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Noi Siamo Chiesa

Sezione italiana del movimento internazionale “We Are Church” per la riforma della Chiesa cattolica

Legge sul fine vita: la seconda edizione del testo di Noi Siamo Chiesa con osservazioni sul dibattito e sul testo votato alla Camera

Sul fine vita: domande, ipotesi, risposte. Una riflessione di “Noi Siamo Chiesa” con un’opinione complessivamente positiva sul progetto di legge approvato dalla Camera  (seconda edizione)

 Nelle ultime settimane il problema del fine vita è entrato con irruenza nello “spazio pubblico” . La vicenda di Fabo e la questione del testamento biologico sono stati e continuano ad essere  all’attenzione dell’opinione pubblica, con le istituzioni coinvolte come mai negli ultimi anni. Il progetto di legge sul consenso informato e sul testamento biologico è stato approvato dalla  Camera.

Volendo anche noi, come in passato, dare un contributo da credenti e da cittadini della Repubblica, ci pare che si debbano premettere alcune constatazioni ed opinioni generali fondate, oltre che sul buon senso, sull’esperienza diffusa, e spesso sofferta, che ognuno di noi ha di situazioni di fine vita e sul come  queste questioni possano essere affrontate e regolamentate avendo come orizzonte delle stesse tutti i diversi valori che vi sono coinvolti.

La situazione

In sintesi per punti ci sembra che :

  1. anzitutto, per quanto ci riguarda come credenti, il fine vita è un compimento e un nuovo inizio. Ne parliamo troppo poco. Certe volte non siamo noi stessi succubi,  inconsapevolmente, di una cultura materialista diffusa, quasi dimentichi del cammino della creatura verso il suo fine ultimo? Paolo nella Lettera ai Romani  (8, 18-20) dice “Ritengo infatti che tutte le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi….. la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio”.
  2. nella nostra società, c’è in modo diffuso, molta rimozione dei temi legati alla morte. Stimoli di ogni tipo, idoli invadenti, una accelerazione della civiltà (sia nel bene che nel male)  inducono a una vita vissuta molto nel presente e ciò  anche perché la conclusione della vita è più lontana nel tempo che in passato e quindi con un maggiore  periodo di attività .   Sul fine vita ha scritto Enzo Bianchi (“Repubblica” del 21 febbraio) “non c’è informazione né educazione e si è ormai smarrita la sapienza e la naturalezza con cui in passato la si affrontava”.  Ciò sia in campo civile  che , a volte, anche religioso;
  3. forse ciò avviene perché  questo  momento supremo dell’esistenza, che si intreccia con domande  esistenziali di fondo, risente in questo momento storico di una maggiore difficoltà  ad avere, e a dare,  risposte ultime. Esse  erano più facili prima della crisi delle fedi e delle ideologie,  che avevano in sé  molte certezze, e prima dello svilupparsi della secolarizzazione con i dubbi, le ricerche e il senso del mistero  che essa porta con sé;
  4. ogni fine vita ha caratteristiche molto legate alla personalità del singolo e alle circostanze di ogni tipo in cui essa avviene. Non è facile  fare discorsi generali e fare casistiche;
  5. è  difficile per la legge intervenire  sul fine vita stante l’intreccio  tra coscienza del malato,  presenza dei famigliari e del personale sanitario e  condizioni concrete dell’assistenza.  L’attuale cd “area grigia” è quella dove si discute, ci si angoscia e alla fine si decide. Essa è difficile  da definire, è mutevole da caso a caso, e sicuramente non scomparirà anche in presenza di buone leggi. La norma deve essere consapevole dei suoi limiti. Si è parlato giustamente di “diritto mite” o “gentile” che deve limitarsi a stabilire dei paletti e a indicare dei percorsi. Ma la norma è necessaria per affermare diritti e obblighi nella situazione troppo indeterminata di adesso. I medici devono avere alle spalle norme che li tutelino se rispettano la volontà del malato e che li sollecitino a farlo;
  6.  le patologie che si devono affrontare sono  cambiate. I medici ci raccontano dell’aumento delle malattie neurodegenerative, di quelle psichiatriche e di quelle  croniche, parlano di multimorbilità. E’ una nuova situazione che condiziona  il modo di affrontare un fine vita spesso dopo una vecchiaia lunga e vigile;
  7. i progressi della medicina sono continui e non accennano a fermarsi, ponendo problemi sempre nuovi, rispetto ai quali, ha detto il card. Parolin, “neppure la società è preparata a rispondere”. Queste continue novità tendono a rendere sempre più complessi i problemi da affrontare che presentano, a volte, differenti variabili, tutte ugualmente possibili;
  8. siamo abituati a ragionare solo sui fine vita nel mondo occidentale. Bisogna essere consapevoli  che il problema si pone in modi molto diversi nei paesi della povertà, della miseria o della guerra dove l’accanimento terapeutico non c’è e semmai l’esatto contrario è la norma, anche se i fenomeni diffusi nel  Nord del mondo esprimono tendenze che tenderanno a generalizzarsi.

Che cosa è la vita?

La riflessione sul fine vita  pone la questione fondamentale sul cosa è la vita. In relazione a ciò di cui ci stiamo occupando, ai tempi del caso Englaro ci ponemmo ripetutamente il problema della differenza tra la vita biologica (quella di Eluana) e la vita biografica (quella che non aveva Eluana). Non stiamo mitizzando, ideologizzando la vita in sé per sé, anche se nel caso concreto essa è priva di coscienza e di dignità ? Dove troviamo nella nostra fede appoggio a una tale ipotesi?

Ci si richiama al diritto naturale. Ma un orientamento, con sempre maggiore consenso in diverse discipline,  riflette criticamente sull’esistenza di diritti insiti nella natura umana sempre e comunque validi, sia  nel tempo che nello spazio. Si  ragiona invece su  un approccio  alle gravi questioni che stiamo ponendo che sia  legato alle circostanze, al contesto in cui esse si determinano. Si   pensa  alla qualità di ogni atto morale  anche (ma non solo) in relazione a come la coscienza  del soggetto si autodetermina,  in relazione a come è condizionata e si è formata. Sono  molti quelli che apprezzano di più l’impegno  a favore del cd “durante” cioè a quanto c’è nel corso dell’esistenza  dell’uomo che ama , soffre,  gioisce e che è vivo, piuttosto che a favore dell’embrione o della persona che è  in stato vegetativo permanente. Ciò premesso, naturalmente  siamo ben convinti del valore della vita anche quando essa è  priva della caratteristiche che siamo soliti associare  a una vita “piena”: è il caso di tante persone che non hanno più, o hanno perso in parte, capacità intellettive o fisiche eppure sono in qualche modo pienamente vivi. La vita è sempre un mistero.

Una nuova consapevolezza sullo sfondo della discussione in corso

Attualmente c’è una grande area grigia attorno al malato terminale, essa  è densa di affetti, di conflitti e di sofferenze. Bisogna  riconoscere che sono stati fatti dei passi in avanti negli ultimi anni, almeno a livello della consapevolezza della situazione.  L’accanimento terapeutico, così come l’abbandono, vengono esclusi da tutti ma gli operatori sanitari dicono che essi, in alcune situazioni concrete sono difficili da distinguere. La sedazione  palliativa profonda e continua del morente viene ammessa nel progetto approvato dalla Camera mentre da tempo è stata approvata la legge sulle cure palliative (n.38  del 2010). Se questa legge fosse attuata in modo generalizzato, se essa fosse un vero concreto obbligo,  oltre a ridurre tante sofferenze, risolverebbe molte situazioni “al limite”, riducendo anche le tentazioni suicidarie o eutanasiche che nascono in situazioni estreme.

Dell’accompagnamento (relazioni famigliari, attenzione alle condizioni psicologiche del malato ed alle sue esigenze concrete) se ne parla molto mentre è posto il problema dei problemi,   quello di un “modello biomedico puro di tipo prestazionale che vede l’uomo malato come una macchina guasta da riparare a cui bisogna aggiungere un modello relazionale che metta la persona al centro” (Matilde Leonardi del Neurologico “Besta” di Milano, sull’Avvenire dell’11 febbraio). Questo possibile nuovo  modello esige l’educazione dei medici a un modo nuovo di studiare (a partire dagli studi universitari) e di fare poi medicina  oltre che  l’informazione e il consenso del malato. Tutto ciò è la premessa per la cd alleanza terapeutica che non sia solo una bella proposta (il progetto di legge la chiama “relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico” art. 1 comma 2). Nell’ambito  di  questa alleanza il malato deve avere diritto a un’informazione esatta, completa e paziente da parte del personale sanitario, rispettoso della sua sensibilità e delle sue indicazioni. Nell’alleanza il medico non deve decidere ma aiutare il malato a decidere.  A questo scopo, la qualità e le modalità dell’informazione e del dialogo sono uno dei problemi centrali dei trattamenti terapeutici e, in particolare,  della gestione del fine vita.

 Alcune  nostre convinzioni

Questa nuova consapevolezza è lo sfondo che sta alle spalle del dibattito sul progetto di legge votato dalla Camera. In questo contesto vogliamo affermare alcuni punti  che pensiamo non debbano essere messi in discussione:

–è necessario ispirarsi più che a  un’etica dei principi a un’etica della consapevolezza e della responsabilità da parte di tutti i soggetti presenti sullo scenario del fine vita;

— le cure palliative sono il fondamento di ogni approccio al fine vita. Nel dibattito in corso ci sembra che  siano state sottovalutate  la loro importanza e la necessità che siano praticate ovunque e in modo soddisfacente ;

–nessun malato è obbligato a fare alcunché, né DAT né altro, e ha invece diritto di decidere della sua malattia senza che le strutture sanitarie in ultima istanza  si impongano; ha però anche il diritto di essere bene informato sulle sue condizioni e sulle diverse possibilità che ha di fronte a sé nell’ambito dell’alleanza terapeutica;

–qualsiasi intervento legislativo o amministrativo non può e non deve essere pensato per ghettizzare i malati o per liberarsi di essi;

–la nutrizione e l’idratazione artificiali devono essere lasciate alla libera decisione del malato e non devono essere considerate sempre come un sostegno vitale obbligato, come pretendono molti medici che ritengono questa la questione principale della legge. In caso di stato vegetativo permanente e irreversibile esse devono  essere sospese, sentita, se del caso, l’opinione dei famigliari. Altri trattamenti sanitari , come, ad esempio,  la respirazione artificiale, devono essere ugualmente considerati  a disposizione del paziente;

–l’eutanasia è fuori dall’ordine delle decisioni da prendere ora e non è accettabile usarne il fantasma per bloccare una legge che è stata  rinviata per troppi anni;

–è importante pensare a esiti di fine vita in cui il malato sia  il meno possibile ospedalizzato  e resti o ritorni in famiglia, ogni volta che ciò sia possibile.

Il progetto votato dalla Camera

Tutto ciò premesso, il progetto di legge ci sembra complessivamente equilibrato, ragionevole e condivisibile con alcune riserve (per esempio sul  comma 7 dell’art.1, si  legga di seguito). Esso  ha come suoi pilastri il consenso informato, le DAT (Disposizioni anticipate di Trattamento) e la “Pianificazione condivisa delle cure” (art.4), atto simile alle  DAT ma concordato col medico di fronte a una prognosi infausta della malattia (questo programma concordato è fondato su una norma nuova che potrebbe essere positiva se non fosse più che ambiguo il concetto di condivisione; significa che al medico rimane un diritto di veto rispetto a un diverso orientamento del paziente?).

Altre norme riguardano i minori e le modalità di manifestazione del consenso. In particolare , in tutta le dinamiche del fine vita, ci sembra importante sottolineare il ruolo importante dei famigliari (quando ci sono) e della figura del fiduciario, qualora sia stato designato nei casi di perdita irreversibile di coscienza del malato. Siamo di fronte a un rovesciamento  del progetto di legge Calabrò che stava per essere definitivamente  approvato  dal Parlamento  nel novembre 2011 ma che cadde col governo Berlusconi  e non fu ripreso. Noi Siamo Chiesa in un lungo testo del 15 ottobre 2009 ( www.noisiamochiesa.org/riflessioni-di-noi-siamo-chiesa-sul-testamento-biologico-O/) approfondì molte delle questioni ora in discussione, denunciando la deplorevole non accettazione da parte della CEI della linea ufficiale della Chiesa contenuta nel paragrafo n.  2278 del Catechismo della Chiesa Cattolica (linea che  invece viene rispettata da altri episcopati del nordEuropa). Da qui la linea tenuta da Noi Siamo Chiesa sul caso Englaro. Ci richiamiamo al nostro testo di allora per analisi ed opinioni che non abbiamo modificate.

Siamo convinti che la coscienza e la libertà del malato siano i veri  valori non intaccabili  dalle istituzioni, che “la sacralità della vita libera, dell’autodeterminazione” (Vito Mancuso) non possa essere sottratta a chi è già in condizione di debolezza, che il malato debba essere aiutato a decidere della sua malattia, che il medico, i famigliari e i preti  lo debbano ascoltare lasciando che parli anche del suo vissuto attuale o precedente. Naturalmente si dovrà curare, con norme severe, che la volontà del malato sia espressa con il massimo di consapevolezza, lontana da momenti di sconforto o di depressione e come conclusione di una relazione col medico che valuti attentamente la situazione specifica della malattia e che aiuti il malato ad orientarsi. In questo percorso il malato non dovrà avere, come a volte succede,  un atteggiamento di sufficienza o anche di arroganza nei confronti delle proposte che gli sono fatte, magari dando fiducia irrazionale a terapie non sicure o di dubbia provenienza. Noi pensiamo  che la vecchia medicina paternalista ed autoritaria debba essere superata ovunque e che i tutti malati debbano avere un uguale trattamento, anziani e giovani, ricchi e poveri, prostitute e nobildonne, terminali e cronici ecc…Un esempio  della linea secondo la quale le pretese istanze etiche del medico dovrebbero prevalere sempre è contenuto nell’Appello dei giuristi promosso dal Centro Studi  Livatino del 27 marzo. Mentre invece un documento di particolare equilibrio che ci piace segnalare è quello congiunto della Fondazione Cortile dei Gentili, della SIAARTI (Società Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva) e SICP (Società italiana Cure Palliative) del 17.9.2015. Esso nasce con tutta evidenza da una riflessione interna sia alla sensibilità cattolica sia alla pratica clinica. In esso si tratta della proporzionalità delle cure, della loro pianificazione condivisa, del fiduciario, delle DAT, del rifiuto delle cure. Vi si afferma in conclusione: “L’esercizio di autodeterminazione va assecondato e sostenuto senza contrastare la scelta del paziente  che voglia affidarsi a persona di fiducia o direttamente al medico stesso”.  Ancora della SIAARTI esistono delle “Raccomandazioni per l’ammissione e la dimissione dalla terapia intensiva e per la limitazione dei trattamenti in terapia intensiva” (pubblicato su “Minerva anestesiologica” del marzo 2003). Questo lungo testo destinato agli operatori del settore ci è sembrato di grande interesse sia per il ruolo che attribuisce al malato (quando possibile)  sia per le altre indicazioni che vi sono contenute e che sembrano essere state scritte  per  ispirare la legge votata dalla Camera.

E’ stata introdotta la possibile obiezione di coscienza del medico. La nostra opinione  è critica 

Nel testo Calabrò il medico  aveva l’ultima parola, ora non più, prevale la volontà del paziente che è affermata con chiarezza (art. 1 comma 5). O perlomeno dovrebbe prevalere perché una modifica introdotta nel corso dell’iter legislativo   prevede che “il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali” (art.1 comma 7). In sostanza si dice che il medico si può rifiutare alla volontà del malato  appellandosi alla sua morale professionale. Ma chi la decide?  Nel Codice Deontologico dell’Ordine dei medici, all’interno di giuste parole sulla relazione di cura, si afferma  che il medico “tiene conto”della volontà espressa dal paziente . Questo semplice “tenere conto” (artt. 16,38,39) apre la strada, con tutta evidenza, a diverse possibili obiezioni di coscienza, con motivazioni non difficili da trovare.

Ci chiediamo se non entri dalla finestra quello che sembrava uscito dalla porta, cioè  la negazione della possibile obiezione di coscienza da parte del medico (si legga il lucido ed efficace intervento di Michele Ainis su “Repubblica” del 26 febbraio;  la  Commissione Giustizia della Camera ha proposto la soppressione di questo comma). Analogo ragionamento si può fare per le “buone pratiche clinicoassistenziali”. Chi decide delle loro caratteristiche? Anche per esse  si apre una incontrollata possibilità di usarle per praticare  di fatto obiezione di coscienza da parte del medico. Il compromesso raggiunto su questo punto specifico ci sembra non condivisibile. Esso è stato poi peggiorato da un testo aggiuntivo votato dall’aula della Camera che recita: “A fronte di tali richieste il medico non ha obblighi professionali” ed all’art. 5 è stato aggiunto che il medico potrà non tenere conto delle DAT qualora siano “manifestamente inappropriate”.

Bisogna dire le cose come stanno: questo comma 7 dell’art.1 permetterà al medico una vera e propria obiezione di coscienza  anche se essa si manifesterà caso per caso e non in modo istituzionalizzato (come invece è previsto nella legge n.194). Spetterà poi (art.1 comma 10) “ad ogni azienda sanitaria pubblica o privata garantire con proprie modalità organizzative” la piena attuazione dei principi della legge. Potremmo avere nel tempo una situazione simile a quella della legge sulla  IVG, con la necessità di rincorrere medici, qua e là, disposti a non opporsi alla volontà del malato. Non vorremmo cioè che, in nome della difesa della vita e grazie a questa norma che indirettamente lo consente, una parte della classe medica si arrocchi a difesa del suo ruolo e vanifichi almeno in parte una legge complessivamente positiva.

 Indipendenza del medico?

In effetti è sul ruolo del medico  che si gioca tutto. Una DAT a cui il medico può non dare seguito sarebbe qualcosa a cui il paziente e la più vasta opinione non presterebbero  fede in partenza. Per sostenere nella legge una norma che preveda   un’obiezione di coscienza  formalizzata e piena da parte del personale sanitario ( tipo quella prevista per la legge 194) chi è contro questo ddl sostiene  che l’alleanza terapeutica ha un limite, che il medico non deve sentirsi defraudato della sua professionalità, perché la “scienza e coscienza” del medico alla fine devono avere l’ultima parola. Non siamo d’accordo con la FNOMCEO (Ordine dei medici) quando, nella sua delibera del 17 febbraio a proposito del progetto di legge  in discussione, ha scritto:  “Il nostro compito di medici è quello di stare vicini alle persone, vivere per loro difendendo la nostra autonomia. Perché per noi l’autonomia è requisito imprescindibile per difendere la libertà del cittadino”. A noi sembra che questa autonomia, concepita come preliminare e non condizionata, può venire in conflitto col malato-cittadino, che ha invece diritto di gestirsi  la sua libertà e di essere aiutato a decidere e non a subire una decisione. Quella parte del  personale sanitario che ha queste opinioni non può arrogarsi il diritto di essere l’interprete della Costituzione e del suo articolo 32, a pena di essere o di essere considerato una casta, facendo dimenticare così i suoi meriti in tanti campi e in tante occasioni.

Sullo sfondo c’è la preoccupazione di “derive di tipo eutanasico”, secondo l’espressione che il Card. Ruini usò ai tempi del caso Welby. Ma il progetto di legge in discussione , come è stato detto tante volte, non si occupa di eutanasia, anche se  in queste settimane nella vasta area dell’opinione le diverse questioni relative al fine vita si sono piuttosto confuse e intrecciate nei media e nell’opinione pubblica. Riteniamo che si debba affrontare un problema per volta e che sia stato un errore quello dei radicali di presentare un progetto di legge che affrontava insieme le due questioni, testamento biologico ed eutanasia.

Welby, Englaro e i valori non negoziabili

L’opposizione al progetto di legge non è tanto  quella degli otto deputati di centro e di altri gruppi  che hanno fatto le barricate alla Camera  nella Commissione Affari Sociali e in aula. E’ quella del circuito ecclesiastico che assilla l’opinione pubblica e le istituzioni  come già, su versanti in qualche modo analoghi, è avvenuto con la  legge n. 40 e con le unioni civili, per fermarci a tempi recenti . Ci sono  due buchi neri  la cui cancellazione deve  essere la premessa per quel nuovo corso della Chiesa italiana che noi auspichiamo. Ci riferiamo ai casi Welby ed Englaro e alle relative  “campagne” che allora hanno compromesso  la credibilità della Chiesa per chi guardava ai comportamenti degli uomini di Chiesa e non alle parole di misericordia e di accoglienza del Vangelo. Da tempo aspettiamo su quelle due vicende una riflessione autocritica da parte dei vescovi ed anche un vero e proprio atto penitenziale collettivo.

La seconda questione riguarda i “valori non negoziabili”, uno dei quali sarebbe il fine vita secondo quanto pretendono  Ruini e Bagnasco e l’Avvenire con l’area di opinione che esso influenza. Essi difendono il prevalente  ruolo del medico,  il valore di ogni vita anche solo  biologica e ritengono sempre eccessiva la libertà del malato che sarebbe frutto di un  individualismo esasperato e inaccettabile. Riteniamo che questi “valori”  non possano essere supportati da un preteso diritto naturale  di cui sopra e in altre occasioni abbiamo detto.  Nel mondo cattolico esiste poi, in un  modo che è ora  abbastanza  sotterraneo, una concezione mistico-religiosa che considera la sofferenza fisica  come elemento di purificazione “in espiazione dei peccati”  e di santificazione che deve essere accettato   e vissuto con pazienza  nella convinzione che esso faccia parte di un disegno soprannaturale che ha una sua  logica imperscrutabile. Ci sembra un’ottica legata ad una forma di religiosità estranea ad una concezione positiva e serena della fede, che accetta il mistero della sofferenza, che è più che legittimo cercare di contenere e che è parte   del percorso della vita, senza ragionamenti artificiosi che pretendono di capire (Gv.9, 3).

Due linee diverse nella Chiesa

La mobilitazione contro questa legge è in corso e continuerà dopo il voto di ieri  alla Camera a larghissima maggioranza in previsione del dibattito al Senato e anche con la esplicita speranza che questo testo decada per la non lontana fine della legislatura. Un elemento nuovo, in questa linea di scontro, è costituito dal recente intervento di Francesco D’Agostino, Presidente dell’Unione Giuristi Cattolici e, da sempre, portavoce della linea rigida sui problemi etici. Egli, in un articolo del 30 marzo su “Avvenire”, si è espresso  in modo critico nei confronti di chi accusa la legge di portare a una deriva eutanasica (“la legge dice altro”), sostiene che una legge è necessaria e che “è storicamente superato e quindi anche eticamente discutibile” il paradigma paternalista nel rapporto medico-paziente. Quella di D’Agostino è una linea in evidente contraddizione con la campagna in corso (anche se poi egli sostiene essere preziosa la norma del comma sette dell’art.1, che noi critichiamo). Posizioni ricche di riflessioni e di un approccio  attento ai nuovi problemi nati nella tutela della salute e alla necessità di riconoscere l’autonomia del paziente sono presenti da tempo nel mondo cattolico. Per esempio l’intervento di Giannino Piana su Adista (n. 13 del 1.4.2017) ma,  tra tanti, ci piace ricordare, in particolare, il magistrale intervento di Carlo Maria Martini  (su “Il Sole24Ore” del 21.1.2007) “Io, Welby e la morte”, in cui si possono leggere, sotto traccia, i criteri ispiratori  della legge votata dalla Camera.

Quindi, a buon ragione, da tempo ci rammarichiamo che la Chiesa si isterilisca su queste questioni. Essa potrebbe invece richiamarsi al suo intervento  nelle strutture sanitarie, nel volontariato, in associazioni per i disabili,  per i tossici , per ogni forma di recupero e di assistenza ad ogni tipo di sofferenze. E’ un intervento che esiste, che è importante, che attua forme vere di compassione e di misericordia alle quali questa campagna ci sembra  estranea.

Il Vaticano è prudente

In questa situazione, all’interno della quale si colloca la discussione in Parlamento, stanno venendo alla luce nella Chiesa due ottiche diverse che  attraversano negli ultimi anni il mondo cattolico, anche se le diverse posizioni emergono sempre  sottotono.

Dalla  posizione di Bagnasco e dalla martellante campagna dell’Avvenire si passa a un moderato comunicato conclusivo del Consiglio Episcopale Permanente della CEI  di gennaio fino alla linea del Vaticano che è stata espressa oralmente  il due marzo dal Card. Parolin con due parole “ascolto e rispetto”. Questa linea sembra essere quella stessa di papa Francesco  che più volte ha toccato il tasto giusto: no alla cultura dello scarto, no all’abbandono degli ultimi , dei più deboli , dei più sofferenti. Essa  si è manifestata  con la decisione di una funzione religiosa per Fabo nella parrocchia milanese di S. Ildefonso nel cui oratorio egli crebbe. A questo proposito ha scritto Alberto Melloni (su “Repubblica” del 7 marzo): “La Chiesa ogni tanto è il luogo  dove la grazia fa vivere il Vangelo. Ed è la grazia che ha fatto capire che, proprio nella vita ridotta così a niente da desiderare di lasciarla, c’è la traccia del Figlio di Dio, fatto uomo per piegarsi fino al sepolcro e agli inferi”.

La riflessione continua

La riflessione sul fine vita continuerà a lungo. “Noi Siamo Chiesa” vi è coinvolta  sia per quanto riguarda gli aspetti etici e spirituali attinenti al comportamento di ogni credente, sia per quanto riguarda l’intervento delle istituzioni e le discussioni presenti nella società, come in questi giorni.  Pensiamo che debba sempre essere forte e rilevante la compassione e la misericordia per ogni scelta di coscienza, coerente o no con le opzioni di principio che si possono sostenere e che  questo atteggiamento potrebbe avere conseguenze nel campo del diritto e soprattutto nel rifiuto di ogni stigmatizzazione morale per scelte fatte in un campo così delicato. Nella Repubblica ideale descritta da Tommaso Moro nella sua famosa “Utopia” si ragiona su come sia possibile uscire dalla situazione di un “malato inguaribile, con continue sofferenze, inetto a qualsiasi compito, molesto agli altri, gravoso a sé stesso e che sopravvive alla propria morte”.

Auspichiamo, come molte volte in passato, che il rapporto tra cultura cattolica e cultura laica (per usare due generalizzazioni) si incontri in una comune corresponsabilità su queste tematiche e che una possibile  pacificazione non si fermi dopo la possibile approvazione di una legge che non merita, per la sua importanza e  la sua delicatezza, di essere coinvolta o travolta da fondamentalismi di ogni tipo.  Accompagnamento del malato, divieto dell’ accanimento e dell’ abbandono,  vera comprensione della  sofferenza del malato, educazione degli operatori sanitari  a una  relazione  non solo terapeutica,  qualità dei servizi e loro diffusione sul  territorio, diritti del malato e rispetto prioritario della sua coscienza, sempre. Perché non deve essere possibile una concordia che comprenda ed accetti?

                                                                          NOI SIAMO CHIESA

Roma, 21 aprile 2017

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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