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Noi Siamo Chiesa

Sezione italiana del movimento internazionale “We Are Church” per la riforma della Chiesa cattolica

8 marzo: Enzo Bianchi dice che nella Chiesa la donna è protagonista ma di serie B. La situazione deve cambiare. Si dice troppo e si fa poco o niente


Le aperture della Chiesa hanno dei limiti

di Enzo Bianchi
in “La Stampa” del 6 marzo 2016

Nella Chiesa del tempo post-conciliare, da quando papa Giovanni con il suo discernimento
profetico individuò tra i «segni dei tempi» l’ingresso della donna nella vita pubblica, più volte si
sentono voci.
A cominciare da quelle dei papi che si levano per chiedere una più grande valorizzazione della
donna nella Chiesa, una sua maggior partecipazione alle diverse istituzioni che la reggono e la
organizzano, un riconoscimento a lei di tutte le facoltà che in quanto battezzata – e ciò vale anche
per i laici battezzati – possiede di diritto.
Come negare che dopo il Vaticano II ci sia una forte presenza femminile nella maggior parte dei
servizi e delle diaconie ecclesiali? Nella catechesi, nella formazione cristiana, nell’animazione
liturgica sovente oggi sono le donne a supplire alla mancanza di presbiteri. Qua e là esistono ancora
posizioni indurite che negano la possibilità alle donne, e di conseguenza alle ragazze, di essere
ammesse attorno all’altare, ma all’ambone ormai salgono più donne che uomini a proclamare le
sante Scritture. Va effettivamente riconosciuto che la presenza e il servizio delle donne è ritenuto
necessario, ma quanto all’ammetterle negli spazi di partecipazione alle responsabilità e alle
decisioni per la vita ecclesiale, l’esitazione è ancora grande sicché l’icona che la Chiesa presenta
alla società è quasi totalmente maschile e appare, lo si voglia o no, un corpo mutilato.
Giustamente le teologhe chiedono di evitare la ricerca di una teologia speciale della donna, ma di
far partecipare le donne alla vita della Chiesa: basterebbe che là dove ci sono uomini non ordinati –
cioè non preti o vescovi – si potessero vedere anche delle donne, battezzate come loro. Nessun
attentato alla dottrina, ma una semplice adesione alla realtà della Chiesa, composta come l’umanità
da uomini e donne. Molte sono le possibilità rispettose dell’attuale dottrina cattolica sul ministero
ordinato: basterebbe un po’ di audacia e di volontà di non limitarsi a fare come si è sempre fatto, un
po’ di coraggio nell’intraprendere vie che conferirebbero alla donna non «immagini stereotipate
romantiche e poetiche» ma un riconoscimento di ciò che è una cristiana: una battezzata con la
possibilità di prendere la parola in ecclesia, di essere ascoltata collaborando ai processi decisionali
nella Chiesa. Se sinodalità come la intende papa Francesco è un camminare insieme non solo di
vescovi, ma di tutto il popolo di Dio, allora si devono immettere anche le donne cristiane in questo
cammino fattosi così urgente anche se tanto difficile e faticoso.
Papa Francesco nella Evangelii gaudium stigmatizza le guerre presenti nello stesso popolo di Dio ed
è proprio in questo contesto che non dimentica come il maschilismo e il clericalismo non
riconoscano con sufficienza «il bisogno di allargare gli spazi per una presenza femminile più
incisiva nella Chiesa» (EG 103): perciò si augura questa presenza anche dove vengono prese
decisioni importanti e chiede a pastori e teologi di cercare e di impegnarsi per dare alla donna un
ruolo conforme alla sua dignità di membro del corpo di Cristo nella storia che è la Chiesa. Certo,
anche papa Francesco non può far altro che ribadire la dottrina tradizionale circa il ministero
presbiterale riservato sin dall’età apostolica solo agli uomini e ancor oggi così normato nella Chiesa
cattolica e in tutte le Chiese ortodosse.
Ma questo non significa che la Chiesa debba appiattirsi su posizioni che poco hanno a che fare con
questa preclusione limitata al ministero ordinato e che pur hanno caratterizzato il modo in cui la
Chiesa ha considerato le donne nel corso della sua storia bimillenaria. A ragione alcune teologhe
sapienti esprimono il timore che oggi «nel momento di passaggio tra il secondo e il terzo millennio
cristiano, abbia luogo un riflusso involutivo analogo a quello che ha segnato il passaggio tra il
primo e il secondo secolo cristiano e che ha portato alla marginalizzazione delle donne dall’ecclesia
cristiana». E se le mutate condizioni socio-culturali rendono meno concreta questa possibilità, resta
la nostra grave responsabilità di operare affinché ciò non avvenga.
Oggi, infatti, nella nuova situazione segnata da una rivoluzione antropologica e culturale inedita in
gran parte avviata dalle donne, non possiamo più dilazionare una serie di possibilità di presenza
della donna nella vita della Chiesa e nell’assemblea liturgica. Quello che si dovrebbe chiedere,
almeno in obbedienza al messaggio di Gesù, è che sia consentito alle donne ciò che è consentito agli
uomini laici, come da sempre è avvenuto nel monachesimo, che riconosce anche alla donna
possibilità di governo, di predicazione, di insegnamento dottrinale, di guida spirituale. Non c’è mai
stata nessuna differenza nel servizio dell’autorità tra un abate e un’abbadessa, tra un priore e una
priora, né si vede perché, se ci sono «padri spirituali», non ci possano essere «madri spirituali». La
valorizzazione della presenza, dei carismi e dei ministeri delle donne nella Chiesa cattolica non può
dipendere da semplici «auguri» mai attuati, né da ostinate rivendicazioni: passa attraverso l’ormai
ineludibile riscoperta della pienezza della vocazione battesimale e del conseguente apprezzamento
della chiamata che ogni cristiano ha ricevuto per annunciare e testimoniare il vangelo di Gesù
Cristo agli uomini e alle donne del proprio tempo.
Il teologo Armando Matteo ha scritto «La fuga delle quarantenni» per indicare la disaffezione e
l’abbandono della Chiesa da parte delle donne, ma presto se le cose non mutano, registreremo il
venir meno anche delle donne più giovani: chi accetta di abitare una casa senza aver possibilità di
viverla, governarla, rinnovarla ogni giorno assieme agli altri?


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