Chiesa povera: ora, dall’annuncio ai fatti. A Napoli, incontro del “Vangelo che abbiamo ricevuto”
lunedì, 10 marzo 2014
Luca Kocci
Adista Notizie n. 10 del 15/03/2014
La suggestione di papa Francesco di una «Chiesa povera e per i poveri» non poteva non essere al centro dei discorsi e delle riflessioni emerse durante il sesto incontro del percorso di «comunione, confronto e ricerca sinodale» del “Vangelo che abbiamo ricevuto” (v. Adista nn. 30, 39, 45, 54, 59, 60, 65, 69 e 116/09; 4, 6, 8, 15, 18, 22, 31, 35, 40, 62, 69, 73, 74 e 82/10; 58, 66 e 69/11; nn. 34, 36, 38, 43/12; nn. 34, 38, 40 e 43/13; n. 6/14), che si è svolto a Napoli lo scorso 1-2 marzo e che aveva come titolo “Il Vangelo è annunciato ai poveri”.
«Quando siamo partiti, nel 2007, la situazione era del tutto diversa perché vivevamo in tempi di ruinismo dilagante e vincente, e allora decidemmo di riunirci a Firenze, nel nostro primo incontro, per consolarci in un deserto che sembrava senza fine», ricorda Massimo Toschi. «Poi, il 13 marzo 2013, con l’elezione di Bergoglio a papa, e dopo aver evitato il rischio di ritrovarci il card. Scola sulla cattedra di Pietro, il clima è decisamente cambiato. E per esempio, 50 anni dopo Lercaro e Dossetti, sentiamo nuovamente parlare di Chiesa dei poveri: “Il Signore vuole una Chiesa e dei poveri”, ha scritto Francesco nel messaggio per la prossima Giornata mondiale della gioventù. Si tratta ora di camminare su questa strada».
A partire però dalle condizioni materiali, ovvero economiche e sociali, del tempo presente, come spiega p. Fabrizio Valletti nella sua ampia relazione che apre e guida l’incontro. «Apprendiamo da un rapporto di Oxfam che le 85 persone più ricche del mondo detengono la stessa quota di ricchezza del 50% più povero dell’intera popolazione mondiale». Allora, prosegue il gesuita che opera nel centro Hurtado di Scampia, «è necessario avvertire il fallimento di tutti quei presunti incantesimi di benessere e di ricchezza, legati ai sistemi di un capitalismo e di un imperialismo economico e finanziario che hanno recato danni irreversibili anche al nostro pianeta». Se poi rivolgiamo lo sguardo all’Italia, «è più che evidente che alla base dei processi economici così devastanti c’è soprattutto una crisi etica e di valore, che si manifesta soprattutto nella pirateria finanziaria, nella corruzione, nel disprezzo del bene comune, nell’impunità di reati come il falso in bilancio, nel conflitto di interesse, nell’evasione fiscale, nella collusione fra malavita organizzata, imprenditori, politici e amministratori». Si tratta allora di cambiare strada, «ritornando al Vangelo del Regno» e schierandosi dalla parte dei poveri che, nella stragrande maggioranza dei casi, sono «dei derubati e degli impoveriti». Sono degli «esclusi», aggiunge il teologo don Giuseppe Ruggieri, che «svelano la contraddizione – una contraddizione frutto del capitalismo – della storia: l’impossibilità di mangiare tutti insieme alla stessa tavola». E Luciano Guerzoni, della Fondazione “Ermanno Gorrieri” di Modena, sottolinea il neologismo coniato da papa Francesco: «Inequità. Una parola nuova che intende esprimere il concetto di una diseguaglianza immorale». Esattamente il contrario di quella «diseguaglianza sociale frutto dell’ordine naturale voluto da Dio teorizzata da Pio X», ricorda don Alessandro Santoro, prete da vent’anni alla Comunità delle Piagge di Firenze. «Viene nuovamente posto allora – prosegue Guerzoni – il problema della distribuzione delle risorse, che è un problema politico economico che i cristiani non possono ignorare». Ad esempio, nota Franco Ferrari, della rete “I Viandanti”, aprendo una riflessione anche sui patrimoni e sui beni della Chiesa e «sull’utilizzo di tali beni». «Occorre abbandonare le sicurezze del recinto del sacro che escludono tutti quelli che restano fuori, soprattutto i più poveri», aggiunge suor Rita Giaretta, di Casa Rut (Caserta). «Papa Francesco ha detto che la Chiesa è un “ospedale da campo”, ma io credo che debba essere anche una “sala parto”, perché gli emarginati e gli esclusi non chiedono solo di essere medicati, ma anche liberati».
Ma per «cercare insieme quanto il Vangelo di Gesù possa essere oggi dirompente motivo di cambiamento e di speranza – prosegue Valletti –, è necessario anzitutto spogliarsi da ogni atteggiamento di chi presume di avere soluzioni certe e definitive. Troppo spesso nella storia ci si è serviti dello stesso nome di Dio per imporre interessi di parte, con espressioni di dominio e di potere che allontanavano i popoli dalla prospettiva di quel Regno voluto da Gesù, basato sull’uguaglianza e sulla pace». Sembrano risuonare le parole dell’economista Claudio Napoleoni – «Cercate ancora» – quando p. Valletti invita a «cercare con vigore e lealtà nuove vie e nuovi strumenti, visto che il già percorso e il già vissuto ha prodotto traguardi di morte». E a questo proposito «è necessario spogliarci da facili sentenze o da atteggiamenti dottrinali che, se anche perfetti nella dimensione teologica e canonica, spesso sono troppo distanti dalla loro realizzazione pratica. Si avverte in questo senso la distanza che si manifesta fra le dichiarazioni del Catechismo della Chiesa cattolica e della stessa Dottrina sociale della Chiesa, e quella che è la prassi di tante comunità di cattolici. Finché le regole sono in un certo modo formulate da ecclesiastici o teologi, in virtù della loro dottrina, potrà sempre rimanere incompiuta l’opera del Signore, che agisce con amore partendo dai piedi dell’umanità».
A porre in maniera netta il dito nelle contraddizioni della Chiesa – le contraddizioni dell’essere «nel mondo ma non del mondo», sintetizzano Peyretti e Ruggieri – e anche a paventare i rischi di un nuovo «papismo» con l’esaltazione acritica di ogni parola e gesto di papa Francesco, è Cristina Simonelli, presidente del Coordinamento teologhe italiane, la quale sostiene che, dopo le grandi e importanti affermazioni di principio pronunciate in molte occasioni da Bergoglio, «la riforma deve toccare anche i livelli intermedi», ovvero lo Ior, i beni della Chiesa, ecc., altrimenti rischia l’inefficacia. E Luigi Sandri, della Comunità di base di San Paolo, che individua nel Concordato il “peccato originale” che impedisce alla Chiesa italiana di essere davvero «povera e dei poveri». C’è una via di uscita, «che i nostri gruppi dovrebbero chiedere con forza: un nuovo Concilio, aperto anche alla partecipazione dei laici, perché i tanti rivoli dispersi divengano fiumi e le belle idee sparpagliate producano cambiamento», sia a livello di strutture, sia di dottrina, «perché è difficile pensare di poter aggiornare la pastorale, per esempio su temi sensibili come quello dei divorziati e degli omosessuali, senza intervenire anche sulla dottrina».
Don Santoro cita don Lorenzo Milani, e quel testo straordinario che è la “Lettera dall’oltretomba”, in appendice ad Esperienze pastorali: «Cari e venerati fratelli, voi certo non vi saprete capacitare come prima di cadere noi non abbiamo messa la scure alla radice dell’ingiustizia sociale. È stato l’amore dell’“ordine” che ci ha accecato. (…). Non abbiamo odiato i poveri come la storia dirà di noi. Abbiamo solo dormito. È nel dormiveglia che abbiamo fornicato col liberalismo di De Gasperi, coi congressi eucaristici di Franco. Ci pareva che la loro prudenza ci potesse salvare», ma «quando ci siamo svegliati era troppo tardi. I poveri erano già partiti senza di noi». Ma è «contro Dio, è peccato mortale – aggiunge il prete delle Piagge – dormire, fornicare ed essere prudenti». Lancia una proposta don Santoro (che però don Ruggieri reputa «ingenua»), «affinché incontri belli come questo non finiscano nel nulla», sulla scia del Patto delle catacombe firmato alle catacombe di Domitilla il 16 novembre 1965 da circa 40 padri conciliari, dopo che lo stesso Concilio Vaticano II aveva marginalizzato il tema della «Chiesa povera e dei poveri», che per il card. Lercaro avrebbe dovuto essere invece il cuore del Concilio: «Elaborare un piccolo numero, 5-10, di impegni concreti sul tema della povertà in cui donne, uomini, gruppi e comunità cristiane si riconoscono e che si impegnano a vivere nella quotidianità, come singoli ma soprattutto come Chiesa». Per iniziare a trasformare, dal basso, la Chiesa in «Chiesa povera e dei poveri».
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DONNE, POVERTÀ, PRIVILEGI: DA NAPOLI, TRE SFIDE PER LA CHIESA
All’incontro di Napoli del “Vangelo che abbiamo ricevuto” (v. notizia precedente), la relazione introduttiva di Enrico Peyretti – peraltro ripresa in alcuni passaggi solo da alcuni degli interventi che si sono susseguiti nel fine settimana dell’1-2 marzo – ha affrontato soprattutto alcuni dei nodi ecclesiali più problematici: il ruolo delle donne nella Chiesa, il papato e i beni e i patrimoni ecclesiastici.
«Non è più possibile, pena l’esclusione dalla storia, che la Chiesa neghi parità di accesso a tutte le funzioni alle donne come agli uomini. Il problema non è delle donne, ma della Chiesa – dice Peyretti –: non è se la donna può o non può, ma se la Chiesa sa camminare insieme a questa umanità di uomini e donne, insieme, nel mezzo, come il lievito buono nella pasta. L’effettiva povertà della Chiesa cattolica comporta la piena integrazione della soggettività femminile, superando secolari poteri e pretese e resistenze dottrinali che emarginano e periferizzano le donne».
Poi il ruolo del papato. «Francesco – spiega –, che si è detto vescovo di Roma prima che papa, potrà dirsi anche cittadino di Roma, pastore in mezzo al popolo, quando svincolerà il suo ministero di unità, in una Chiesa povera, dalla posizione giuridica costantiniana di capo di Stato»: «Non sia più – aggiunge – il sovrano di un suo Stato territoriale, neppure piccolo».
Infine i beni e i patrimoni ecclesiastici. «La Chiesa, libera da ogni attaccamento alle ricchezze, svolga le attività ordinarie con distacco e sobrietà, rinunciando a quelle opere, privilegi e beni, anche legittimamente acquisiti, che non siano conformi allo spirito evangelico o indispensabili ai compiti pastorali. Segni concreti sarebbero: rinunciare alle scandalose operazioni finanziarie, versare le imposte dovute, mettere a disposizione dei poveri conventi e altri edifici inutilizzati. La Chiesa sia libera da ogni potere sulla società, respinga connivenze politiche in cambio di privilegi economici e garanzie legislative; e al proprio interno anteponga misericordia e dialogo al giudizio e alla condanna, sempre nel primato della difesa dei deboli».
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