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Il 19 aprile 2009 Benedetto XVI ha compiuto i suoi primi quattro anni di pontificato. Non sono molti, ma consentono già di cogliere la nuova direzione che il Papa sta imprimendo al cammino della Chiesa. La percezione è che siamo dinanzi a una svolta difficile. Lo dimostra il clima che oggi si respira, certamente diverso da quello fiducioso dei primi anni del postconcilio. Molte sono le voci critiche: i rapporti della Chiesa con il mondo si sarebbero irrigiditi; il dialogo interno e con le altre comunità cristiane sembra stagnare; quello interreligioso talvolta sembra addirittura regredire. Che cosa succede nella Chiesa cattolica?
A conferma che queste difficoltà sono reali è venuta la lettera all’episcopato mondiale, scritta da Benedetto XVI il 10 marzo 2009 circa la remissione della scomunica che dal 1988 gravava sui quattro vescovi scismatici della Fraternità Sacerdotale San Pio X, fondata nel 1970 da monsignor Marcel François Lefebvre (cfr testo integrale in La Civiltà Cattolica I [2009] 592-597). Ora che il clamore mediatico si è sedato, vale la pena di riprendere in mano con serenità quel documento.
Il Papa si dice sorpreso e rammaricato che il suo «gesto discreto di misericordia» nei confronti dei lefebvriani abbia potuto suscitare «all’interno e fuori della Chiesa Cattolica una discussione di una tale veemenza quale da molto tempo non si era più sperimentata»; fino al punto che molti vescovi «si sono sentiti perplessi […]. Alcuni gruppi, invece, accusavano apertamente il Papa di voler tornare indietro, a prima del Concilio: si scatenava così una valanga di proteste, la cui amarezza rivelava ferite risalenti al di là del momento» (ivi, p. 592). L’opinione pubblica non poteva fare a meno di chiedersi: a che cosa si riferisce il Papa quando parla di «ferite risalenti al di là del momento»? Quali piaghe, nel corpo della Chiesa, sono così profonde da giungere a negare al Papa «il diritto alla tolleranza», al punto che «può pure lui essere trattato con odio senza timore e riserbo» (ivi, p. 596)? Perciò, era inevitabile che quella lettera ai vescovi cattolici, inusuale nella forma e nel contenuto, finisse per rinfocolare il dibattito su quale veramente sia la linea del pontificato attuale.
Al di là delle interpretazioni più diverse e strane fiorite sui mass media, vorremmo qui tentarne una nostra lettura. Infatti, la lettera del Papa consente di cogliere meglio il senso del suo pontificato, perché di fatto lo colloca all’interno della difficile crisi apertasi nella Chiesa dopo il Concilio Vaticano II. Si tratta – lo abbiamo detto altre volte – di uno di quei periodi di purificazione che, in concomitanza con le svolte più ardue della storia umana, annunziano e preparano «una nuova primavera cristiana» (cfr SORGE B., Introduzione alla dottrina sociale della Chiesa, Queriniana, Brescia 2006, 113). Avviene cioè che, ciclicamente, nella storia della Chiesa, ritornano i tempi apostolici. Lo Spirito Santo la guida, la libera dalle scorie che il tempo deposita irrimediabilmente sugli uomini e sulle istituzioni e la riporta alla purezza delle origini, preparandola a essere fermento di una nuova civiltà. In simili periodi, la fede sembra regredire, la Chiesa si riscopre minoranza, il suo insegnamento è inascoltato e deriso, i cristiani vengono emarginati culturalmente e socialmente, talora perseguitati e uccisi.
Sono momenti di tribolazione, ma fecondi; poiché – come dice san Paolo -, la tribolazione produce perseveranza, la perseveranza rafforza la fede, e una fede forte induce a riporre la speranza solo in Dio (cfr Romani 5, 4). Ritorna, cioè, la consapevolezza che la forza della Chiesa non sta nel favore dei potenti, nelle ricchezze e nei privilegi, nei riconoscimenti pubblici, neppure nel prestigio culturale. La forza della Chiesa sta nella Parola di Dio che le è affidata, nella santità dei suoi figli, nella povertà evangelica; le vere ricchezze della Chiesa sono i poveri, i piccoli, i sofferenti, gli emarginati. La storia conferma. Tutte le volte che la Chiesa è stata ricca, forte e privilegiata ha conosciuto i suoi «secoli di ferro»; quando invece è stata povera, debole, emarginata e perseguitata, ha conosciuto i suoi «secoli d’oro». Lo diciamo non per consolarci di fronte alle chiese che si svuotano, alla fede che si indebolisce, alle vocazioni che scarseggiano, alla società che si scristianizza; ma perché questa è la logica con cui Dio compie le sue opere, come Cristo stesso ha spiegato all’Apostolo: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2 Corinzi 12, 9).
Pertanto, affermando che ritornano i tempi apostolici, si vuol sottolineare l’analogia evidente che esiste tra le sfide dei cristiani di oggi e quelle degli inizi. Tanto da poter dire che, come allora, il travaglio della Chiesa non è quello dell’agonia e della morte, ma del rinnovamento e della crescita. Ecco perché è importante riprendere in mano la lettera pontificia ai vescovi cattolici sul caso dei lefebvriani. Essa, infatti, aiuta a comprendere con maggior chiarezza 1) il metodo, 2) le priorità e 3) lo stile del pontificato di Benedetto XVI.1. Il metodoOgni riflessione sul pontificato di Benedetto XVI non può non iniziare dall’atteggiamento da lui assunto nei confronti del Concilio Vaticano II. Quale sia, il Papa stesso l’ha detto chiaramente fin dall’inizio (cfr il discorso «Alla Curia Romana per il Natale», 22 dicembre 2005, in Aggiornamenti Sociali, 2 [2006] 159-169). La sua prima preoccupazione nei confronti del Concilio è assicurarne anzitutto la corretta interpretazione. Respinge, perciò, l’«ermeneutica della discontinuità». Secondo i fautori di questa chiave di lettura, il Concilio avrebbe prodotto una netta «rottura» tra la Chiesa preconciliare e quella postconciliare; gli stessi decreti emanati dal Concilio sarebbero il risultato di un compromesso tra vecchio e nuovo, e quindi nella loro interpretazione e attuazione si dovrebbe andare oltre la «lettera» e lasciarsi guidare piuttosto dallo «spirito» dell’evento ecumenico.
Certo – ammette il Papa – non si può negare che vi sia discontinuità nel modo con cui il Concilio ha definito la relazione tra fede e scienza, tra Chiesa e Stato moderno, tra cristianesimo e religioni del mondo; tuttavia – insiste – i principi evangelici di fondo restano i medesimi, è cambiata solo la forma della loro applicazione a contesti nuovi: «Il Concilio Vaticano II, con la nuova definizione del rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno, ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche, ma in questa apparente discontinuità ha invece mantenuto e approfondito la sua intima natura e la sua vera identità» (ivi, p. 168). Pertanto – conclude il Papa – la vera chiave di interpretazione del Concilio è l’«ermeneutica della riforma», che aiuta a coglierne la novità nella continuità.
A questo punto, anche se non ne parla in modo esplicito, Benedetto XVI si avvicina molto alla tesi, che abbiamo enunciata, del ritorno dei tempi apostolici. Infatti ricorda alcune svolte importanti della storia cristiana, quando, di fronte a profondi cambiamenti culturali, sociali e politici, la Chiesa non esitò a ripensare e a proporre in termini nuovi il rapporto tra fede e ragione: «San Pietro, nella sua prima lettera, aveva esortato i cristiani a essere sempre pronti a dare risposta (apo-logia) a chiunque avesse loro chiesto il logos, la ragione della loro fede (cfr 3, 15). Questo significava che la fede biblica doveva entrare in discussione e in relazione con la cultura greca […]. Quando nel XIII secolo, mediante filosofi ebrei e arabi, il pensiero aristotelico entrò in contatto con la cristianità medievale formata nella tradizione platonica, e fede e ragione rischiarono di entrare in una contraddizione inconciliabile, fu soprattutto san Tommaso d’Aquino a mediare il nuovo incontro tra fede e filosofia aristotelica […]. La faticosa disputa tra la ragione moderna e la fede cristiana che, in un primo momento, col processo a Galileo, era iniziata in modo negativo, certamente conobbe molte fasi, ma col Concilio Vaticano II arrivò l’ora in cui si richiedeva un ampio ripensamento» (ivi, pp. 168 s.). Dunque, le difficoltà e le contraddizioni del nostro tempo esigono che la Chiesa faccia ricorso all’«ermeneutica della riforma» nell’interpretazione del Concilio, per realizzare quella novità nella continuità, necessaria per proseguire in «fedeltà dinamica» il cammino di rinnovamento postconciliare. Pur prendendo questa posizione netta a favore dell’«ermeneutica della riforma», Benedetto XVI è consapevole che, nonostante l’unità raggiunta dai Padri conciliari sui grandi orientamenti dell’aggiornamento della Chiesa, tuttavia sono rimasti aperti molti gravi problemi che il Concilio non ha affrontato e altri che sono nati dopo. È una sorta di zona grigia, ancora da chiarire, che sta all’origine di tante incomprensioni e lacerazioni: che siano queste le «ferite risalenti al di là del momento», di cui parla il Papa nella lettera?2. Le prioritàBenedetto XVI, in questi primi quattro anni di pontificato, ha mostrato largamente di considerare come priorità assoluta del suo servizio apostolico quella di riportare la fede della Chiesa alla purezza delle origini. Da qui l’insistenza con cui continua a riproporre l’essenza del messaggio cristiano alla luce della Parola di Dio e dell’insegnamento dei Padri e a riformulare le ragioni della fede in forma adeguata alla cultura moderna. Quale sia lo schema logico del suo programma pastorale traspare chiaramente da tutti i suoi discorsi e, in particolare, dalle due encicliche: Deus caritas est (2005) e Spe salvi (2007).
La remissione della scomunica ai lefebvriani gli offre ora l’occasione per esporre con maggiore chiarezza le priorità del suo pontificato, per rispondere all’obiezione di fondo che gli è stata mossa: era così urgente e necessaria questa decisione? Era veramente una priorità? «Certamente – risponde Benedetto XVI – ci sono cose più importanti e più urgenti. Penso di aver evidenziato le priorità del mio Pontificato nei discorsi da me pronunciati al suo inizio. Ciò che ho detto allora rimane in modo inalterato la mia linea direttiva» («Lettera», p. 594). Passa, quindi, a esporre in forma quasi sistematica qual è questa linea.
La prima priorità fra tutte è la fede; questa priorità – dice – non l’ha scelta lui, ma l’ha ricevuta dal Signore. Per rispondere adeguatamente alle sfide del nostro tempo, occorre anzitutto mostrare che non c’è contraddizione, ma complementarità, tra fede e ragione, tra speranza cristiana e speranze umane. «La prima priorità per il Successore di Pietro – spiega – è stata fissata dal Signore nel Cenacolo in modo inequivocabile: "Tu […] conferma i tuoi fratelli" (Luca 22, 32). Pietro stesso ha formulato in modo nuovo questa priorità nella sua prima Lettera: "Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi" (1 Pietro 3, 15). Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede corre il pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non a un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (cfr Giovanni 13, 1) – in Gesù Cristo crocifisso e risorto. Il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini e con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più. Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia: questa è la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del Successore di Pietro in questo tempo» («Lettera», p. 595).
La seconda priorità che papa Ratzinger si è prefissa è l’unità dei credenti, la quale è strettamente collegata al primato della fede in Dio: «La loro [dei credenti] discordia, infatti, la loro contrapposizione interna mette in dubbio la credibilità del loro parlare di Dio. Per questo lo sforzo per la comune testimonianza di fede dei cristiani – per l’ecumenismo – è incluso nella priorità suprema. A ciò si aggiunge la necessità che tutti coloro che credono in Dio cerchino insieme la pace, tentino di avvicinarsi gli uni agli altri, per andare insieme, pur nella diversità delle loro immagini di Dio, verso la fonte della Luce – è questo il dialogo interreligioso» (ivi). L’importanza data dal Papa all’unità di tutti i credenti spiega anche il senso profondo del recente viaggio in Medio Oriente, in cui Benedetto XVI non ha mancato di sottolineare che «il dialogo trilaterale [con gli ebrei e con l’Islam] deve andare avanti, è importantissimo per la pace e anche per vivere bene ciascuno la propria religione» («Intervista concessa ai giornalisti durante il volo verso la Terra Santa», 8 maggio 2009, in <www.vatican.va>). E nel discorso del 9 maggio alla moschea al-Hussein bin-Talal di Amman (Giordania) ha sostenuto che «l’adesione genuina alla religione – lungi dal restringere le nostre menti – amplia gli orizzonti della comprensione umana. Ciò protegge la società civile dagli eccessi di un ego ingovernabile, che tende ad assolutizzare il finito e ad eclissare l’infinito; fa sì che la libertà sia esercitata in sinergia con la verità, e arricchisce la cultura con la conoscenza di ciò che riguarda tutto ciò che è vero, buono e bello. Una simile comprensione della ragione, che spinge continuamente la mente umana oltre se stessa nella ricerca dell’Assoluto, pone una sfida: contiene un senso sia di speranza sia di prudenza. Insieme, Cristiani e Musulmani sono sospinti a cercare tutto ciò che è giusto e retto» (in <www.vatican.va>).
Infine, il Papa ritorna spesso con forza sulla terza priorità del suo pontificato – il primato dell’Amore -, che in un certo senso riassume le altre due: «Chi annuncia Dio come Amore "sino alla fine" deve dare la testimonianza dell’amore: dedicarsi con amore ai sofferenti, respingere l’odio e l’inimicizia – è la dimensione sociale della fede cristiana, di cui ho parlato nell’Enciclica Deus caritas est» («Lettera», p. 595).
Dunque, è in virtù di queste priorità che Benedetto XVI ha deciso di rimettere la scomunica ai quattro vescovi lefebvriani. Lo dice egli stesso: «Se dunque l’impegno faticoso per la fede, per la speranza e per l’amore nel mondo costituisce in questo momento (e, in forme diverse, sempre) la vera priorità per la Chiesa, allora ne fanno parte anche le riconciliazioni piccole e medie», una delle quali è chiaramente la riconciliazione con la Fraternità San Pio X. «Era ed è veramente sbagliato – chiede, perciò, il Papa con un lieve accento polemico – andare anche in questo caso incontro al fratello che "ha qualche cosa contro di te" (cfr Matteo 5, 23-24) e cercare la riconciliazione?» (ivi, pp. 595 s.).3. Lo stileLa lettera di Benedetto XVI ai vescovi cattolici costituisce infine un esempio importante di stile evangelico, tanto più significativo quanto più rigida e severa viene giudicata di solito la figura dell’ex Prefetto della Congregazione della Fede. Il «gesto discreto di misericordia» con cui il Papa ha aperto la strada al ravvedimento dei vescovi lefebvriani non è affatto contro, ma in pieno accordo con lo «spirito» del Concilio. Giovanni XXIII l’aveva indicato nel discorso d’apertura, l’11 ottobre 1962, con parole rimaste famose: la Chiesa – affermò – sempre si è opposta agli errori e spesso li ha condannati con la massima severità, «ora, tuttavia, la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia piuttosto che della severità».
Rimettendo la scomunica ai vescovi lefebvriani, Benedetto XVI ha agito in coerenza con questo «spirito»; e lo ha fatto coscientemente, distinguendo «il livello disciplinare, che concerne le persone come tali, e il livello dottrinale in cui sono in questione il ministero e l’istituzione» (ivi, p. 594). In altre parole: l’amore e la misericordia verso la persona superano i confini della legge ecclesiastica e perfino quelli dell’ambito dottrinale. Perciò il Papa, mentre da un lato ribadisce con chiarezza che è necessario essere fedeli alla dottrina («Non si può congelare l’autorità magisteriale della Chiesa all’anno 1962 – ciò deve essere ben chiaro alla Fraternità» [ivi]), nello stesso tempo offre ai quattro vescovi che ancora non l’hanno abbracciata pienamente un cammino verso la riconciliazione. L’amore evangelico viene prima. È lo stile che il Papa incoraggia quando scrive: «Il cristiano sa quando è tempo di parlare di Dio e quando è giusto tacere di Lui e lasciar parlare solamente l’amore. Egli sa che Dio è amore (cfr 1Gv 4, 8) e si rende presente proprio nei momenti in cui nient’altro viene fatto fuorché amare» (Deus caritas est, n. 31 c). Fu questo lo stile della Chiesa nascente. Purtroppo ce ne siamo talmente dimenticati da restare scandalizzati perché il Papa con i lefebvriani ha messo da parte il Codice e ha lasciato parlare l’amore. Commenta padre Lombardi, direttore della sala stampa vaticana: «Al di là degli errori o delle disavventure, che vanno riconosciuti lealmente e superati per quanto possibile, al di là di una prudenza umana attenta ad evitare di toccare punti critici, il Papa ci riporta dunque con decisione e coraggio al Vangelo come criterio fondamentale e ultimo, non solo della vita cristiana ed ecclesiale, ma anche del suo governo della Chiesa. Perché solo da una comune conversione a questo Vangelo possiamo attenderci il superamento delle divisioni, come pure la comprensione della convergenza profonda di Tradizione e Concilio. Alla fine comprendiamo che il nostro Papa, esponendosi in prima persona anche nelle situazioni di crisi, ci guida a ritrovare il punto essenziale, più profondo e radicale, da cui riprendere il cammino» (Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana, 12 marzo 2009, 71 [2009]).
Quanto desidereremmo che – sull’esempio del Papa – tutti imparassimo a lasciar parlare maggiormente l’amore e il Vangelo, vincendo la tentazione di trincerarci, senza misericordia, dietro la disciplina ecclesiastica!
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