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Noi Siamo Chiesa

Sezione italiana del movimento internazionale “We Are Church” per la riforma della Chiesa cattolica

Cattolici di base di Brindisi fanno una analisi della Chiesa esprimendo sofferenze e proposte


“Un clamore sordo si leva da milioni di uomini
che domandano ai loro pastori una liberazione
che non viene loro da nessuna parte”

Siamo laici che da anni nelle loro scelte di vita cercano di fare riferimento al Vangelo e alla Costituzione italiana.
Non siamo costituiti in associazione o movimento. Da cristiani e laici (sempre aspiranti e in cammino!) ci siamo trovati uniti da un bisogno e da un disagio: il bisogno di riflettere sulla attuale vita e situazione della nostra chiesa; il disagio di avvertire in essa rassegnazione, lamentele, chiacchiere, e soprattutto, tanta in-significanza di essa per le vicende sempre più complesse della vita locale. Cerchiamo di capire il perché di questa marginalità, il perché di tanta rassegnazione, di tante lamentele chiacchierate e di tanti silenzi imbarazzati.

Ci preme però fare una premessa che consideriamo di fondamentale importanza. Ci sentiamo corresponsabili, ciascuno per i suoi limiti e le sue omissioni e controtestimonianze, di quanto nella chiesa non corrisponde al suo dover essere ed ai contenuti essenziali della sua missione. Una corresponsabilità che segna lo spirito di questa nostra iniziativa e che ci apre all’ascolto ed alla collaborazione.
La nostra riflessione si appunta su due fatti rilevanti degli ultimi cinque anni della chiesa brindisina: il sinodo diocesano del 2008-2010 “In Cristo per un cammino di comunione e di missione” e la nomina di un nuovo Arcivescovo nel gennaio 2013 .
Scrivere questo documento non è stato facile. Le questioni ecclesiastiche non sembrano interessare più a nessuno. Non interessano a chi sta bene perché non riguardano il profitto economico e il mantenimento del livello di vita raggiunto. E non interessano a chi non ha lavoro, a chi è ammalato, a chi è senza futuro perché preso dalla stretta del bisogno. Superare l’obiezione che è “inutile” non è stato facile. Come anche non è stato facile superare la convinzione di alcuni di noi che un documento “non serve” perché la chiesa non cambia, in quanto troppo rigida e monolitica.
Riteniamo che, in questa situazione, però, è più facile il silenzio indifferente che una parola franca. Senza sostituirci a chi non ha il coraggio della “franchezza”, crediamo alla pazienza e non alla protesta. Radicati in una considerazione critica della esperienza passata e presente di molti di noi nella chiesa locale, senza mai assumere l’atteggiamento di chi è superiore o diverso, ci sentiamo umili ma non remissivi. Non professori che danno lezione ma discepoli che hanno sempre da imparare dal Vangelo e dalla storia e che sono più propensi a porre domande che a esprimere certezze o giudizi inappellabili.
E non per stile letterario. La storia moderna non è come un cono dal cui vertice è possibile vedere tutta la superficie del cono stesso (come nel medio evo). E’, invece, come una sfera. Da nessun punto è possibile avere la vista di tutta la sua superficie. Per questo esprimiamo il nostro punto di vista con affermazioni che pongono interrogativi, che mettono in gioco prima di tutto noi.

Urge un radicale cambio di modello delle chiese occidentali

Le chiese occidentali vivono come in un inverno culturale.
Manca loro quella speranza che è il punto forte di altre chiese non europee.
Questo inverno ecclesiastico ha due facce: l’identificazione esclusiva del cristianesimo con la civiltà occidentale e un modello di vita di chiesa che ruota solo attorno alla dottrina e al diritto canonico.
Papa Bergoglio, soprattutto con le sue scelte e il suo stile di vita, è convinto che “non farebbe giustizia alla logica dell’incarnazione pensare ad un cristianesimo monoculturale e monocorde” e cerca di riportare la fede cristiana, fiaccata e stanca in Occidente, al suo centro evangelico e alla radicalità evangelica, attingendo (senza un facile copia-incolla perché le differenze culturali, religiose, sociali e politiche sono troppo grandi) alla freschezza umana e spirituale dell’America Latina.
Il bisogno di cambio di modello nel modo di autocomprendersi e di autoconfigurarsi della chiesa era emerso profeticamente già nel Concilio Vaticano II. Oggi lo vediamo in avvio di attuazione con papa Francesco. Ma non possiamo dimenticare che sono passati 50 anni e che le chiese occidentali, chiuse in se stesse e in difesa dello stato di cristianità, hanno resistito e resistono ancora a trovare nuove forme per modellarsi con più fedeltà al Vangelo di Gesù Cristo.

Cosa comporta il cambio di modello per la chiesa italiana?

E’ legittimo il dubbio sulla capacità di una chiesa italiana, di un episcopato, di un clero nonché di un laicato irretiti nella loro maggioranza in una camicia di forza chiesastica, di adeguarsi alla radicalità evangelica? E se la chiesa non si adegua, non è destinata al declino? Non appare sempre più stanca e fiacca a causa di una forma di sclerotizzazione alimentata da una tradizione culturale sempre più scarsa, estranea ai conflitti sociali veri e vissuti, illusa da un consenso apparentemente maggioritario, rassicurata più dal Concordato e dall’8 per mille che dal suo Signore? Il personale ecclesiastico medio-alto della chiesa italiana non appare sempre più mediocre, votato alla carriera? Perché si spengono sempre più anche i movimenti ecclesiali nati per protesta? Perché le divisioni interne sono sempre più visibili? Perché una parte del clero non si identifica più con i vescovi nominati da Roma? Perché sulla questione politica italiana non vi è più spazio per una riflessione alta e vera?

Cosa comporta il cambio di modello per la nostra chiesa locale?

Nonostante i numerosi convegni, il moltiplicarsi di documenti, di incontri, di seminari … ecc. dobbiamo constatare che per il nostro territorio l’esperienza delle realtà ecclesiali continua ad essere sostanzialmente irrilevante. Già nel sinodo diocesano qualcuno annotava: “Siamo responsabili non di quello che stiamo facendo, ma di quello che succederà dopo. Credo che abbiate chiaro che il vero comincerà nel momento in cui questo sinodo finirà. Vedete certamente davanti a voi, ed anche dentro di voi, dei lavori positivi, interessanti, a cui avete partecipato con gioia ed entusiasmo, a cui state partecipando numerosi, ma la grossa domanda è: che cosa succederà dopo?”

A distanza di quattro anni dalla conclusione del Sinodo sembra che la vita della chiesa locale sia la stessa del pre-sinodo.


Perché?

– Il sinodo è stata una esperienza di partecipazione, canonicamente regolata, di tutte le componenti ecclesiali per adeguare le strutture ecclesiastiche, in particolare la parrocchia, al bisogno di far incontrare il Gesù del vangelo-buona-notizia con l’uomo d’oggi. Si è concluso con 236 propositiones (proposte, orientamenti e norme), tantissime, molte delle quali retoriche. Il linguaggio è astratto e sono basate sul presupposto di analisi e proposte per un modello di una chiesa autoreferenziale, che tende in maniera esagerata alla “sicurezza” dottrinale, che con l’attivismo di una pastorale del fare si ostina a recuperare un passato che non c’è più e che ha una visione statica e involutiva di se stessa e della storia locale in cui vive;
– la proposizione n. 131 si perde nel mare magnum delle intenzioni, senza riscontri concreti e determinanti;
– mancano nell’esame sinodale della vita ecclesiastica locale le “noiose e vecchie questioni” (H.Kung) importanti per la vita quotidiana dei cattolici brindisini (o in questa chiesa sono state risolte e come?) quali: la regolazione delle nascite, la questione dell’identità sessuale e della omossessualità, l’ammissione dei divorziati alla comunione e quella del clero “scarso” non solo quantitativamente. Un inciso sul clero giovane: è percezione comune che i preti-giovani (con qualche eccezione) sono meno critici, molto più chiusi, molto più conservatori, molto più tradizionalisti nella vita pastorale ma anche più “problematici” nella vita morale privata. E’ capitato di dover ascoltare in una omelia domenicale un prete giovane affermare: “se nella chiesa c’è un prete pedofilo, ve ne sono altri dieci che fanno del bene!”. Non si era reso conto che il dieci per cento di preti-pedofili non è poco, anzi è grave? Comunque, sia o non sia il 10%, perché il problema rimane un “tabù”?;
– altri “tabù” per il sinodo sono stati: la consistenza e la trasparenza nell’amministrazione dei beni mobili e immobili ecclesiastici diocesani; il rispetto dei diritti umani nella chiesa; l’esclusivo potere della curia romana nella nomina del vescovo.
Dopo il 2010, inizio del post-sinodo, l’identità cristiana e la rilevanza nel territorio della chiesa di Brindisi-Ostuni non sono cresciute.
Una struttura istituzionale non muore per i suoi errori ma solo quando non soddisfa più alcun bisogno. E non vi è dubbio che la fede cristiana è in crisi, soprattutto presso i giovani, perché questi non sanno a che cosa serve essere credente. Non parliamo del cristianesimo come agente sociale e religione civile o della chiesa come “ong”, ma della fede in Gesù Cristo per il quale, come emerge dai vangeli, Dio e la religione sono incompatibili, l’uno esige l’eliminazione dell’altra, a favore dell’uomo e della vita. E l’autenticità della fede in Gesù di Nazareth è parte fondamentale della identità del cristiano: “Voi siete il sale della terra, voi siete la luce del mondo” . Come il sale è per il cibo, così la fede è per l’uomo. Se nella fede viene meno la relazione e la centralità dell’uomo viene meno anche l’identità.
Molte delle propositiones del sinodo sono rimaste sulla carta, alcune sono state volutamente disattese , altre attendono di essere attuate.
Qualcuno sostiene la tesi che il sinodo diocesano sia stato messo tra parentesi e non ha potuto dare i suoi frutti perché ne è stata interrotta la guida con la nomina del nuovo vescovo, estraneo al cammino decennale della chiesa locale. La tesi è solo in parte vera. A un sinodo che esprime una chiesa dottrinaria e giuridicista sfugge la possibilità di sostenere che il potere della curia romana nella nomina di un vescovo di una chiesa locale è eccessivo e non ha alcun fondamento teologico. Purtroppo il potere curiale romano fa parte dello stesso modello di chiesa statica e involuta su se stessa, in cui il primo riferimento sono il diritto canonico o, peggio, logiche umane che nulla hanno a che fare con il faticoso cammino di una chiesa locale. Nelle attuali modalità di nomina di un vescovo non sono in ballo dogmi o magistero, ma solo una prassi che se cambiata non produrrebbe certi problemi e cambierebbe il volto storico della chiesa.
Sarà più chiara questa lettura con i riferimenti alla identità evangelica e al nuovo modello che papa Bergoglio vuol dare alla chiesa.

Il Vangelo “senza zavorra”

Con papa Bergoglio non solo i cosiddetti cristiani comuni e i preti di frontiera, ma anche il vescovo di Roma ha ridato spessore al Vangelo che è più grande della chiesa, che sa far avvicinare il regno di Dio ai poveri, che sa consolare e dare speranze, che senza mediazioni sa parlare a tutti gli uomini di buona volontà, credenti e non credenti.
Rinviamo, come esempio, al gesto di andare a Lampedusa e alle parole pronunciate da papa Bergoglio in quella circostanza, per capire che cosa significa il “ritorno al Vangelo”. Era dai tempi di Giovanni XXIII che un papa non pronunciava parole simili. I discorsi, le encicliche, i messaggi parlavano di qualcosa d’altro: la secolarizzazione, i progetti culturali, la “nuova” evangelizzazione, il progetto culturale, dove il vangelo veniva rivestito di abiti pesanti, complicati, intessuti di analisi intelligenti e discorsi filosofici complessi.
Il ritorno al Vangelo, sine glossa, senza omelie fastidiose e vuote o complicati piani pastorali (insieme dei mezzi pratici necessari per svolgere ed attuare nel mondo gli insegnamenti di Cristo e della chiesa), rende libera una chiesa dall’essere “ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine da imporre con insistenza… Non è questo l’essenziale, il necessario che scalda il cuore come ai discepoli di Emmaus. Dobbiamo trovare un nuovo equilibrio, altrimenti anche l’edificio morale della Chiesa rischia di cadere come un castello di carta, di perdere freschezza e il profumo del Vangelo. La proposta evangelica deve essere più semplice, profonda, irradiante. E’ da questa proposta che poi vengono le conseguenze morali” .
Il ritorno al Vangelo è il ritorno a Gesù Cristo che chiede di essere liberato da tante catene devozionali, da un cristianesimo ridotto a religione che divide tra sacro e profano, che piace tanto ai cristiani senza Cristo, liberato da liturgie eucaristiche (tantissime durante i giorni feriali e nei giorni festivi) vissute per precetto e più attente ai morti che ai vivi, per affermare il primato dell’uomo e della vita, della coscienza e della libertà religiosa, per mettersi sulle spalle il fratello che ti è accanto, con le sue debolezze e i suoi bisogni.
Oggi c’è bisogno di segni, di gesti e non più di parole.
Ma “Vangelo senza zavorra” non vuol dire giustificazione dell’analfabetismo religioso e svalutazione della ricerca e del documentato confronto teologico.
Quale fede e quale Dio? Quali prove della Sua esistenza? Quale Rivelazione, quale interpretazione e fondazione di essa? Quale rapporto tra fede e scienza moderna?
Quale anima, quale peccato originale, quale inferno, quale vita eterna, quale Provvidenza, quale ruolo delle altre religioni?
Il risultato di questi interrogativi di teologia fondamentale e sistematica, che sono molto più frequenti di quanto si pensa fra la gente comune, senza adeguate risposte, è una specie di densa nebulosa nella mente dei contemporanei e, di norma, produce due conseguenze: “uno scisma sommerso” di molti rispetto alle verità imparate nella catechesi infantile o un modo di essere di altri che, nonostante tale nebulosa e pur perseverando nella fede, genera chiusura, rigidità e un permanente atteggiamento difensivo.
Il cattolicesimo per essere veramente all’altezza delle “esigenze del nostro tempo” e della universalità del suo messaggio, deve prendere atto che la visione del mondo coltivata nel nostro tempo è molto mutata rispetto ai secoli passati. Se vuole tornare ad essere percepito come buona novella che sana e che rallegra, e insieme come verità di quel processo naturale e storico che chiamiamo generalmente “mondo”, ha bisogno anche di rivedere il modo di leggere e aggiornare il suo “deposito delle verità di fede”.

Una chiesa povera: la riforma della istituzione ecclesiastica

In faccia ai paesi sottosviluppati, la chiesa si presenta quale è e quale vuole essere, come la chiesa di tutti e particolarmente la chiesa dei poveri” . Sono parole di papa Giovanni e sono dell’11 settembre 1962. Come confermerà il concilio Vaticano II, la riforma della chiesa nella prospettiva giovannea non nasce come semplice richiamo alla interiorità della vita di fede ma l’affermazione di papa Giovanni ha il significato di riproporre alla chiesa e ad ogni credente la necessaria corrispondenza tra le parole e gli avvenimenti del Gesù di Nazareth, messia povero e dei poveri, e i segni e i gesti della chiesa in mezzo agli uomini, soprattutto di fronte alle masse misere e sconfinate del mondo. La prospettiva era quella di andare ben oltre una astratta teologia della povertà. La chiesa povera è una ispirazione profonda, che chiama tutta la chiesa istituzionale alla revisione forte e coraggiosa dei suoi comportamenti, delle sue scelte, delle sue parole, per un confronto più radicale con il vangelo e con la sofferenza degli ultimi della terra .
Se, dopo 50 anni dal concilio, papa Bergoglio deve invocare, quasi sospirando, e affermare “Ah, come vorrei una Chiesa povera” vuol dire che le resistenze (opposizioni) al problema sono state e sono molto forti.
La domanda non è affatto se ancora oggi la povertà di Cristo sia vissuta nella chiesa. La domanda non è neppure se la chiesa ancora oggi annunci o meno ai poveri un messaggio di speranza e di liberazione. La domanda non è neppure se la chiesa deve fare la scelta preferenziale per i poveri o essere chiesa di poveri. La vera questione che il papa ci pone è un’altra: nello svolgimento della sua missione evangelizzatrice, la chiesa, proprio e prima di tutto per una questione di identità, è oggi in condizione di fare proprio lo stile di Gesù nella sua integralità?
Alle masse di poveri d’oggi che non hanno da mangiare e da bere una chiesa come fa a rendersi credibile nell’annuncio di Gesù di Nazareth se non si libera della sua opulenza e del suo potere?
La chiesa-istituzione deve essere povera (non misera), deve essere “sobria e solidale” utilizzando risorse funzionali al suo servizio: la trasparenza non basta per giustificare le sue ricchezze.
E per essere più concreti, in un momento in cui la crisi economica determina la perdita di tanti posti di lavoro, è motivo di amarezza che ciò accada anche nelle realtà diocesane e parrocchiali. Sarebbe interesse di tutti e certamente anche della chiesa far conoscere le ragioni economiche di queste scelte. Allo stesso modo sarebbe utile ed opportuno far conoscere il bilancio economico della diocesi, come viene utilizzata e rispettata la Legge Regionale n. 4/1994 e come viene utilizzato l’8 per mille.
Quante parrocchie hanno effettivamente attivo il Consiglio parrocchiale per gli affari economici?
Negli atti sinodali non vi è traccia di simili problematiche. Il sito web diocesano e quelli parrocchiali consultati non riportano notizie a riguardo.

Chiesa povera e potere esterno

Una chiesa povera è anche una chiesa che deve porsi con incisività la grande questione della povertà come libertà dai poteri economici e politici, non solo sul piano della virtù personale dei singoli, ma anche su quello del modo di essere e di vivere delle chiese locali.
Oggi, particolarmente, è ingenuo affidare la lotta contro le strutture di peccato dell’attuale sistema economico e politico solo alla modifica dei comportamenti individuali o di gruppo per eliminare le nefandezze economiche e politiche che stanno generando miseria per molti e ricchezza per pochissimi.
A riguardo, in positivo, “vanno ricordati, anche per il grande valore che assumono in questa difficile stagione della vita del nostro Paese e dell’intera umanità, alcuni insegnamenti della Costituzione Pastorale del Concilio Vaticano II “Gaudium et spes” (“La Chiesa nel mondo contemporaneo”): gli uomini sono titolari di diritti fondamentali e ogni discriminazione deve essere eliminata; la uguale dignità delle persone richiede che si giunga ad una condizione più umana e più giusta; va superata ogni concezione individualistica della vita sociale ed è necessario che i cittadini divengano partecipi della cosa pubblica in un clima di vera libertà ; va condannata l’inumanità della guerra e promossa l’azione internazionale per prevenirla ed evitarla; la comunità politica deve esistere in funzione del bene comune nel quale trova significato e giustificazione; i partiti devono promuovere il bene comune senza anteporre ad esso i loro interessi. E ancora: il lavoro è un valore superiore agli altri elementi della vita economica e da questo principio discendono il diritto di “lavorare” e il dovere della società di garantire al singolo e alla sua famiglia una vita dignitosa; lo sviluppo economico deve rimanere sotto il controllo dell’uomo e non va abbandonato all’arbitrio di pochi uomini o gruppi che abbiano in mano un eccessivo potere né della sola comunità politica né di alcune più potenti nazioni; per il principio della destinazione universale dei beni della Terra, è necessario favorire l’accesso di tutti ad un certo potere su tali beni; la legittimità della proprietà privata non è in contrasto con quella delle varie forme di proprietà pubblica e la stessa proprietà privata nonché l’iniziativa economica dei privati devono essere coordinate in funzione dell’utilità sociale.
Si tratta di principi perfettamente in linea con quelli che sugli stessi argomenti proclama la nostra Costituzione ai quali il Concilio vaticano II, successivo di diversi anni allo Statuto del ’48, sembra dare un avallo spirituale di grande rilievo. Una felice convergenza quindi dei ricordati dettami della “Gaudium et spes” con alcuni fondamentali precetti della Costituzione che si possono così sintetizzare: il lavoro indicato come fondamento della Repubblica; la pari dignità sociale dei cittadini e la loro uguaglianza contro ogni discriminazione con l’impegno a rimuovere gli ostacoli che impediscono lo sviluppo della persona umana e la partecipazione dei lavoratori alla vita pubblica; il ripudio della guerra e il primato del diritto internazionale per salvaguardare e promuovere la pace. E inoltre: la tutela della salute come diritto fondamentale dei cittadini e interesse della collettività; la promozione dell’istruzione pubblica come servizio di centrale importanza; un sistema tributario informato a criteri di progressività; la concezione dei partiti come associazioni che con metodo democratico concorrono a determinare la politica nazionale; il principio che la proprietà privata deve avere funzione sociale e deve essere accessibile a tutti così come la medesima e l’iniziativa economica privata devono essere indirizzate e coordinate a fini sociali; l’esigenza che i cittadini ai quali sono affidati funzioni pubbliche le adempiano con disciplina ed onore” .
Per le scelte politiche, di qualsiasi livello, poi, la chiesa locale si dimena tra analisi insufficienti, auspici ingenui e mancanza di coscienza di quale è lo specifico della sua missione a riguardo. Il sinodo riconosce che le scelte politiche “sono state terreno di divisioni a volte laceranti all’interno della nostra chiesa… Nel passato è stato valutato male lo sforzo di diventare liberi dal collateralismo con il partito di ispirazione cristiana… Oggi esiste il problema di rimanere liberi di fronte alle formazioni politiche recenti…” E poi la propositio sinodale, spostando il soggetto dalla istituzione chiesa ai singoli credenti, conclude: “Ogni credente è chiamato alla scelta politica, ma ciò non significa difenderla sempre e comunque” .
Riteniamo che lo specifico della missione del nuovo modello di chiesa è quello di testimoniare la “differenza evangelica” dalle logiche di potere fine a se stesso, quella di fare l’opzione per i poveri, che sfida e contraddice la cultura politica dominante, e quella di affidarsi alla responsabilizzazione del laicato cristiano.
In antitesi con il modello di chiesa di Ruini importato anche nella nostra chiesa locale, auspichiamo che anche in politica non sia messo tra parentesi lo specifico della missione ecclesiale e, perciò, auspichiamo più profezia e meno ingerenza, più attenzione al bene di tutti e nessuna in difesa dei interessi ecclesiastici da parte della chiesa istituzione, ma più impegno e più responsabilità da parte dei laici, che non si capisce perché non debbano difendere le scelte politiche fatte con coerenza, “sempre e comunque”.

Chiesa povera e potere interno

Una chiesa povera è anche una chiesa in cui, al suo interno, il vescovo esercita il governo di persone e cose come “vicario di Cristo” e non del pontefice romano o, peggio, della curia vaticana. A chi spetta scegliere e nominare un vescovo di una chiesa locale? Ribadita la inaccettabilità di qualsiasi interferenza politica esterna alla vita ecclesiale, ma anche il dato certo che il diritto della curia romana di nominare un vescovo in una chiesa locale non ha un fondamento teologico ma è una prassi storica, quale voce dovrebbero avere tutte le componenti della chiesa locale nella scelta del suo vescovo?
Un problema questo enorme che tocca il cuore del potere ecclesiale e sul quale il silenzio di laici e preti appare singolare e strano. Non ci si può lamentare, a nomina avvenuta, se un nuovo vescovo interrompe o cancella un lavoro di decenni di una chiesa locale e se le alate affermazioni della Lumen Gentium sul primato del popolo di Dio, uomini e donne, rimangono retoriche e vuote.
Il potere di governare una chiesa locale deriva al vescovo dall’essere testimone della Resurrezione di Cristo e il suo potere giuridico e amministrativo è basato ed è secondo a questa testimonianza. A riguardo, commuove rileggere il “patto delle catacombe” che il 16 novembre 1965 quaranta vescovi, padri conciliari, firmarono a chiusura del Vaticano II . La semplicità evangelica delle proposte di vescovi (e non di pazzi contestatori), che vissero ciò che sottoscrissero, cozza con la dura realtà e con le contraddizioni di altri modi più mondani e meno evangelici di governare una chiesa locale.

La “molestia spirituale” e il primato della coscienza responsabile

Un altro elemento essenziale del nuovo modello di chiesa che urge nel confronto con l’uomo moderno e il Vangelo è il riconoscimento del primato della coscienza.
Il rapporto tra coscienza e istituzioni civili non è mai stato pacifico. Il conflitto, che lo ha sempre in qualche misura caratterizzato, ha assunto intensità e connotazioni qualitative diverse. Alla fase di accentuata tensione propria degli anni del post-concilio, dominata da una forte contestazione delle istituzioni e da un forte risveglio della coscienza, sembra oggi subentrata una fase di riflusso istituzionale, cioè di ritorno delle e alle istituzioni e in esse l’emergere di tentazioni autoritarie, spesso mascherate dal mito dell’efficienza, del decisionismo e dell’agire uniti. Di fronte a tanto disagio esistenziale, sul piano soggettivo, l’adesione alle istituzioni è più rassicurante del conflitto così come nella comunità ecclesiale la falsa obbedienza maschera l’accettazione dell’inaccettabile e interessati silenzi. In una società come la nostra, segnata dall’accentuarsi delle sperequazioni e delle ingiustizie, l’assenza di conflitto è sintomo allarmante di uno status di passività e di acquiescenza, come espressione di sfiducia e persino di paura del cambiamento di coscienze fiacche e omologate.
Si deve riconoscere tuttavia che nell’ambito della cultura moderna si è sviluppata la tendenza a pensare astrattamente la coscienza come realtà a se stante, separata dal mondo della vita, cioè dall’insieme dei processi sociali e culturali che concorrono a strutturarne il senso e a dettarne gli orientamenti. E questo ha finito per accentuare la contrapposizione tra coscienza e istituzioni. E se il primato della coscienza concorre a difendere la persona dall’ingerenza di pressioni autoritarie, una contrapposizione che nega qualsiasi forma di istituzione contribuisce ad alimentare il solco di un dualismo del tutto inaccettabile.
Pur riconoscendo il carattere diverso dell’istituzione ecclesiastica rispetto a quelle civili, il rapporto tra coscienza e istituzioni religiose è stato, nel tempo, quasi sempre drammatico. Sulla bilancia queste ultime hanno pesato sempre molto di più del tempio della coscienza, della coscienza responsabile (perché capace di discernimento e attenta ai bisogni dei fratelli), non di quella che ha come paradigma “faccio ciò che mi piace e ciò che voglio”.
Basta rileggere il drammatico approdo del documento conciliare Dignitatis humanae del Concilio Vaticano II. Nel dibattito si contrapposero due affermazioni: “ogni persona, sia o non sia nell’errore secondo la chiesa romana, ha diritto alla libertà religiosa. Sarà Dio, un giorno, a giudicarla”; l’altra: “la verità ha tutti i diritti, l’errore nessuno; e spettava all’istituzione papale e conciliare definire verità e errore; e punire, persino con la morte, in certi secoli, gli erranti” .
Non si può negare che ancora oggi all’interno della vita ecclesiale è prevalsa la seconda delle due affermazioni e la svolta conciliare del primato della coscienza, pur affermata in teoria, non è praticata. Ed è evidente che il primato della coscienza è stato in parte riassorbito dalla riproposizione di un modello di gestione autoritaria della chiesa, depositaria della verità e dei mezzi punitivi (non più quelli terribili ma non fattibili di una volta) degli erranti. La reazione a questo ritorno al passato non è stata tanto quella contestativa quanto quella dell’abbandono e dell’indifferenza e, nel miglior dei casi, quella dell’instaurare cammini spirituali paralleli a quelli istituzionali, che denunciano una crisi profonda di significato del riferimento istituzionale.
Perché ci si lamenta di non avere laici adulti nella fede quando lo sforzo esclusivo dell’insieme dei mezzi pratici per attuare l’insegnamento di Cristo è quello di “formare coscienze rette” e non quello, prima di tutto, di rispettarle?
Non è vero che “in questo tempo noi abbiamo una grande tentazione nella chiesa, quella della molestia spirituale: manipolare le coscienze, un lavaggio di cervello teologale, che alla fine ti porta a un incontro con Cristo puramente nominalistico, non con la persona di Cristo vivo” ?
I pesi morali e dottrinali, che non hanno alcun riscontro nel Vangelo, con cui abbiamo caricato le coscienze con il metodo dell’aggiungere, aggiungere… solo per controllarle e non per liberarle, non sono una delle cause che allontanano l’uomo moderno dalla buona novella? “Se una donna ha alle spalle un matrimonio fallito e ha pure abortito, e questa donna si è risposata e ha cinque figli, e l’aborto le pesa enormemente ed è pentita, e vorrebbe andare avanti nella vita cristiana, che deve fare il confessore che non voglia trasformare il confessionale in un luogo di tortura?” .
Se si può chiedere ai credenti di togliersi il cappello per stare in chiesa, non si deve mai chiedere a nessuno (laici e preti) di togliersi la testa e il cuore per stare in essa.

Un problema ricapitolativo emblematico: donne e chiesa, nel sud

“Non sarebbe ora di mettere fine al paradosso di una chiesa che è donna e la cui gerarchia è composta solo da maschi?” .
Un’immagine femminile della chiesa fa parte della tradizionale dottrina cattolica, la percentuale di donne nella partecipazione alle liturgie, alla catechesi e ai gruppi parrocchiali è di molto superiore a quella maschile e, tuttavia, la questione femminile, nella chiesa, resta sottotraccia, sembra pressoché negata.
Specialmente nel sud restano diffuse mentalità per cui la posizione della donna nella famiglia e nella società è “naturalmente” sottoposta all’uomo, fino ai drammi estremi dei femminicidi. Ma quanto è presente nella vita e nella riflessione della chiesa questa frontiera di liberazione dell’uomo e della donna da modelli che negano la dignità di entrambi e procurano tanta sofferenza a chi (le donne) resta troppo spesso la parte più debole, sotto tanti profili? Non vorremmo vedere in ogni parrocchia un sostegno contro la violenza, anche per le donne?
Sembrano, poi, scomparire anche dalla ordinaria riflessione sulla Bibbia e i Vangeli le tante personalità femminili presenti nella Scrittura: conosciamo Abramo, Mosè e Pietro, ma meno Rut, Sara, Agar, Miriam, Ester, Giuditta e le donne che portarono l’annuncio pasquale. Lo stesso netto rifiuto, tante volte testimoniato e predicato da Gesù, della visione religiosa e patriarcale del suo tempo secondo cui la donna è inferiore fisiologicamente (è impura), moralmente (è inadeguata) e giuridicamente, resta nascosto dietro varie cortine fumogene. Le ricchezze della riflessione teologica femminile trovano scarsa accoglienza nel popolo di Dio, che pure è composto per la maggior parte di donne.
La chiesa, il clero hanno paura delle donne? Le donne chiedono di essere ascoltate e che nella chiesa vengano “creati spazi per una presenza non decorativa e consultiva, ma parlante e decisionale in tutti gli organismi in cui si attua il protagonismo credente del popolo di Dio” . Il problema non è l’accesso a ruoli clericali e di potere: non interessano “quote rosa” in una organizzazione ecclesiale che resti verticistica e separata dalla vita delle persone e dai problemi quotidiani; ma molti pensano che solo una partecipazione “parlante e decisionale” delle donne alla vita della chiesa potrà rinnovare un modello fondato sulla gerarchia e sul “sacro”, per tornare alle comunità corresponsabili dei primi secoli, in cui tutti, uomini e donne comuni, si aiutano reciprocamente nel cammino dei discepoli di Gesù e manifestano, soprattutto ai più deboli e poveri, l’amore di Dio.

Con questi presupposti proponiamo le seguenti priorità:

• “Io ritengo che ciascuno di noi abbia in sé un non credente e un credente, che si parlano dentro, che si interrogano a vicenda, che rimandano continuamente domande pungenti e inquietanti l’uno all’altro. Il non credente che è in me inquieta il credente che è in me e viceversa” . Il ritorno al Vangelo e gli interrogativi di teologia fondamentale e sistematica richiamati non possono più essere problemi per specialisti o solo materia per omelie moralistiche. La chiesa locale individui “luoghi permanenti” in cui, in modo partecipato anche con un confronto aperto con non credenti, ci si interroghi e ci si confronti, in modo chiaro e sincero, sulle tante “incertezze della fede e della incredulità” che viviamo quotidianamente.
• Conosciamo la complessità dei problemi che occorre affrontare. Ma, innanzitutto, bisogna decidersi di ripartire dalle periferie del nostro territorio e dagli ultimi che sono il segno drammatico della crisi attuale . Gli impegni prioritari sono quelli che riguardano la gente tuttora priva dell’essenziale: la salute, la casa, il lavoro, il salario familiare, l’accesso alla cultura, la partecipazione. A questi impegni va aggiunta la piena assunzione dei problemi che assillano l’uomo contemporaneo: ingiustizie, violenze, corruzione, emergenze etiche e sociali.
L’annuncio del Vangelo sarà possibile in queste situazioni se la chiesa manifesta l’amore per l’intera famiglia umana, senza contrapporsi ad essa come rivale e se tutta la chiesa (preti, religiosi e laici) trova nuove forme di presenza e di opere sia al suo interno che nella società per rispondere ai nuovi bisogni e ai nuovi poveri.
Le energie maggiori andrebbero spese per fare fronte correttamente alle delicate questioni d’oggi:
– il lavoro e l’ambiente;
– la situazione culturale
– la presenza nelle istituzioni pubbliche.
A riguardo chiediamo che in ogni periferia (quartiere o paese) si mettano in atto opportune iniziative di ascolto, di ricerca e di studio per ognuna delle su indicate questioni al fine di avere comunità cristiane che operino nel mondo del lavoro e dell’ambiente con nuove competenze e cristiani capaci di operare nel territorio con “la differenza evangelica” a favore di tutti e insieme anche a coloro che, pur dicendosi atei e lontani dalla chiesa, operano per promuovere l’uomo e migliorare le sue condizioni sociali.
• In coerenza con una chiesa povera, sobria e solidale,
– “con l’aiuto di tutto il Popolo di Dio speriamo che si possa superare il sistema tariffario sostituendolo con altre forme di cooperazione economica che siano svincolate dalla liturgia e dall’amministrazione dei sacramenti. L’amministrazione dei beni diocesani o parrocchiali sia composta solo da laici competenti e diretta a miglior uso per il bene della comunità tutta” . I bilanci preventivi e consuntivi della diocesi e delle parrocchie siano resi pubblici almeno sui siti web;
– nella consapevolezza delle esigenze della giustizia e della carità, e delle loro mutue relazioni, si cerchi di trasformare le opere di “beneficienza” in opere sociali fondate sulla carità e sulla giustizia, che tengano conto di tutti e di tutte le esigenze, come un umile servizio agli organismi pubblici competenti ;
– si operi in modo che i responsabili del nostro governo locale e dei nostri servizi pubblici decidano e attuino leggi, regolamenti e istituzioni sociali necessarie alla giustizia, all’uguaglianza e allo sviluppo armonico e totale dell’uomo tutto in tutti gli uomini, e, da qui all’avvento di un altro ordine sociale, nuovo, degno dei figli dell’uomo e dei figli di Dio .
– vescovi e preti si rifiutino di essere chiamati, oralmente o per scritto, con nomi e titoli che significano grandezza e potere (Eccellenza, Monsignore…) .
• Invitiamo ad assumere una prospettiva di sinodalità permanente, con la partecipazione di tutte le componenti ecclesiali, mediante forme concrete da mettere in atto (questionari, forum…ecc.) nelle scelte più importanti sia parrocchiali che diocesane.
In particolare riteniamo che l’omelia domenicale sia preparata secondo le indicazioni della Evangelii Gaudium e che, comunque, al termine della messa, il celebrante si fermi all’ingresso della chiesa per ascoltare gli eventuali commenti dei partecipanti e favorire anche in questo modo il dialogo con tutti.
• Invitiamo a sperimentare momenti di preghiera presieduti ed animati da donne come avviene ormai in molte chiese del mondo cattolico e a creare gruppi di ascolto per il sostegno contro la violenza alle donne in ogni parrocchia.

Una speranza per quanti non si sono rassegnati al declino della chiesa

Dimostrare o difendere le proprie tesi mediante il principio della autorità papale è sempre stato un vezzo cattolico. Il riferimento ai gesti e all’insegnamento di papa Bergoglio non è per convincere o per dimostrare, ma crediamo che una guida profetica come quella di Francesco possa confortare quanti operano per il rinnovamento della chiesa e possa sprigionare preziose energie bloccate dalla stanchezza e dalla rassegnazione. Le difficoltà per Lui sono tante e i tempi sono lunghi.
Il nostro documento è nato principalmente da una profonda speranza, che non viene solo da un papa: le sofferenze dell’ampio mondo dei poveri, la fatica del vivere delle vittime delle ingiustizie e degli egoismi, il sangue di tanti nuovi martiri, di tanti innocenti, versato nel mediterraneo per sfuggire alla fame, di tanti bambini e anziani, donne e uomini, che la “terza guerra mondiale” pone dinnanzi ai nostri occhi indifferenti, darà un giorno di luce alle chiese occidentali, alla nostra chiesa di Brindisi-Ostuni e al mondo intero. “Sanguis martirum est semen” , insegnava Tertulliano.

UN GRUPPO DI LAICI

I portavoce:
Cinzia Mondatore
Fortunato Sconosciuto

Brindisi 4 ottobre 2014


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