POCA MISERICORDIA E MOLTO CODICE

Documento di NOI SIAMO CHIESA sulla confessione e sulla lettera apostolica Misericordia Dei

 

 

"L’iter seguito per affrontare e risolvere la grave crisi che attraversa la celebrazione del sacramento della Penitenza non è quello di ricercare una forma storica più consona alla mentalità e alla situazione del cristiano di oggi, ma semplicemente quello di ribadire la forma esistente […]. Ho l’impresione che da qualche tempo le gerarchie ecclesiastiche siano incapaci di leggere i segni dei tempi e a dimostrare una sana progettualità ecclesiale (i tempi del Vaticano II sembrano lontani anni luce). A un motu proprio che ribadisce la disciplina vigente, limitandosi a citare il Concilio di Trento e il Codice di diritto canonico, avrei preferito un documento che invitava gli esperti e la comunità ecclesiale a una seria e documentata riflessione, in grado di avanzare proposte innovative e non di preparare conclusioni preconfezionate, come sempre più spesso capita di constatare nei documenti ufficiali" (lettera di un sacerdote a Settimana, n. 19/2002; cf Adista n. 57/2002, p. 8).

Nella chiesa cattolica si fa spesso riferimento alla misericordia divina, sembra, anzi, che essa sia la casa della misericordia. In realtà le cose non stanno proprio così.

La lettera del papa Misericordia Dei [d’ora in poi MD], datata 7 aprile 2002, è l’ultimo documento, in ordine di tempo, che tratti della misericordia di Dio, in collegamento col sacramento della Penitenza o Confessione. Le avvisaglie di questo pronunciamento erano già presenti nella Lettera ai sacerdoti per il Giovedì santo 2002, in cui il papa li invitava ad essere "autentici ministri della misericordia" (n. 4) e li intratteneva sul sacramento della Riconciliazione commentando l’incontro di Gesù con Zaccheo (Lc 19,1-10).

La lettera apostolica MD è data in forma di motu poprio (di propria iniziativa), ma guardando le persone che l’hanno presentata nella sala stampa vaticana non è difficile immaginare chi siano gli estensori o i promotori di tale "iniziativa": il card. Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il card. Jorge Medina Estévez, prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti e il vescovo Julián Herranz, presidente del Pontificio consiglio per i testi legislativi. Gli stessi organismi della curia romana, che il papa dice di "aver sentito" ed altri ancora, vengono esplicitamente nominati all’inizio della lettera.

Il 2002 dovrebbe segnare il trionfo della misericordia anche per un altro motivo: l’aggiunta di un sottotitolo – in sostituzione dell’antico in albis, che però non figurava più stampato – nella nuova edizione tipica del messale romano, per la seconda domenica di Pasqua, che d’ora innanzi si chiamerà anche "della Divina Misericordia". In omaggio alle visioni di suor Maria Faustina Kowalska (1905-1938) canonizzata nell’anno 2000, sulle quali il Sant’Offizio nel 1959 aveva posto il veto, poi rimosso nel 1978. Questo spiega la data, 7 aprile, del motu proprio, dal momento che in essa quest’anno cadeva la seconda domenica di Pasqua. In tale circostanza si potrà lucrare perfino un’indulgenza plenaria (cf decreto della Penitenzieria Apostolica, approvato dal papa, del 13 giugno 2002, reso noto il 3 agosto). Il messale rinnovato contiene anche il formulario di una messa votiva della misericordia di Dio.

È tutto un trastullarsi, a parole, tra misericordia e indulgenza, ma come vadano poi le cose lo vedremo subito.

La lettera del papa possiede l’indubbio merito della stringatezza, tipica dei documenti disciplinari e, del resto, intende soffermarsi solo "su alcuni aspetti della celebrazione del sacramento della penitenza". Non mancano però in essa, specie nella prima parte, elementi dottrinali sintetici e conclusioni teologiche. Essa si snoda attraverso un ampio preambolo, in cui si richiamano i fondamenti dogmatici e gli aspetti canonistici del sacramento, per poi passare alla normativa che riguarda l’assoluzione a più penitenti – il reale obiettivo della lettera –, alle disposizioni personali dei penitenti ed infine al luogo e alla sede per la celebrazione del sacramento.

 

Valutazione d’insieme

"Per la misericordia di Dio, Padre che riconcilia, il Verbo prese carne nel grembo purissimo della Beata Vergine Maria per salvare "il suo popolo dai suoi peccati" (Mt 1, 21) e aprirgli "la via della eterna salvezza"" (MD).

Il linguaggio aulico dell’incipit della MD non deve trarre in inganno circa lo scopo e il contenuto della lettera: si tratta di una dura presa di posizione contro la richiesta della celebrazione comunitaria della penitenza, la riaffermazione dei canoni tridentini e il ritorno al devozionismo che ha fatto seguito alla controriforma.

La lettera si presenta come un tipico documento curiale, che scende dall’alto, come un meteorite, sui fedeli cattolici, che ci si è ben guardati dal consultare, sotto qualsiasi forma oggi significativa – stesso trattamento dev’essere toccato alle conferenze episcopali –, senza nessun ascolto del loro disagio nei confronti del sacramento della Penitenza, testimoniato proprio dalla disaffezione ad esso, e senza alcuna attenzione alla nuova sensibilità e alle nuove acquisizioni in campo psicologico, oltre che al valore della libertà di coscienza. Riguardo al rapporto fra quest’ultimo e la Confessione cattolica, così un teologo esprime la sua preoccupazione: "Si tratta di obbligare qualcuno a parlare ad un’altra persona di cose che toccano la più radicale intimità. Non si tratta, indubbiamente, di una costrizione esercitata con violenza dall’esterno, ma di sicuro con una raffinata costrizione interiore, dal momento che si fa dipendere da essa la partecipazione agli altri sacramenti e, in ultima analisi, niente meno che la salvezza eterna. [...] da tempo si annida in me il sospetto che questo leda i diritti umani" (A. Torres Queiruga, Peccato e perdono, ISG edizioni - Marna, Vicenza 2001, pp. 35-36).

Un documento, la MD, che nasce già vecchio, destinato presumibilmente a restare lettera morta, se pure non costituirà un invito per molti cattolici a continuare con più determinazione nella richiesta di rispetto e attenzione alle situazioni nuove vissute dalle comunità ecclesiali. Da questo punto di vista, avrebbe un involontario risvolto positivo.

La lettera rappresenta una chiusura rispetto alle esigenze che in larghi strati del popolo cattolico si sono andate manifestando in questi decenni e un netto arretramento nei confronti di una linea di pensiero e di prassi che stavano facendosi strada a partire dal concilio Vaticano II. Tornare a giustificare, poi, la Confessione durante la Messa, fa ripiombare tutto ad un tratto nel clima pietistico post-tridentino.

 

I bianchi confessionali del Giubileo

Gli ispiratori della lettera sembrano essersi messi in ascolto solo dei giovani della Giornata Mondiale della Gioventù, nell’anno giubilare, che si sono accostati ai confessionali volanti allestiti per l’occasione. Si è fatta anche della retorica sui "bianchi confessionali", ma un conto è l’aspetto spettacolare e di massa che hanno offerto e un altro quello sostanziale del significato di tale fenomeno e della teologia che gli fa da fondamento

Sono stati indubbiamente molti i giovani che si sono confessati, ma qual era realmente il loro grado di rappresentatività nell’universo cattolico? Da quale area provenivano? Non si era di fronte ad un campionario già particolarmente selezionato, perché impegnato e organizzato in movimenti ed associazioni che spesso brillano per conformismo? Qualcuno ha avuto il sospetto che fossero, certo, bravi ragazzi, ma che rappresentassero la componente piuttosto conservatrice e piatta del cattolicesimo. Quella a cui la Chiesa sta bene così com’è, in tutto e per tutto, se, presenti in due milioni al grande raduno del Giubileo, non hanno saputo avanzare neanche mezza proposta che riguardasse una qualsiasi riforma interna alla Chiesa. Troppo poco per dei giovani!

In ogni caso, perché farli assurgere a "teologumeno", quasi cioé a conclusione teologica, per convalidare una prassi tradizionale e come segno indiscutibile del suo risorgere a livello di esigenza profonda? Per capirci meglio: trecentomila giovani che si confessano durante il Giubileo autorizzano a pensare che è in atto un’inversione di tendenza su scala mondiale in favore della Confessione ed a trarne i migliori auspici per il futuro, mentre due milioni e mezzo di persone che, lontani dagli entusiasmi giubilari, firmano una petizione in cui si chiede di cambiare qualcosa nella Chiesa, non fanno testo e vengono bellamente ignorate. Due pesi e due misure, dunque, a seconda che convenga a qualcuno degli alti prelati della Chiesa.

 

Un errore storico e teologico

"La celebrazione del sacramento della Penitenza ha avuto nel corso dei secoli uno sviluppo che ha conosciuto diverse forme espressive, sempre, però, conservando la medesima struttura fondamentale che comprende necessariamente, oltre all'intervento del ministro — soltanto un Vescovo o un presbitero, che giudica e assolve, cura e guarisce nel nome di Cristo — gli atti del penitente: la contrizione, la confessione e la soddisfazione" (MD, 3° capoverso; corsivo nostro).

Se si intende, come pare dal contesto della Lettera, che la confessione esplicita dei peccati ad un vescovo o presbitero è sempre esistita, dall’epoca del Nuovo Testamento e sino al concilio Lateranense IV (1215), questo non è sostenibile storicamente. Si tratta di un’affermazione il cui unico pregio è quello di venire acriticamente ripresa da Trento in poi. Durante i primi sei secoli del cristianesimo non esisteva la confessione "auricolare", ma solo la penitenza canonica, che faceva entrare pubblicamente nello stato di penitente, che durava in pratica per il resto della vita. Per questo, ed anche perché era assimilata ad un secondo battesimo, veniva concessa una sola volta e per peccati molto gravi, in particolare se notori, in quanto motivo di scandalo per i fratelli nella fede.

È documentato come proprio i nove capitoli del concilio di Trento riguardanti la Penitenza, seguiti dai quindici canoni con gli anatemi, abbiano avuto una macchinosa ed affrettata rielaborazione nei giorni 23-25 novembre 1551. Senza contare che furono redatti da vescovi e teologi che ritenevano normale l’Inquisizione con i suoi metodi, ed applicavano alla Chiesa i modelli di potere del tempo, che spesso giustificavano l’intrusione nell’intimo delle coscienze, o, quantomeno, non erano inclini alla separazione fra la giurisdizione ecclesiastica e la (libera) pratica sacramentale.

In concomitanza all’errore storico di Trento, se ne è sviluppato anche uno teologico, quello di aver attribuito valore dogmatico, quindi perenne, alle sue dichiarazioni, quando invece mancano delle condizioni, richieste dallo stesso Concilio, per l’innalzamento a dogma: l’essere contenute nella Bibbia, nella prassi apostolica e veicolate da una tradizione ininterrotta.

Inoltre, la dottrina di Trento si riferisce a quel tipo di Confessione che si è sviluppato dal VII secolo ad opera dei monaci missionari e che ha trovato la sua sanzione nel concilio Lateranense IV, ma non considera, quindi non esclude e non può ipotecare forme future e diverse, fra le quali la celebrazione comunitaria nei termini in cui è intesa oggi. Trattandosi di una cosa nuova, non cade sotto i divieti di Trento. Che sono, s’intende, rispettabilissimi, ma non sfuggono alla legge dell’obsolescenza. Una lettura meno astorica e meno legata alla letteralità del testo tridentino consentirebbe di non vedere in esso ostacoli insormontabili. Oggi non si può prescindere da un’analisi storico-critica degli enunciati conciliari e del magistero in generale, specie se da essi ci separano secoli e secoli.

 

Giudizio e "iure divino"

"Affinché il discernimento sulle disposizioni dei penitenti in ordine alla remissione o meno, e all'imposizione dell'opportuna penitenza da parte del ministro del Sacramento possa essere attuato, occorre che il fedele, oltre alla coscienza dei peccati commessi, al dolore per essi e alla volontà di non più ricaderci, confessi i suoi peccati. In questo senso, il Concilio di Trento dichiarò che è necessario "per diritto divino confessare tutti e singoli i peccati mortali". La Chiesa ha visto sempre un nesso essenziale tra il giudizio affidato ai sacerdoti in questo Sacramento e la necessità che i penitenti dichiarino i propri peccati, tranne in caso di impossibilità. Pertanto, essendo la confessione completa dei peccati gravi per istituzione divina parte costitutiva del Sacramento, essa non resta in alcun modo affidata alla libera disponibilità dei Pastori" (MD, 6° capoverso, corsivi nostri).

Riaffiora la visione del sacramento come giudizio – ampiamente accreditata a Trento, come metafora, applicata poi in senso giuridico moderno, andando oltre l’intenzione dello stesso Concilio –, che richiederebbe di sua natura la conoscenza e quindi la manifestazione dei singoli atti peccaminosi, compresi quelli che riguardano la sfera intima. Fin che non morirà questa prospettiva, servirà a ben poco parlare di misericordia di Dio. Infatti, qui fa da sottofondo una concezione di Dio – che si oggettiva nei "suoi ministri" – come di un monarca assoluto, inflessibile scrutatore di coscienze, padrone e castigatore. È sintomatico, ma indubbiamente penoso, che si parli ancora di questo sacramento ricorrendo ad analogie giudiziali.

Si richiamano poi le espressioni tridentine iure divino ed ex divina institutione. Sorge una domanda: perché insistere su un enunciato difficilmente ammissibile sul piano teologico? Forse perché "le gerarchie amano tanto dire che i loro "prodotti" sono la fotocopia della verità e della volontà di Dio", come icasticamente afferma un teologo.

In realtà, all’epoca di Trento iure divino viene usato con un ventaglio di significati, sino ad estendere tale qualifica anche a prescrizioni ecclesiastiche, in quanto emanate da un’autorità fatta derivare direttamente da Dio. Secondo il concilio di Trento, ad esempio, anche la potestà di elargire indulgenze è stata "divinamente concessa" da Cristo alla Chiesa (cf Denz. 1835).

In particolare, nel caso della Confessione, non è necessario vedervi l’esclusione perpetua di modalità celebrative non contemplate dai padri conciliari e neppure prevedibili a quell’epoca. "Non esiste un precetto divino o un obbligo de iure divino di dichiarare tutti i peccati gravi al sacerdote" (D. Fernández, Dio ama e perdona senza condizioni, Queriniana, Brescia 20012, p. 59).

La tendenza romana, invece, è quella di fornire interpretazioni sempre più restrittive nei confronti di asserti che vanno presi con beneficio d’inventario, che necessitano di contestualizzazione.

Proviamo a trarne le conseguenze: chi non confessa ad un prete un peccato grave, ammettiamo un atto di masturbazione, è destinato all’inferno eterno. La catechesi e la predicazione, nel corso di secoli, hanno pronosticato orribili pene infernali per coloro che non si sottomettevano alla dottrina della Confessione. In sostanza, questo è l’insegnamento ufficiale, mai abrogato, sulla misericordia Dei, al di là delle belle parole.

 

Gli abusi

"... si osserva in alcune regioni la tendenza all'abbandono della confessione personale insieme ad un ricorso abusivo all'"assoluzione generale" o "collettiva", sicché essa non appare come mezzo straordinario in situazioni del tutto eccezionali. Sulla base di un allargamento arbitrario del requisito della grave necessità, si perde di vista in pratica la fedeltà alla configurazione divina del Sacramento, e concretamente la necessità della confessione individuale, con gravi danni per la vita spirituale dei fedeli e per la santità della Chiesa" (MD, 7° capoverso).

Sarebbe stato bello e onesto se, prima di parlare degli abusi ai danni del sacramento, la Lettera avesse almeno accennato agli abusi commessi da chi lo ha regolamentato lungo i secoli.

Basti il richiamo ai Sinodi della diocesi di Milano, ai tempi di san Carlo Borromeo, quindi in applicazione delle disposizioni di Trento.

Il Sinodo V, del 1579, prescrive che il parroco visiti tutte le famiglie, la settimana che precede la quaresima, e annoti scrupolosamente i nomi di coloro che si sottraggono all’obbligo della confessione e comunione pasquale e ammonisca quelli che si confessano raramente. Il Sinodo III, dell’anno 1573, proibisce l’ingresso in chiesa e la sepoltura nel camposanto a coloro che non si sono confessati e comunicati a Pasqua. Il Sinodo IV, anno 1576, chiede ai confessori di rilasciare un attestato, firmato e timbrato, in cui si certifichi che il tal fedele ha adempiuto l’obbligo della confessione, così che questi lo esibisca al proprio parroco e al medico in caso di malattia.

Che fosse necessario aver adempiuto il precetto pasquale per entrare in chiesa, per essere sepolti cristianamente, per avere assistenza medica e per essere accolti negli ospedali, non è cosa dovuta solo allo zelo di san Carlo, ma risale al concilio Lateranense IV. L’obbligo fatto al medico di costringere il malato alla confessione è stato confermato e inasprito dal papa san Pio V – l’antico inquisitore – e ancora richiamato da Benedetto XIII, nel 1725.

Ritorniamo al motivo che ha dato origine alla lettera MD, il cui bersaglio non è tanto l’abuso della confessione comunitaria, quanto semplicemente la sua esistenza, il fatto che in qualche modo il rituale la contenga e il Codice di diritto canonico l’abbia recepita.

A questa forma di celebrazione, la terza nell’ordine del Rito della penitenza, sono state aggiunte delle clausole che ne hanno impedito praticamente l’uso. Infatti, la Congregazione per la dottrina della fede, presieduta dal card. Šeper, nel 1972, quando vide che la Commissione dei teologi incaricati di preparare il nuovo rito era orientata ad ammettere la forma comunitaria con assoluzione generale, su un piano di parità con quella individuale, emanò un documento che costrinse a rovesciare i termini della questione. La pubblicazione, appunto, de Il sacramento della penitenza. Nome pastorali a riguardo dell’assoluzione sacramentale da impartirsi in forma collettiva, da parte della Congregazione, mentre i lavori erano in fase avanzata, fu un vero colpo di mano che obbligò la nuova Commissione – nel frattempo nominata, i cui membri furono scelti da Pierre Jounel (presidente) con l’esclusione di tutti quelli che fecero parte della prima – a tener conto delle sue direttive ed impedì un rinnovamento più profondo del rito.

Ci si venne così a trovare con tre forme celebrative, di cui la seconda è comunitaria solo nella cornice e la terza scarsamente utilizzabile, quando non formalmente interdetta, com’è nel caso dell’Italia. Un evidente compromesso, di cui patiamo ancora le conseguenze. Infatti, sarebbero bastati due riti: uno veramente comunitario ed uno individuale.

Gli "abusi" di oggi, se visti con occhio più benevolo, potrebbero rappresentare quella fase di sperimentazione che precede sempre il cambiamento e, anzi, degli indicatori del cammino futuro. Quantomeno, sono latori di una legittima esigenza di riforma del sacramento. Non dovrebbero costituire un’occasione per interrogarsi seriamente sulle ragioni che spingono una porzione del popolo cattolico a tentare una via nuova di celebrazione del sacramento? In definitiva, si tratta di gente che non è indifferente al peccato e alla misericordia di Dio.

Invece di lamentare gli abusi – fenomeno trascurabile in Italia, sicuramente più esteso, e probabilmente inarrestabile in altre parti del mondo –, sarebbe stato più proficuo rimediare al pastrocchio del 1973 (anno di promulgazione del rituale latino della Penitenza) con l’approvare a pieno titolo la forma comunitaria, liberata dalle riserve che la inceppano, come il dover "confessare a tempo debito i singoli peccati gravi" (MD, n. 7/a), già perdonati!

Si enfatizzano e si reprimono gli abusi, ma non si presta alcuna attenzione alle persone che fanno appello alla misericordia di Dio e desiderano celebrarla come comunità.

Quanto ai "gravi danni per la vita spirituale" di quei fedeli che anelano alla confessione individuale (di cui nessuno li vuole privare): perché non ci si preoccupa anche dei danni spirituali subiti da chi si trova in grande difficoltà con la confessione individuale e, invece, a proprio agio con quella comunitaria? Quanto danno ne deriva a parrocchie, comunità e gruppi dall’essere impediti di sperimentare un rito che, per sua natura, dovrebbe avere la precedenza su quello individuale e non rivestire "un carattere di eccezionalità" (MD, n. 4)?

È assurdo aver pensato il terzo rito come preparatorio al primo e quindi dichiarare fallito l’esperimento (peraltro brevissimo, com’è avvenuto, ad esempio, nella diocesi di Montreal, Canada), perché meno gente è ritornata ad utilizzare la confessione individuale. Affermare che la celebrazione comunitaria è in funzione di quella individuale, significa avere scarsa sensibilità liturgica e un concetto molto povero di popolo di Dio.

Ugualmente capzioso è il rilievo di un vescovo secondo cui alcune persone non si sentono perdonate con l’assoluzione collettiva e che, essendosi una volta messo a disposizione per le confessioni in una parrocchia, si formò la fila sino a tarda ora.

Questo si spiega con l’effetto placebo esercitato da riti abitudinari ed è ovviamente il risultato di quattro secoli e mezzo di una certa pastorale, che ha tenuto nella dipendenza e nell’infantilismo religioso tante persone. Per esse, si tratta di un residuo psicologico molto normale, in una fase di transizione, superabile dopo qualche tempo. Non pensiamo, però, che la maggioranza abbia questo tipo di problema, che è l’equivalente degli scrupoli che ancora provano, nonostante siano trascorsi quasi quarant’anni dall’inizio del rinnovamento liturgico del Vaticano II, alcune pie persone che dicono di "non sentirsi a posto" se non si confessano prima di fare la comunione. E in questi casi potete giurarci che non hanno sulla coscienza alcun peccato grave, e spesso neanche veniale!

A questo proposito, la Lettera tace – non del tutto comunque – sulla confessione di devozione, mentre ribadisce che è tenuto a confessarsi solo chi è consapevole di peccato grave o mortale. Dunque, in tutti gli altri casi non vige nemmeno l’obbligo della confessione annuale: un diritto poco, o per nulla, conosciuto dai fedeli, perché sottaciuto dai pastori d’anime educati all’uso ipertrofico della confessione (il Codice di diritto canonico del 1917 la prescriveva a cadenza settimanale per religiosi e seminaristi), come mezzo per "aumentare la grazia" e forse timorosi di concorrere alla perdita del "senso del peccato", e vedere così assottigliarsi ancora di più la frequentazione del confessionale.

 

La sovrapposizione

"In particolare, si raccomanda... la speciale disponibilità per confessare prima delle Messe e anche per venire incontro alla necessità dei fedeli durante la celebrazione delle SS. Messe, se sono disponibili altri sacerdoti" (MD, n. 2, corsivo nostro).

Questa "raccomandazione", anticipata nella risposta al dubium se "i fedeli possono accedere al sacramento della penitenza durante la celebrazione della messa", fornita dalla Congregazione per il culto divino, nel corso del 2001, annulla i risultati di oltre tre decenni di catechesi mirante ad evitare la sovrapposizione dei due sacramenti, perché non ne escono bene né l’uno né l’altro. Incoraggiare, ora, le confessioni durante la Messa, rappresenta una caduta in retaggi devozionistici più consoni ai secoli XVII-XVIII, benché si siano estesi sino al Vaticano II.

Nella stessa logica, non poteva mancare il richiamo "all'obbligo di confessare secondo la specie e il numero tutti i peccati gravi commessi dopo il Battesimo e non ancora direttamente rimessi mediante il potere delle chiavi della Chiesa, né accusati nella confessione individuale". Viene quindi "riprovato qualsiasi uso che limiti la confessione ad un'accusa generica o soltanto di uno o più peccati ritenuti più significativi" (MD, n. 3. corsivo nostro).

Rilievi conclusivi

MD è probabilmente il documento di un gruppo di anziani e influenti prelati, nostalgici di quanto si faceva ai tempi della loro infanzia. La centrale vaticana non vede la necessità di riforme e ad esse si oppone in ogni modo. Si avvale di esperti allevati nelle università pontificie romane, di sicura dottrina, cioè ad essa funzionali ed ossequienti.

A questo punto, è difficile immaginare che i fedeli possano "attingere abbondantemente alle fonti della misericordia divina, sempre zampillanti nel sacramento della Riconciliazione" (MD, n. 6), come è detto nell’ampolloso stile curiale.

Se fosse stata autorizzata come normale la forma comunitaria della Penitenza, accanto a quella individuale, si sarebbe andati verso un’opportuna semplificazione e valorizzazione del sacramento, oltre che ad un atteso aggiornamento. Si è optato, invece, per la pratica espunzione della più (timidamente) innovativa e significativa forma del rito, avvenuta dopo quasi 400 anni! Non solo dandone una interpretazione restrittiva, ma annunciando il suo confinamento in appendice nella prossima edizione del rituale. Quest’operazione, dopo tutto, è veritiera – nel senso che non lascia dubbi sulle reali intenzioni dei legislatori ecclesiastici – perché tale era il posto che le era stato assegnato sin da principio.

"Siate misericordiosi come lo è il Padre vostro" (Lc 6,36).

"Dio ci ha destinati all’acquisto della salvezza per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, il quale è morto per noi..." (1 Ts 5,9).

La salvezza che ci viene dal Signore Gesù è come un grande fiume, in grado di irrigare e dissetare tutto il mondo, ma è stato incanalato e convogliato in un imbuto strettissimo. Questa strozzatura è rappresentata dalle disposizioni disciplinari ecclesiastiche annesse al sacramento della Penitenza: per tante nostre sorelle e fratelli – di oggi, non di quattrocento o mille anni fa – le condizioni poste per essere in regola con il sacramento risultano umilianti, per molti estremamente onerose, per quasi tutti, più o meno tormentose. Per questo restano lontani da una fruttuosa celebrazione del sacramento. Queste condizioni, che fanno da filtro alla misericordia di Dio, non sono riconducibili alla volontà esplicita di nostro Signore, né alla prassi apostolica, né a quella della Chiesa dei primi secoli.

Il meccanismo della confessione, limitato alla sola forma auricolare (confessione dei singoli peccati ad un sacerdote) è riuscito ad inculcare la convinzione che il Signore è avaro di perdono, molto pignolo nella richiesta di osservanze e prontissimo a punire con l’inferno eterno. Sicché il sacramento della "pace interiore" si trasforma spesso in veicolo d’inquietudine, di scrupolo e perfino d’angoscia per penitenti e confessori. Niente di serio impedisce che possa essere riformato, com’è avvenuto in epoche precedenti, concilio di Trento compreso, prima che vada soggetto ad un processo d’implosione, di cui già si avvertono i segnali. I danni provocati dall’averne accreditato per secoli un’immagine burocratico/amministrativa sono sotto i nostri occhi. Anche se alcuni, tra coloro che contano nella Chiesa cattolica, vogliono ad ogni costo cullarsi nell’illusione, sognando i bianchi confessionali del Giubileo.




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