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COMUNICATO
R come Rupnik, come Ribes? R come “Rape Culture”
Il caso recentemente emerso degli abusi perpetrati dal gesuita p. Marko Rupnik non rappresenta
nulla di nuovo in ambito ecclesiastico. L’unico elemento di novità è costituito dalla notorietà del
soggetto, tenuto in altissima considerazione e venerato tanto da raggiungere una sorta di
intoccabilità. Per il resto, le dinamiche emerse non mostrano altro che un sistema consolidato:
– di reti di potere, rinsaldate dall’appartenenza a un grande Ordine religioso;
– di perversione del potere, che usa il sacro per mistificare;
– di massimo controllo sulle vittime e di assoggettamento del loro pensiero, delle azioni e delle
scelte;
– di coperture rese possibili da un meccanismo di opacità e omertà, dal culto idolatrico della
personalità e dalla mancanza di credibilità attribuita alle vittime per il solo fatto di essere donne
adulte.
La stessa richiesta della Compagnia di Gesù alle vittime di farsi avanti, dopo un’altalena di
affermazioni contraddittorie e tutt’altro che trasparenti, risponde a una logica di svalutazione delle
persone coinvolte, la cui sfiducia nell’istituzione sarebbe più che legittima.
Il singolo caso, nei suoi elementi strutturali, assomiglia a tanti altri: uno per tutti, impressionante
anche per l’identico contesto artistico, è quello del francese p. Louis Ribes, il “Picasso della
Chiesa”, accusato di aver abusato sessualmente di decine di bambini e bambine, dopo averli
convinti a posare per le sue opere.
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Occorre tuttavia superare la frammentarietà dei singoli casi, soprattutto per risalire il fiume e
individuare e riconoscere le radici strutturali degli abusi, frutto di una cultura pervasiva ben salda
nella Chiesa cattolica:
– Una teologia del ministero ordinato che divinizza il prete (alter Christus, ipse Christus),
ponendolo in una posizione asimmetrica di superiorità e persino di differenza d’essenza (cf. LG 10)
rispetto al resto del popolo cattolico, in particolare rispetto alle donne. Questa posizione apre la
strada ad abusi affettivi, di potere, psicologici, spirituali, sessuali e patrimoniali, e consente al
prete predatore, con il suo corredo di mistificazioni teologiche tese a legittimare i suoi atti, di
manipolare le vittime e di risultare più credibile della vittima che lo denuncia.
– La negazione e l’annullamento della dimensione sessuale con ricadute devastanti sulla vita dei
preti; esiste nel clero un analfabetismo affettivo e relazionale di gravissimo livello, in
contraddizione con il ruolo di guida che ricopre di fatto perfino nelle relazioni intime dei fedeli. Il
celibato ministeriale obbligatorio, spesso unicamente di facciata, è funzionale tuttavia ad
avvalorare la qualità ascetica e superiore del prete stesso; la sessualità umana, compressa e
repressa, ne viene patologizzata e pervertita, privata spesso della dimensione relazionaleempatica
e trasformata così in puro strumento di gratificazione autoreferenziale e strumento di
controllo e potere sulle persone.
– Una svalutazione delle donne, ancora trattate, nella pratica e nonostante proclami di ogni sorta,
come esseri di serie B. Una svalutazione veicolata tramite una mariologia mistificante,
strumentalmente tesa a trasmettere un ideale femminile di superiorità fittizia, docilità e
obbedienza, che nega in definitiva un piano di parità con gli uomini; una svalutazione che va
ricondotta alla «logica del dominio del chierico maschio “ontologicamente superiore”» (cfr.
comunicato del 22/12 del gruppo “Re-in-surrezione”).
– Una vita consacrata femminile nella quale difficilmente le capacità intellettuali sono fatte
crescere, i talenti alimentati, le competenze valorizzate, a tutto favore di una permanenza delle
religiose in un ruolo di subalternità, non di rado ben poco rispettoso della dignità e dell’autonomia
della persona.
– Una permanente tutela dell’istituzione a fronte del diritto alla giustizia, alla verità e alla dignità
delle vittime e dei sopravvissuti/e ad abusi perpetrati dal clero, che si tratti di bambini, di donne o
di persone in situazione di vulnerabilità; una tutela dell’istituzione che si nutre di omertà, di
mancanza di trasparenza, di conservazione di equilibri di potere, di ritorsioni; che esprime viltà,
disonestà intellettuale e quanto di più lontano dal messaggio evangelico; che porta a una
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rivittimizzazione delle persone colpite, le quali si sentono tradite per la seconda volta da
quell’istituzione che hanno chiamato “madre” e da quegli uomini che hanno chiamato “padre”.
– Una giustizia canonica opaca e “personalizzabile” che si flette e si torce sempre e solo in difesa
dell’imputato e a misura della sua grandezza e fama; che non conosce trasparenza né
comunicazione pubblica e si aggrappa alla decadenza dei termini per salvare il colpevole; che nel
nostro Paese, svincolata da qualsivoglia obbligo giuridico di denuncia alla giustizia laica, spesso
abbandona la vittima al suo destino, nell’impunità consentita dall’assenza totale di vigilanza e
attenzione dello Stato nei confronti di ogni tipo di abuso perpetuato nella Chiesa.
Le dinamiche dolorosamente – ma opportunamente – narrate dalla stampa, cui va ascritto il
merito di aver fatto emergere il caso Rupnik, non hanno trovato nessuno di noi impreparato.
L’abuso – affettivo, di potere, psicologico, spirituale, sessuale, patrimoniale – è insito nella cultura
stessa, autoreferenziale e autoprotettiva, dell’istituzione, rimasta essenzialmente clericocentrica
nonostante il Concilio Vaticano II.
È ora che la base cattolica e la cittadinanza aprano gli occhi e gridino il loro “basta!” davanti a
questo sfiguramento della dignità e dei diritti umani; che le vittime possano prendere la parola e
testimoniare apertamente, senza timore di non essere credute o di ritorsioni, questo scempio
fatto in nome del Vangelo; che le donne nella vita consacrata pretendano strumenti di
emancipazione, formazione, discernimento e autonomia; che la gerarchia della Chiesa si occupi in
primo luogo di chi è stato ferito, annientato, ucciso nello spirito, quando non anche nel corpo.
Coordinamento Italy Church Too
24 dicembre 2022
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