Mimmo Muolo venerdì 19 febbraio 2021 su “Avvenire”
Per 16 anni presidente Cei, il porporato ha guidato la Chiesa italiana tra grandi cambiamenti, in sintonia con Papa Wojtyla e nei primi anni di Benedetto XVI. Sua l’idea del “Progetto culturale”

I 90 anni del cardinale Camillo Ruini, che ricorrono oggi, sono certamente l’occasione per rivolgere affettuosi auguri a una figur di primissimo piano della Chiesa in Italia e ringraziare insieme con lui il Signore per un così rotondo compleanno. Ma a ben vedere offrono anche spunti di riflessione sul presente, se è vero che historia magistra vitae, come ha scritto anche papa Francesco nella “Fratelli tutti”, citando Cicerone. Bisogna essere sinceri. Il nome e l’opera di quello che è stato per 16 anni presidente della Cei (dal 1991 al 2007) e per 17 vicario del Papa per Roma (dal 1991 al 2008), sotto Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, oltre a evocare una stagione diversa dall’attuale, potrebbe suscitare in qualcuno persino un’alzata di sopracciglio, anche alla luce di recenti interviste del porporato, apparse ad alcuni commentatori non in perfetta sintonia con il pontificato in corso. Ma è proprio così? E nella Chiesa è giusto tagliare le cose con l’accetta che si adopera ad esempio in ambiti come la politica?

​Il progetto culturale

Si pensi emblematicamente alla sua “creatura” più famosa, il “progetto culturale cristianamente orientato”, la cui prima proposta Ruini formulò nel 1994, mentre agonizzava ormai irrimediabilmente il partito di raccolta dei cattolici che aveva guidato la ricostruzione e la modernizzazione del Paese (di cui proprio il cardinale fu uno degli ultimi sostenitori). Quella proposta venne scambiata all’inizio come un modo per riempire in forma diversa il vuoto lasciato dalla Dc. Al convegno di Palermo del 1995, però, l’idea fu fatta propria e rilanciata da Giovanni Paolo II e avrebbe segnato gli anni a seguire. Siamo proprio sicuri che nel suo autentico spirito il progetto culturale non possa essere qualificato come l’apertura di un «processo» nuovo e «in uscita», proprio di fronte all’allora evidente insufficienza della «occupazione di spazi» di cui la vicenda democratica cristiana (pur non riducibile alla sola gestione del potere) era in qualche modo stata la punta di diamante?

In realtà l’intuizione di Ruini fu dettata dalla necessità di rideclinare le parole forti dell’immutabile Vangelo di fronte al pensiero debole e “in un mondo che cambia”, cioè in una società in rapida trasformazione e non sempre in senso cristiano. Persino la scelta del luogo in cui l’idea venne lanciata per la prima volta – l’Abbazia di Montecassino, sede straordinaria, in quei giorni del settembre 1994, di un Consiglio permanente, oltre che emblema del processo cristiano di ricostruzione dell’Europa dopo la fine dell’Impero Romano – induce a pensare al dinamismo di una Chiesa che nel 1995 a Palermo fu qualificata come «estroversa». In sostanza, come ha ricordato di recente su queste stesse colonne il cardinale arcivescovo di Firenze, Giuseppe Betori, una Chiesa parente stretta di quella «in uscita» di papa Francesco.

Certo, le differenze di contesto e di accenti ci sono e rimangono. Ma in una stagione che è inclusiva e dialogante, la polifonia – proprio come in musica – arricchisce la melodia principale, rendendola più profonda e articolata. Per questo il percorso di vita del cardinale Ruini e l’eredità della stagione di cui è stato protagonista, per molti versi permanentemente acquisita al patrimonio pastorale della Chiesa in Italia, non vanno semplicemente consegnati alla polvere degli archivi.

Il cardinale Camillo Ruini in una foto del 2010 – Archivio Siciliani

​Protagonista già a Loreto 1985

Fin dal suo apparire sulla scena ecclesiale nazionale, nel già ricordato convegno di Loreto che segnò la svolta wojtyliana quanto al «ruolo guida» della fede in Italia, Ruini si mostrò infatti fautore di una linea di dialogo non subalterno con il mondo, che da un lato affondava le sue radici nel Concilio, dall’altro era il frutto di una profonda sintonia con il Papa ora santo. Nato a Sassuolo, Reggio Emilia, il 19 febbraio 1931 e ordinato presbitero l’8 dicembre 1954, il futuro cardinale divenne ausiliare di Reggio Emilia il 29 giugno 1983. Soprattutto, però, a Loreto giunse sulla base di una solida formazione filosofica e teologica, che si incentrava sugli studi di dogmatica e di antropologia cristiana, quest’ultima del resto al centro anche di gran parte del suo servizio alla Chiesa italiana prima come segretario generale della Cei (1986-1991) e poi come presidente per tre mandati consecutivi (la porpora gli viene conferita da papa Wojtyla il il 28 giugno 1991).

Diversi anni dopo, riprendendo un pensiero del teologo ortodosso Olivier Clément, qualificò così questa necessità di dialogo senza complessi di inferiorità con il mondo: «Se il protestantesimo tende a dissolversi dentro la modernità, l’ortodossia orientale, almeno finora, pare rifiutare il confronto stesso; occorre quindi trovare un nuovo atteggiamento teoretico e pratico, che non dissolva il cristianesimo nella modernità, ma non eviti nemmeno il problema del suo inserimento nella realtà socio-culturale odierna». In fondo l’idea stessa del progetto culturale nasce proprio come tentativo di dare risposta a questa esigenza. E se si guardano con attenzione i suoi 16 anni alla guida della Cei, da un lato – come disse lo storico Andrea Riccardi in una intervista ad Avvenire – «con Ruini viene portato a compimento il disegno di papa Montini: dare alla Chiesa italiana una specifica soggettività che trova nella Cei il suo interprete principale, sia a livello ecclesiale, sia in campo politico e sociale»; dall’altro si avviano processi che mirano a ridare alla fede cristiana piena dignità di interlocutrice nel dibattito pubblico attraverso due capisaldi del magistero di papa Wojtyla, di cui Ruini è stato l’interprete fedele per l’Italia. Innanzitutto il primato di Dio nella vita dell’uomo, contro la tiepidezza della fede che porta spesso a vivere etsi Deus non daretur. E conseguentemente la rilevanza anche sociale di questa fede, che non accetta di lasciarsi confinare nelle sagrestie, ma vuole incarnarsi nella vita della gente e farsi cultura diffusa, secondo la famosa frase di Giovanni Paolo II nella Lettera con cui istituì il Pontificio Consiglio della cultura.

​Un dialogo non sempre facile

Talvolta il dialogo non fu facile. Anzi in più occasioni la Cei di Ruini venne accusata di indebite «ingerenze», come ai tempi del referendum sulla legge 40 e in generale sui temi della bioetica e della famiglia, ma non si può dimenticare che il cardinale, pur difendendo i princìpi evangelici, che – sottolineava – appartengono alla fine alla dimensione puramente umana, è anche profondamente convinto che in democrazia vale la regola del contarsi ed è sempre stato sereno testimone del rispetto di questa regola democratica da parte dei cattolici. Oltre tutto, proprio sul terreno delle scelte etiche sensibili è rintracciabile, al di là di certe letture frettolose, una linea di continuità sostanziale che da Giovanni Paolo II conduce attraverso Benedetto XVI fino a papa Francesco, il quale, denunciando la «cultura dello scarto», ha semmai aggiunto elementi, esplicitando che la difesa della vita non può limitarsi al momento iniziale e finale, ma deve abbracciare tutto l’arco dell’esistenza, compreso il lavoro e la mobilità.

Quella di Ruini dunque è stata una visione «estroversa» della fede, che ha trovato la sua applicazione nei diversi campi di attività della Cei in quel quindicennio. Dall’attuazione dell’Accordo di Revisione del Concordato (con la determinante collaborazione dell’allora vescovo Attilio Nicora), alla non facile intesa per l’Irc, all’impiego accorto e trasparente dei fondi dell’8xmille, alla tutela del patrimonio artistico ecclesiastico, alla costruzione di nuove chiese soprattutto nelle periferie care a papa Francesco. Su un altro versante non si può non citare la ripresa delle Settimane sociali e il lancio del Progetto Policoro per l’autoimprenditorialità cooperativa giovanile. Senza dimenticare che proprio ai giovani – sull’onda delle Gmg – Ruini ha dedicato grande attenzione con l’istituzione (insieme con l’allora segretario generale Dionigi Tettamanzi) del Servizio nazionale, ancora oggi fulcro di questa pastorale. Da ultimo, ma non in ordine di importanza, va citato il grande impegno sul fronte della comunicazione sociale: la nascita dell’Agenzia Sir, di Tv2000 e Radio inBlu, il rilancio di Avvenire e il sostegno dato ai settimanali diocesani, alle radio e tv cattoliche locali.

​Il lascito del cardinale

In definitiva la “stagione Ruini” (pur con le voci critiche che l’accompagnarono e che trovarono forse il loro acme in seguito alla decisione di non concedere i funerali a Piergiorgio Welby) ci consegna l’eredità di una Chiesa, definizione di Andrea Riccardi, «contemporaneamente amica dell’intelligenza (leggi progetto culturale e questione antropologica, di recente citata da Francesco come la crisi più grave del nostro tempo, ndr) e dei poveri». Sotto quest’ultimo profilo non va taciuto che la gestione accorta e trasparente dei fondi 8xmille ha permesso alla Chiesa italiana di mettere in atto una carità anche strutturale, che ha dimostrato tutta la sua importanza in questa pandemia.

E’ questa dunque l’eredità che non va accantonata. Al contrario potrebbe rivelarsi utile anche nel momento in cui ci si avvia a intraprendere quel «processo sinodale» chiesto dal Papa. Perché in fondo, come ha ricordato di recente il teologo Giuseppe Lorizio, anche l’«ospedale da campo», per continuare a funzionare al meglio, ha bisogno di laboratori dove vengono inventati e sperimentati nuovi metodi di cura.