Benedizione e potere: una confusione illecita
di Andrea Grillo
in “Come se non” – http://www.cittadellaeditrice.com/munera/ – del 15 marzo 2021
Un responsum è un atto classico di una Congregazione. Non impegna se non chi lo firma. Può chiedere tutte le benedizioni e le intercessioni del caso, ma resta solo la risposta ad una domanda. Il responsum di oggi, 15.03.2021, che può essere letto qui nella sua integralità, è suscitato da questo
domanda: “La Chiesa dispone del potere di impartire la benedizione a unioni di persone dello stesso sesso?” e la risposta suona “no”.
I responsa possono anche chiudersi qui. Domanda e risposta telegrafica. Talora hanno una parte di motivazione, che in questo caso si articola su diversi livelli. Su ognuno di questi livelli si può notare l’utilizzo di una serie di categorie, di nozioni e di riferimenti che restano largamente al di sotto di ciò che viene chiesto. Anzitutto per il fatto che la Congregazione sembra vittima della domanda chesi vede rivolta. E’ piuttosto sorprendente che un Ufficio che sta nella tradizione di un Maestro di “risposte sorprendenti” e di “prospettive spiazzanti” resti così bloccato e quasi vincolato da una domanda fuorviante. Perché la prima cosa che si sarebbe dovuto rispondere, ad una tale domanda, è che è posta male. Perché è una domanda sul “potere”, ma pretende di parlare di “benedizione”, che è un atto di riconoscimento, non di potere.
Qui, io credo, un pizzico di lavoro sistematico avrebbe dovuto suggerire, agli estensori del testo, di uscire da una prospettiva troppo angusta: poteri di impartire benedizioni, poteri di applicare messe, poteri di rimettere pene sono un linguaggio molto condizionato, e molto provinciale. Questo modo di parlare della “sfera liturgico-sacramentale” è troppo segnato, storicamente e burocraticamente, da preoccupazioni di “controllo” e non riesce ad entrare davvero nella domanda, che avrebbe potuto, nonostante la sua tendenziosa formulazione, ricevere risposta più alta.
Ma c’è un secondo punto su cui la domanda è unilaterale. Perché lascia intendere che vi sia una “domanda di potere maggiore” – domanda che viene dalla esperienza ecclesiale – alla quale la istituzione può rispondere con un atto di sovrana rinuncia. Dicendo “no”. Non abbiamo il potere.
Questo è un sistema raffinato, un dispositivo sottile, molto utile per capovolgere la realtà: una Chiesa che non riesce ad “uscire da sé”, a “entrare nel reale”, per mantenere tutto il potere, esattamente come lo ha gestito fino a ieri, legge tutto ciò che le chiederebbe un supplemento di intelletto e di cuore come oggetto proibito, a causa di una “assenza di potere”. Ciò che qui appare, in un modo estremamente chiaro, è un “dispositivo di blocco”: la tradizione resta chiusa e non ha altro che da essere custodita in un museo. La realtà che cambia non ha alcun potere di modificare le nozioni e le procedure acquisite.
La impostazione della risposta, succube di una domanda distorta, finisce nelle “secche” di una sistematica ancora più distorta della domanda. I passaggi sono chiari: non si può benedire una relazione che è “oggettivamente disordinata”. Che si legga la “relazione omosessuale” come “disordine” è la risorsa catechistica di chi vuole tenere la scrivania in ordine, non molto di più. Ma per cambiare prospettiva non bisogna inventare una nuova Chiesa: è sufficiente aggiornare la biblioteca della Congregazione.
Qui mi limito a ricordare solo tre distinzioni che la Chiesa ha già elaborato da tempo e che non sembrano essere note agli estensori del “responsum”:
a) è vero che i sacramentali, come la benedizione, hanno una certa “analogia” con i sacramenti, ma se vengono interpretati come un “atto efficace” più che come un “rito ecclesiale di valorizzazione del bene”, possono indurre a chiedere “condizioni” troppo simili alla “comunione ecclesiale”. La benedizione non è un sacramento perché non chiede nulla ai soggetti, nemmeno il battesimo. Dice il bene e riconosce il bene che c’è. Se la analogia con i sacramenti viene spinta al punto da chiedere per una benedizione della relazione le condizioni di una “benedizione nuziale”, questo diventa un errore sistematico che si paga caro, perché causa un massimalismo di approccio insuperabile.
Sarebbe stato molto più cavalleresco e saggio insistere sulla differenza tra benedizione e benedizione nuziale. Ma le distinzioni non sembrano un terreno su cui la Congregazione sia interessata ad insegnare alcunché.
b) che le condizioni della benedizione di una “relazione di coppia” facciano riferimento alla “condizione matrimoniale” – e quindi scoprano il peccato in ogni relazione esterna al matrimonio – rende di fatto inutilizzabile la benedizione come strumento “ponte” tra il cuore della Chiesa e la sua periferia. Ma le benedizioni sono precisamente questo, ossia il linguaggio più elementare con cui la tradizione parla radicalmente a tutti: alle navi e ai cannoni, alle stalle e ai cieli, alle coppie e ai singoli, in tutti i modi in cui questi possono essere “capaci di bene”. Non trasformare tutta la esperienza ecclesiale nel “cuore eucaristico” della Chiesa, che ha ovviamente le sue brave esigenze, è un’altra distinzione che sarebbe stata utile, ma è rimasta dimenticata.
c) l’idea che, nel benedire una relazione, la Chiesa compia un atto di “riconoscimento ufficiale” della sua bontà sul piano pubblico, rende il responsum incapace di restare fedele, proprio sul piano sistematico, alla questione in gioco. Ossia se davvero, anche nel benedire, la Chiesa possa uscire da quell’atteggiamento che Amoris Laetitia definisce “meschino” (AL 303). Ossia la pretesa che ci sia una “oggettività istituzionale” che sottrae alla Chiesa ogni potere pastorale. Prima la “irregolarità dei concubini”, poi quella dei “divorziati risposati”, ora quella delle “coppie omosessuali”: se tutto viene affrontato con l’ansia di una legge pedagogica che tutto assume e controlla, la Chiesa non può spostarsi da una posizione di “super pubblico ufficiale”. Solo cambiando prospettiva è possibile leggere diversamente la realtà di tutte le coppie. Perché “famiglia” non è solo questione di “lecito/illecito”, ma è anche una condizione di fatto e un dono immeritato. Per questo ciò che i pubblici ufficiali ritengono illecito può diventare nutriente e luminoso non solo per i soggetti che lo domandano, ma anche per la chiesa che li accompagna. Purché non si dia ormai soltanto una chiesa in cui i ministri si siano rassegnati ad essere semplici funzionari, senza avere più alcuna capacità di profezia e con un discernimento ridotto alla scrupolosa applicazione di un codice. Una domanda mal posta sarebbe stata la occasione per offrire almeno alcune distinzioni feconde.
L’unica distinzione che appare, invece, è la solita consolazione “spirituale” in un atto “istituzionale”. Nessuno è discriminato, guai a pensarlo, ma tutti sono ridotti alla impotenza. La vita è altrove.
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