Logo Noi Siamo Chiesa

Noi Siamo Chiesa

Sezione italiana del movimento internazionale “We Are Church” per la riforma della Chiesa cattolica

Livatino beato oggi 9 maggio 2021. Leggi la riflessione di Augusto Cavadi sul “Manifesto”. Ora rimarrà isolato o diventerà punto di riferimento per una Chiesa antimafia ovunque, nelle parrocchie, negli oratori, nelle Eucaristie domenicali?

Beato contro le mafie

Intervista. Oggi ad Agrigento la beatificazione del magistrato Rosario Livatino, ucciso 30 anni fa dalla Stidda. Parla il teologo Augusto Cavadi: «Spero non sia un altro festival dell’ipocrisia»

Luca Kocci

Edizione del Manifesto del 09.05.2021

Pubblicato 8.5.2021, 23:59

Questa mattina nella cattedrale di Agrigento viene beatificato Rosario Livatino, il magistrato ucciso trent’anni fa, il 21 settembre 1990, dalla Stidda, la mafia agrigentina.

Dopo don Pino Puglisi, il parroco di Brancaccio ucciso da Cosa nostra nel settembre 1993, Livatino è il secondo «martire» di mafia proclamato dalla Chiesa cattolica. Ne parliamo con Augusto Cavadi, filosofo e teologo palermitano che si è più volte occupato delle rapporti fra Chiesa e mafie e che ha appena pubblicato con l’editore Di Girolamo Rosario Livatino. Un laico a tutto tondo.

Da anni si cerca di accreditare, come dimostra il gran numero di volumi “confessionali” dedicati a Livatino – con l’eccezione del libro di Nando Dalla Chiesa «Il giudice ragazzino» –, l’icona di «magistrato cattolico». Nel suo invece, fin dal titolo, sottolinea la «laicità» di Livatino. È una scelta da “bastian contrario” o ci sono solide ragioni?

Nei suoi scritti, pochi ma inequivoci, Livatino sostiene che ogni magistrato ha diritto, come cittadino, alle proprie convinzioni religiose, etiche e politiche, ma come magistrato deve interpretare e applicare le leggi della Repubblica. Per lui un cattolico può essere un magistrato, ma la definizione di «magistrato cattolico» sarebbe un ossimoro, una contraddizione in termini.

La Chiesa cattolica beatifica Livatino come «martire in odio alla fede», come scritto nel decreto della Congregazione vaticana per le cause dei santi. Questa formula non rischia di esaltare un magistrato per la sua fede più che per la sua azione per la giustizia?

Ultimamente si è fatta strada la chiave interpretativa, suggerita da una frase di papa Wojtyla, di «martire della giustizia e indirettamente della fede». Mi pare che segni un passo avanti rispetto alla mentalità che limitava il martirio alla sola dimensione religiosa, ignorando la testimonianza socio-politica. Si sta dicendo, quindi, che se stai lottando per la giustizia, oggettivamente stai lavorando per il Vangelo.

Un’altra novità potrebbe essere una ritrovata sintonia fra giustizia umana e giustizia divina, dopo che per secoli la Chiesa non ha avuto grande considerazione per i tribunali degli uomini?

Indubbiamente. Onorare un giudice non perché recitava rosari o partecipava a pellegrinaggi, ma perché faceva in maniera esemplare il magistrato è un messaggio sconvolgente per i mafiosi. Ma anche per tanta parte del mondo cattolico, abituato a pensare che il sistema legislativo-giudiziario sia irrilevante, o almeno secondario e subordinato, rispetto alla legge divina così come la interpretano, di volta in volta, le gerarchie ecclesiastiche. Mi pare che si ristabiliscano le priorità: la legalità democratica, costituzionale, è la base minima di partenza che vale per ogni cittadino.

Dopo l’anatema di papa Wojtyla alla Valle dei templi di Agrigento, la beatificazione di don Puglisi e la scomunica ai mafiosi, la Chiesa ha veramente tagliato tutti i legami con le mafie?

Un documento di questi giorni dei vescovi siciliani ammette che la strada è ancora lunga. Fra i cattolici è esattamente come fra il resto dei cittadini: pochi contrastano il sistema di dominio mafioso, pochi vi si inseriscono programmaticamente e sistematicamente, la maggior parte si illude di restare nel mezzo, equidistante: è la massa grigia degli ignavi, dei surfisti che sorvolano sulle onde né con la mafia né contro la mafia. È questa maggioranza silenziosa che assicura ai mafiosi la sopravvivenza e che continua a condannare a morte il magistrato, il giornalista, il sindacalista, il poliziotto, il prete o l’imprenditore che decida di spezzare il regime dominante del compromesso, dello scambio clientelare, della corruzione.

Cosa ti aspetti, o ti auguri, come ricaduta civile di questo evento ecclesiale?

Che non sia l’ennesimo festival dell’ipocrisia. Quando hanno beatificato don Puglisi, ci si aspettava che tutta la Chiesa italiana attivasse una pastorale sistemica di liberazione dalle mafie, infiltrate nei gangli del Paese. Ma nei corsi di preparazione alle prime comunioni, alle cresime, ai matrimoni si è mai inserito un solo incontro di formazione sulla presenza della mafia nel territorio parrocchiale? Qui a Palermo si è arrivati all’assurdo di organizzare il giro nei quartieri delle reliquie di don Puglisi: l’ho conosciuto abbastanza bene, ma non saprei dire se queste manifestazioni idolatriche lo avrebbero fatto piangere o ridere, di certo hanno divertito molto i boss. Dopo che Livatino sarà accompagnato dalla strada, dove è stato ucciso, agli altari, rimarrà in una nicchia o sarà riaccompagnato dagli altari alle strade della sua terra? Associazionismo, scuole e università, partiti e sindacati lanceranno una campagna sistematica di informazione sui principi costituzionali e di formazione alla cittadinanza responsabile? Spererei tanto di sì. Temo, almeno altrettanto, di no.


Pubblicato

Commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *