L’intervento della Conferenza Episcopale contro il governo è arrogante. La pandemia deve essere invece l’occasione per ripensare le forme della vita cristiana
L’impatto della pandemia nella vita della Chiesa può essere vista anche e soprattutto da un punto differente di chi soffre solamente per l’impossibilità delle Messe e delle altre forme del culto. Mi sembra che la situazione stia facilitando in modo diffuso la ricerca di forme diverse di vivere la propria fede. L’uso delle trasmissioni via computer ne sono solo un aspetto (del tutto insufficiente). Fuori dal circuito delle forme abituali e ripetitive dei riti religiosi, domande e risposte ( seppur parziali e in divenire) sulla vita cristiana mi sembra si stiano ponendo non solo a chi vive fortemente la propria spiritualità ma anche a tante donne e uomini in ricerca che si stanno ponendo interrogativi di senso. Ciò, in particolare, di fronte alla sofferenza e alla morte che la situazione ci butta in faccia in queste settimane. La presenza di tanti cristiani e del clero nell’aiutare i sofferenti e in iniziative di aiuto sociale, la stessa presenza solitaria di papa Francesco in piazza S. Pietro il 27 marzo e la via crucis del venerdì santo sono stati momenti intensi di solidarietà e di apertura alla speranza cristiana ed umana. Per i credenti quello di oggi è un momento di sofferenza ma anche di tanta apertura alle radici del nostro Evangelo.
Ciò premesso, mi sembra che il testo diffuso questa notte dalla Conferenza episcopale italiana di critica aspra al governo debba essere contestato fortemente. Mi sembra grottesco il sostenere che sia in atto una specie di attacco alla Chiesa, alla sua libertà, alla sua autonomia, alla sua libertà di culto. Mi sembra solamente e semplicemente che , alla fine nelle discussioni sulla fase2, siano prevalse tra gli scienziati e nel governo ragioni di prudenza. Tutto qui. Mi sembra che il parlare di decisioni arbitrarie, pretendendo che la Chiesa sia una specie di isola separata ed extraterritoriale, sia l’espressione di una autosufficienza presuntuosa che non sta nei fatti e neppure nei documenti ecclesiali. Nella storia della dialettica tra Stato e Chiesa fondata sulla sovranità e l’indipendenza reciproca di cui parla l’art.7 della Costituzione questo mi sembra uno dei punti più bassi. I vescovi dovrebbero usare di questa contingenza straordinaria per pensare a forme della vita cristiana meno dipendenti dalla rigidità delle norme canoniche e più attente ad ogni manifestazione dello Spirito, che, alla base della vita di fede, circola dove vuole e come vuole ed è una sorgente che va aldilà della tradizionale vita sacramentale .
Non posso infine non chiedermi se questo intervento, così irruento e pesante, non faccia parte dell’offensiva di tutta l’ala conservatrice e preconciliare della Chiesa perché si torni indietro. E’ la stessa che apprezza l’esibizione dei rosari nei comizi.
Roma, 27 aprile 2020 Vittorio Bellavite, coordinatore nazionale di Noi Siamo Chiesa
LIBERTA’ DI CULTO O LIBERAZIONE DEL CULTO IN DIREZIONE DELLA VITA?
di don Gianluca Zurra
L’episodio evangelico dei discepoli di Emmaus (Lc 24, 13-35) dovrebbe essere, per la Chiesa di tutti i tempi, un riferimento canonico circa lo stile della sua missione. Gesù si accosta e cammina con i discepoli, senza invadenza, ma condividendo “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono” (Gaudium et Spes 1). Traduciamolo per noi: il battesimo non cancella il nostro essere cittadini del mondo, ma lo esige. Appartenere fino in fondo alla comune umanità è la condizione della fede, perché senza di essa anche il Vangelo non sarebbe udibile, non risuonerebbe come lieta notizia, rischiando di essere percepito come ideologia.
Se oggi, a causa della pandemia, non siamo nelle condizioni adeguate per poter celebrare insieme l’Eucaristia, non significa che venga meno la “libertà di culto”, ma si tratta di riscoprire la prima, fondamentale, profetica testimonianza cristiana dello stare accanto, della capacità di condividere nel quotidiano la fatica che tutti stiamo attraversando.
Se al centro sta davvero l’umanità e la cura per l’uomo, come l’incarnazione dovrebbe insegnarci, allora possiamo riscoprire in modo fresco, propositivo, senza contrapposizioni, che la vita ecclesiale non può essere concentrata in modo esclusivo sul momento cultuale. La Chiesa c’è, eccome, là dove sta riemergendo la forza e la profondità della Parola di Dio, là dove storie bellissime di solidarietà, spesso nascoste, tengono in piedi la nostra socialità ferita, là dove le famiglie, le associazioni custodiscono la luce del Vangelo con la loro quotidiana testimonianza di vita. Mi piacerebbe che nei comunicati ecclesiali istituzionali risuonasse questa freschezza, che per altro già è presente in abbondanza nel sostrato di tanti cristiani; vorrei che se ne parlasse di più, che ci raccontassimo di come la nostra attuale “Eucaristia” sia questo coraggioso “stare accanto”, come ha fatto Gesù con i due discepoli di Emmaus.
La stessa cosa vale per i funerali: perché continuare a dire che non si celebrano? Non è così: l’accompagnamento al cimitero, ben preparato, curato nello stile e nei particolari, dovrebbe essere la forma normale delle esequie, a cui purtroppo non ci siamo abituati, perché non ci siamo preparati per tempo a ripensare questo momento così importante al di là dell’Eucaristia, continuando a ritenere che “quando non c’è messa, non c’è nulla”. Se mai proprio sulle esequie, affinché possano essere vissute con più calma e in modo più comunitario, si potrebbe chiedere all’istituzione civile un’attenzione a proposito di una possibile partecipazione più allargata al cimitero, pur nel rispetto delle giuste regole, essendo un luogo all’aperto, molto più gestibile rispetto al luogo chiuso delle chiese.
In ogni caso, credo fermamente che il “digiuno eucaristico” a cui ci costringe la serietà di una pandemia da non prendere per nulla sotto gamba, non è contro la libertà di culto, ma mi piace leggerla come la possibilità di liberare il culto in direzione della vita, perché quando sarà di nuovo possibile gustare insieme il pane del cammino possiamo averne davvero fame e non dimenticarci mai più del suo inconfondibile sapore. Non stiamo vivendo senza Eucaristia: ne stiamo sperimentando un risvolto fondamentale, che l’abitudine stava rischiando di farci perdere!
Dunque, credo che sia opportuno non trasformare l’Eucaristia in una bandiera (messa sì, o messa no!) e, se mai, sempre con il rispetto necessario, alzare un po’ di più la voce sulla mancanza (questa sì problematica!) di prospettive ad ampio respiro sulle scuole, sulla gestione famigliare dei figli, sulle nuove povertà che si stanno profilando, sulla realtà giovanile e universitaria, sul senso della didattica a distanza. È su tali questioni che, come Chiesa, dobbiamo dare un contributo profetico, evitando di dare al virus l’ultima parola con precipitose e inutili contrapposizioni.
Torneremo a celebrare, come fonte e culmine irrinunciabile della nostra fede, ma adesso è importante ricordarci a vicenda che lo stare accanto non è altra cosa dall’Eucaristia: è l’espressione della sua più profonda verità, in attesa di poterla rivivere con gioia e in modo finalmente rinnovato. Questa è l’ora di essere nulla di meno che cittadini responsabili, consapevoli che proprio così diventiamo pane buono gli uni per gli altri, Corpo di Cristo dentro questo faticoso sentiero di Emmaus, in cui tutti cerchiamo di camminare, semplicemente come uomini!
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