogni tanto qualcuno progetta un partito cattolico. C’è spazio oggi?
«Personalmente ritengo che lo spazio non ci sia, o sia tanto piccolo che occuparlo sarebbe ben poco significativo o persino controproducente».
Un anno e mezzo fa lei fu molto criticato quando disse che era giusto dialogare con Salvini, e che lui doveva maturare. È quello che è accaduto?
«Salvini nelle circostanze presenti ha agito con saggezza e determinazione, senza dare spazio alle molte provocazioni di cui è stato oggetto. Oggi è una risorsa importante, non solo per il suo partito».
Conosce Draghi? Come giudica la svolta del suo governo?
«Ho parlato con Draghi, se ben ricordo, una volta sola, parecchi anni fa. Ho di lui grande stima. Penso che la svolta del suo governo sia stata molto positiva per l’Italia e per il suo futuro».
Lei si è espresso contro il ritorno al proporzionale. Perché?
«Perché renderebbe l’Italia ancor meno governabile di quello che già non sia».
Alla fine non ci saranno preti sposati, tanto meno donne sacerdote. Ma come frenare allora il calo delle vocazioni?
«Il calo delle vocazioni è un fatto gravissimo, che può avere effetti devastanti sul radicamento della fede nella popolazione. Però è un’illusione pensare di porvi rimedio abolendo la regola del celibato, o aprendo alle donne il sacerdozio: nelle Chiese protestanti ciò è praticato da molto tempo, e la situazione è peggiore della nostra. La via perché nascano vocazioni passa attraverso la preghiera e la cura pastorale dei giovani e delle famiglie, perché considerino la chiamata di un figlio al sacerdozio non una disgrazia ma un dono di Dio».
La pedofilia non ha fatto molto male alla Chiesa?
«La pedofilia ha danneggiato terribilmente la Chiesa. Sarebbe sbagliato però collegare la pedofilia al celibato. La pedofilia è diffusa soprattutto all’interno delle famiglie e tra gli uomini sposati».
Pure in Vaticano gli scandali, anche finanziari, non sono finiti. Come mai?
«La Santa Sede sta cercando di farli finire. Ma una vittoria definitiva sul peccato, e in particolare sul grande male della corruzione, non è realizzabile in questo mondo, come ci ha detto chiaramente Gesù stesso».
Lei è stato anche presidente della Commissione di inchiesta su Medjugorje. Che idea si è fatto? È davvero la Madonna che parla?
«L’idea che ci siamo fatti è che all’inizio fossero autentiche apparizioni mariane. Poi potrebbero essere entrate in gioco dinamiche psicologiche, note agli studiosi. Comunque da Medjugorje continua a sgorgare un torrente di bene».
Si è mai imbattuto in un miracolo o comunque in una manifestazione soprannaturale, che la ragione non riusciva a spiegare?
«Mi è accaduto più volte. In questi giorni ho letto le relazioni dei due miracoli in base ai quali Giovanni Paolo II è stato proclamato beato e poi santo. Entrambi, e specialmente il secondo, sarebbero incredibili se non fossero documentati scientificamente al più alto livello. Così proprio il progresso delle conoscenze mediche non fa svanire la nostra conoscenza del soprannaturale; anzi, la consolida».
Qual è il secondo miracolo di Wojtyla?
«A una donna del Costarica, Florybeth Mora Díaz, si ruppe un aneurisma cerebrale. Aveva il cervello devastato dall’emorragia. La notte stessa dopo la beatificazione di Giovanni Paolo II la donna sentì una voce che le diceva: “Alzati”. Si alzò, e stava in piedi. I medici non ci credevano, pensavano di aver scambiato i referti con quelli di un’altra paziente. Dovettero constatare che era avvenuto qualcosa di inspiegabile, il cervello non era più devastato. Ora quella donna sta benissimo».
Lei ha paura del Covid? E della morte?
«Del Covid non ho avuto troppa paura, e sono già stato vaccinato…».
Dove?
«A casa mia, la settimana scorsa, da una dottoressa mandata dal Vaticano. Della morte ho certamente paura, e ancor più del giudizio di Dio. Mi affido alla sua misericordia. Prego. E cerco di essere un po’ più buono».
Come finirà la Storia? Gesù tornerà, e troverà ancora la fede sulla Terra? «La fede cristiana pone alla fine della Storia il ritorno di Cristo, la resurrezione dei morti e il giudizio universale. Riguardo al modo in cui tutto questo accadrà, dobbiamo essere molto sobri: potremo conoscerlo solo allora, quando ne faremo esperienza. Gesù ha lasciato aperta la domanda se al suo ritorno troverà ancora fede sulla Terra; tanto meno possiamo pretendere di dare noi la risposta. Possiamo e dobbiamo pregare e operare affinché la luce della fede non si spenga in noi e nei nostri fratelli».
Come immagina l’Aldilà? Non ha mai avuto dubbi sulla resurrezione dei corpi?
«Non possiamo immaginare l’Aldilà, perché non ne abbiamo esperienza e più radicalmente perché l’Aldilà è Dio stesso, a cui speriamo di essere uniti per sempre. Per la fede, la resurrezione dei corpi è qualcosa di assolutamente reale, ma non di “fisico”. Non è un ritorno alla vita di questo mondo. Su questa, come su altre verità della fede, ho sempre avuto delle tentazioni, dalle quali il Signore in questi ultimi mesi spero che mi stia liberando. Tentazioni, non dubbi».
Che differenza c’è?«Il dubbio implica la sospensione dell’assenso di fede; e da questa il Signore mi ha preservato».
Compleanno. I 90 anni di Ruini, testimone di una Chiesa in dialogo con il mondo
Mimmo Muolo venerdì 19 febbraio 2021 su “Avvenire”
Per 16 anni presidente Cei, il porporato ha guidato la Chiesa italiana tra grandi cambiamenti, in sintonia con Papa Wojtyla e nei primi anni di Benedetto XVI. Sua l’idea del “Progetto culturale”
I 90 anni del cardinale Camillo Ruini, che ricorrono oggi, sono certamente l’occasione per rivolgere affettuosi auguri a una figur di primissimo piano della Chiesa in Italia e ringraziare insieme con lui il Signore per un così rotondo compleanno. Ma a ben vedere offrono anche spunti di riflessione sul presente, se è vero che historia magistra vitae, come ha scritto anche papa Francesco nella “Fratelli tutti”, citando Cicerone. Bisogna essere sinceri. Il nome e l’opera di quello che è stato per 16 anni presidente della Cei (dal 1991 al 2007) e per 17 vicario del Papa per Roma (dal 1991 al 2008), sotto Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, oltre a evocare una stagione diversa dall’attuale, potrebbe suscitare in qualcuno persino un’alzata di sopracciglio, anche alla luce di recenti interviste del porporato, apparse ad alcuni commentatori non in perfetta sintonia con il pontificato in corso. Ma è proprio così? E nella Chiesa è giusto tagliare le cose con l’accetta che si adopera ad esempio in ambiti come la politica?
Il progetto culturale
Si pensi emblematicamente alla sua “creatura” più famosa, il “progetto culturale cristianamente orientato”, la cui prima proposta Ruini formulò nel 1994, mentre agonizzava ormai irrimediabilmente il partito di raccolta dei cattolici che aveva guidato la ricostruzione e la modernizzazione del Paese (di cui proprio il cardinale fu uno degli ultimi sostenitori). Quella proposta venne scambiata all’inizio come un modo per riempire in forma diversa il vuoto lasciato dalla Dc. Al convegno di Palermo del 1995, però, l’idea fu fatta propria e rilanciata da Giovanni Paolo II e avrebbe segnato gli anni a seguire. Siamo proprio sicuri che nel suo autentico spirito il progetto culturale non possa essere qualificato come l’apertura di un «processo» nuovo e «in uscita», proprio di fronte all’allora evidente insufficienza della «occupazione di spazi» di cui la vicenda democratica cristiana (pur non riducibile alla sola gestione del potere) era in qualche modo stata la punta di diamante?
In realtà l’intuizione di Ruini fu dettata dalla necessità di rideclinare le parole forti dell’immutabile Vangelo di fronte al pensiero debole e “in un mondo che cambia”, cioè in una società in rapida trasformazione e non sempre in senso cristiano. Persino la scelta del luogo in cui l’idea venne lanciata per la prima volta – l’Abbazia di Montecassino, sede straordinaria, in quei giorni del settembre 1994, di un Consiglio permanente, oltre che emblema del processo cristiano di ricostruzione dell’Europa dopo la fine dell’Impero Romano – induce a pensare al dinamismo di una Chiesa che nel 1995 a Palermo fu qualificata come «estroversa». In sostanza, come ha ricordato di recente su queste stesse colonne il cardinale arcivescovo di Firenze, Giuseppe Betori, una Chiesa parente stretta di quella «in uscita» di papa Francesco.
Certo, le differenze di contesto e di accenti ci sono e rimangono. Ma in una stagione che è inclusiva e dialogante, la polifonia – proprio come in musica – arricchisce la melodia principale, rendendola più profonda e articolata. Per questo il percorso di vita del cardinale Ruini e l’eredità della stagione di cui è stato protagonista, per molti versi permanentemente acquisita al patrimonio pastorale della Chiesa in Italia, non vanno semplicemente consegnati alla polvere degli archivi.
Il cardinale Camillo Ruini in una foto del 2010 – Archivio Siciliani
Protagonista già a Loreto 1985
Fin dal suo apparire sulla scena ecclesiale nazionale, nel già ricordato convegno di Loreto che segnò la svolta wojtyliana quanto al «ruolo guida» della fede in Italia, Ruini si mostrò infatti fautore di una linea di dialogo non subalterno con il mondo, che da un lato affondava le sue radici nel Concilio, dall’altro era il frutto di una profonda sintonia con il Papa ora santo. Nato a Sassuolo, Reggio Emilia, il 19 febbraio 1931 e ordinato presbitero l’8 dicembre 1954, il futuro cardinale divenne ausiliare di Reggio Emilia il 29 giugno 1983. Soprattutto, però, a Loreto giunse sulla base di una solida formazione filosofica e teologica, che si incentrava sugli studi di dogmatica e di antropologia cristiana, quest’ultima del resto al centro anche di gran parte del suo servizio alla Chiesa italiana prima come segretario generale della Cei (1986-1991) e poi come presidente per tre mandati consecutivi (la porpora gli viene conferita da papa Wojtyla il il 28 giugno 1991).
Diversi anni dopo, riprendendo un pensiero del teologo ortodosso Olivier Clément, qualificò così questa necessità di dialogo senza complessi di inferiorità con il mondo: «Se il protestantesimo tende a dissolversi dentro la modernità, l’ortodossia orientale, almeno finora, pare rifiutare il confronto stesso; occorre quindi trovare un nuovo atteggiamento teoretico e pratico, che non dissolva il cristianesimo nella modernità, ma non eviti nemmeno il problema del suo inserimento nella realtà socio-culturale odierna». In fondo l’idea stessa del progetto culturale nasce proprio come tentativo di dare risposta a questa esigenza. E se si guardano con attenzione i suoi 16 anni alla guida della Cei, da un lato – come disse lo storico Andrea Riccardi in una intervista ad Avvenire – «con Ruini viene portato a compimento il disegno di papa Montini: dare alla Chiesa italiana una specifica soggettività che trova nella Cei il suo interprete principale, sia a livello ecclesiale, sia in campo politico e sociale»; dall’altro si avviano processi che mirano a ridare alla fede cristiana piena dignità di interlocutrice nel dibattito pubblico attraverso due capisaldi del magistero di papa Wojtyla, di cui Ruini è stato l’interprete fedele per l’Italia. Innanzitutto il primato di Dio nella vita dell’uomo, contro la tiepidezza della fede che porta spesso a vivere etsi Deus non daretur. E conseguentemente la rilevanza anche sociale di questa fede, che non accetta di lasciarsi confinare nelle sagrestie, ma vuole incarnarsi nella vita della gente e farsi cultura diffusa, secondo la famosa frase di Giovanni Paolo II nella Lettera con cui istituì il Pontificio Consiglio della cultura.
Un dialogo non sempre facile
Talvolta il dialogo non fu facile. Anzi in più occasioni la Cei di Ruini venne accusata di indebite «ingerenze», come ai tempi del referendum sulla legge 40 e in generale sui temi della bioetica e della famiglia, ma non si può dimenticare che il cardinale, pur difendendo i princìpi evangelici, che – sottolineava – appartengono alla fine alla dimensione puramente umana, è anche profondamente convinto che in democrazia vale la regola del contarsi ed è sempre stato sereno testimone del rispetto di questa regola democratica da parte dei cattolici. Oltre tutto, proprio sul terreno delle scelte etiche sensibili è rintracciabile, al di là di certe letture frettolose, una linea di continuità sostanziale che da Giovanni Paolo II conduce attraverso Benedetto XVI fino a papa Francesco, il quale, denunciando la «cultura dello scarto», ha semmai aggiunto elementi, esplicitando che la difesa della vita non può limitarsi al momento iniziale e finale, ma deve abbracciare tutto l’arco dell’esistenza, compreso il lavoro e la mobilità.
Quella di Ruini dunque è stata una visione «estroversa» della fede, che ha trovato la sua applicazione nei diversi campi di attività della Cei in quel quindicennio. Dall’attuazione dell’Accordo di Revisione del Concordato (con la determinante collaborazione dell’allora vescovo Attilio Nicora), alla non facile intesa per l’Irc, all’impiego accorto e trasparente dei fondi dell’8xmille, alla tutela del patrimonio artistico ecclesiastico, alla costruzione di nuove chiese soprattutto nelle periferie care a papa Francesco. Su un altro versante non si può non citare la ripresa delle Settimane sociali e il lancio del Progetto Policoro per l’autoimprenditorialità cooperativa giovanile. Senza dimenticare che proprio ai giovani – sull’onda delle Gmg – Ruini ha dedicato grande attenzione con l’istituzione (insieme con l’allora segretario generale Dionigi Tettamanzi) del Servizio nazionale, ancora oggi fulcro di questa pastorale. Da ultimo, ma non in ordine di importanza, va citato il grande impegno sul fronte della comunicazione sociale: la nascita dell’Agenzia Sir, di Tv2000 e Radio inBlu, il rilancio di Avvenire e il sostegno dato ai settimanali diocesani, alle radio e tv cattoliche locali.
Il lascito del cardinale
In definitiva la “stagione Ruini” (pur con le voci critiche che l’accompagnarono e che trovarono forse il loro acme in seguito alla decisione di non concedere i funerali a Piergiorgio Welby) ci consegna l’eredità di una Chiesa, definizione di Andrea Riccardi, «contemporaneamente amica dell’intelligenza (leggi progetto culturale e questione antropologica, di recente citata da Francesco come la crisi più grave del nostro tempo, ndr) e dei poveri». Sotto quest’ultimo profilo non va taciuto che la gestione accorta e trasparente dei fondi 8xmille ha permesso alla Chiesa italiana di mettere in atto una carità anche strutturale, che ha dimostrato tutta la sua importanza in questa pandemia.
E’ questa dunque l’eredità che non va accantonata. Al contrario potrebbe rivelarsi utile anche nel momento in cui ci si avvia a intraprendere quel «processo sinodale» chiesto dal Papa. Perché in fondo, come ha ricordato di recente il teologo Giuseppe Lorizio, anche l’«ospedale da campo», per continuare a funzionare al meglio, ha bisogno di laboratori dove vengono inventati e sperimentati nuovi metodi di cura.
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