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Noi Siamo Chiesa

Sezione italiana del movimento internazionale “We Are Church” per la riforma della Chiesa cattolica

Cereti ripubblica la sua ricerca che contraddice la proibizione per i divorziati risposati di essere accolti pienamente nella Chiesa e di accostarsi all’Eucaristia

G. CERETI, Divorzio, nuove nozze e penitenza nella Chiesa primitiva, Roma, 2013, ed. Aracne, pag. I-IV, 1-437( inclusa postfazione dell’Autore); 26 euro.

Vede la luce per la terza volta, in quarant’anni, questa avvincente ricerca sulla posizione pastorale adottata dalla Tradizione della chiesa antica sulla questione delle seconde nozze; e ripropone, a dir poco intatte, le conclusioni maturate dall’A. su materiali documentari a fondo investigati, sia nella letteratura patristica, sia nella storia conciliare. Conclusioni serenamente sconvolgenti per lo statu quo sia della letteratura teologica dominante, sia dell’ordinario magistero cattolico, sia dell’ordine canonico di foro esterno riflesso nell’attuale disciplina delle seconde e terze nozze -così travagliata nei primi secoli, prima del suo finale assestamento in istituti simmetricamente contrapposti, in Oriente ed in Occidente- sia (elemento di gran lunga il più delicato nella polemica del Cereti con la posizione pastorale purtroppo da noi dominante) quanto alla disciplina penitenziale ed ai suoi concludenti corollari, gelidamente tuzioristici in tema di riammissione dei divorziati alla pienezza della vita liturgica, purché cioè vivant sicut frater et soror: con conseguenze culturali e politiche incalcolabili, cui sarebbe possibile sfuggire solo provando, in foro esterno, una qualche nullità assoluta del patto sacramentale originario.
Anche questa volta, la trattazione parte dalla constatazione dell’esistenza ab origine di un filone permissivo, pur se in via di precisazione, in cui la prassi pastorale della chiesa (Clemente, Tertulliano, Origene) si muove intorno all’asse centrale di un sicuro principio apostolico: “quanto al secondo matrimonio, se qualcuno brucia, dice l’apostolo, che si sposi”. E’ un centro, questo, che non sarà smarrito pur nella difficoltà di articolarne le conseguenze davanti alle clausole di Matteo, e quindi indulgendo a una lettura di esse restrittiva per la donna, che di esse intendesse valersi nel caso reciproco di adulterio del marito (IV° capitolo). Quanto al diritto del marito al ripudio, che nel caso dei chierici poteva divenire un dovere, la ricezione di tali clausole incontrava di rado, per converso, ostacolo nel contesto tardo-antico, un contesto cioè di indiscussa egemonia del diritto romano e di appena iniziale sviluppo di un’autonomia istituente, in materia, del diritto ecclesiale.
Ma è nel V° capitolo che l’A. mostra come, nei casi diversi dall’adulterio (porneia), potesse la “condiscendenza” della chiesa intervenire a modellare la curvatura del principio paolino, con il piegarlo equitativamente alla fattispecie concreta; sembrando a taluno troppo dura, ad esempio, per la donna la situazione di costrizione alla continenza, che le si veniva ad imporre dopo il ripudio del marito adultero; onde a costui, e non a lei, andava piuttosto imputato un reatum coactae in adulterium uxoris (Ilario di Poitiers, Comm. in Matt., 4-22). Ne conseguiva l’inammissibilità di un obbligo perentorio di astenersi dalle seconde nozze, fondato su una eadem ratio, che non certo irragionevolmente la oikonomia della chiesa potè poi estendere ad altre situazioni analoghe, che richiedessero saggio governo per una variegata casistica.
Il punto centrale della trattazione è dunque quello, in cui si dimostra che fino a tutto il quarto secolo la norma della Chiesa unita è che l’uomo che avesse ripudiata la moglie adultera (porneia è l’espressione recepita dai latini, come ratio dell’eccezione matteana al principio indissolubilista) non poteva essere oggetto di interdizione liturgica alcuna, ove fosse passato a nuove nozze. Questa era anzi, in tutta verosimiglianza, la dottrina tenuta per ferma dai 318 padri del concilio di Nicea; qui in coerenza piena con Origene, il quale anzi, non si oppose certo alla “condiscendenza” usata dai pastori delle chiese locali nell’estendere a casi analoghi la facoltà (Mt. 5, 32; 19, 9) che uno dei sinottici concedeva ai mariti traditi, in un passo controverso e in una logica così influenzata dal modello del ripudio ebraico, da incorporarne un’evidente discriminazione di genere che mal si conciliava col principio, anch’esso paolino, dell’eguaglianza tra sorelle e fratelli di fede.
L’A. rileva poi, in Gerolamo ed Agostino, una sopravvalutazione eccessiva di alcune anteriori posizioni rigoriste, tratte da alcuni testi minori (c. 48 dei Canones apostolorum, c. 11 del concilio di Arles), formulate fra l’altro in termini decisamente ambigui e generici. Mentre secondo lui il richiamo al can. 8 del concilio di Cartagine sarebbe, su questo punto, da prendersi con particolare prudenza, tenuto conto dell’egemonia dottrinale esercitata su questo sinodo africano da Agostino.
Attraverso una ricostruzione impeccabile, da nessun fautore dell’orientamento dominante confutata nel quarantennio decorso, il Cereti mostra così l’intrinseca debolezza delle fonti su cui, dalla fine dell’VIII secolo, venne in seguito a profilarsi in Occidente una prassi innovativa, ispirata da un passo di Gerolamo alla rinascenza carolingia, secondo la quale meritevole di scomunica sarebbe, nelle stesse circostanze (non solo la donna, ma anche) l’uomo, il quale pretenda di passare a nuove nozze, dopo il “ripudio” di un coniuge adultero; ripudio da allora in poi dai latini inteso, tutt’al più, come separatio tori et mensae. Prassi, il cui consolidarsi venne oltre tutto fortemente intralciato (fino a tutto il XII secolo) dalla resistenza di reviviscenze rilevanti, in Occidente, degli orientamenti in merito della tradizione della Chiesa unita.
Di particolare interesse canonistico appare l’attribuzione ai novaziani come errore dottrinale, da parte del can. 8 di Nicea, di un orientamento simile a quello occidentale attuale, proposto in una versione rigorista culturalmente analoga alle posizioni da poco adottate ad Elvira sul celibato dei chierici (non condivise a Nicea). L’improponibilità di una qualsiasi parificazione in grado delle due fonti conciliari riposa su principi supremi di diritto costituzionale della Chiesa, con lucida fermezza riportati dall’A.: “Il concilio di Nicea non è un qualsiasi sinodo locale di secondaria importanza, una tappa superata nella bimillenaria storia della chiesa. Appartiene infatti ad una tradizione antichissima, più esplicitamente formulata alla fine del quinto secolo e ribadita ininterrottamente in seguito attraverso i secoli e fino ad oggi, che esiste una gerarchia tra i concili, che i concili locali hanno rilevanza minore dei concili generali, e che questi si riferiscono come ad una norma fondamentale ai primi quattro concili, i quali ‘hanno rango subito dopo gli evangeli’; non solo, ma che il concilio di Nicea fra tutti occupa un posto specialissimo, avendo formulato le basi assolute della fede” (pag. 359).
La questione propone un caso di palmare evidenza della storicità della teologia, e di come i fautori di qualche nuovo orientamento possano essere tentati a forzare in categorie nuove ed opposte dati di fatto che inoppugnabilmente le contrasterebbero in fatto, dal punto di vista della storia della Chiesa. Donde la conclusione che l’A. trae da uno scorretto argomentare, falsificabile a misura di un pregiudizio vero e proprio: “possiamo dire che l’obiezione che viene sollevata alla nostra interpretazione, e secondo la quale la chiesa non avrebbe mai assolto i divorziati risposati dal loro peccato di adulterio, è fondata su convinzioni teologiche e sulla prassi del secondo millennio dell’occidente latino, ma non trova alcun fondamento nei documenti della chiesa cattolica dei primi secoli” (pag. 344). Ce n’è abbastanza per sospettare, sembra suggerire l’A., che su questo punto un’evoluzione tardiva della teologia occidentale abbia trascurato forse troppo un principio che è al centro del giudizio neotestamentario sull’institutum naturae: essere questo una facoltà irrinunciabile di ogni persona, “perché satana non vi tenti”; una facoltà retta “dalla concessione e non per comando”; avendo “ciascuno il proprio dono da Dio, chi in un modo, chi in un altro” (1 Cor., 7, 6-9).
In punto di principio, entrano cioè nella considerazione ermeneutica del giudizio pastorale gli elementi di fatto propri di un’interpretazione concretissima, e non meramente ricostruttiva di una fattispecie astratta (come accade, secondo l’insegnamento di Emilio Betti, di fronte a ogni testo, giuridico o teologico, orientato all’individuazione di una regula agendi rivolta al soggetto attivo, nella vita pratica). Si spiega, allora, come mai la chiesa delle origini abbia esercitato un magistero attento come pochi alla salus animarum; mentre la teologia medievale (e poi la scolastica) si sia piuttosto legata al rafforzamento strenuo dei dati biblici connessi alla regola dell’indissolubilità. Il punto di domanda è se fosse legittimo discostarsi, in un nodo di tanto delicato equilibrio tra vecchio e nuovo testamento, dal magistero del primo e più autorevole tra i sancta illa concilia, cui l’insieme delle chiese confessanti confida da sempre la certezza infallibile della fede comune.
Il divario tra le due tradizioni è comunque ragguardevole, se degli antichi strumenti risolutori in animarum salute hanno avuto sviluppo, in Occidente, solo il privilegio paolino e la dispensa super rato; mentre del diritto al ripudio dell’adultera è rimasto solo l’odierno can. 1152, § 1 del CIC. Basti pensare che Nicea reputava che potessero risposarsi tutti quelli cui i novaziani negavano questo diritto: e cioè la moglie di un marito infedele, lo/la sposo/a di un coniuge rimasto fedele, la donna infedele ripudiata e chi avesse sposata costei. Mentre i novaziani (proprio come oggi i latini) escludevano fin sul letto di morte dalla comunione (alla pari degli apostati e degli omicidi) gli “adulteri”, cioè chi si trovasse in una delle situazioni appena descritte, o analoghe. In punto di che il can. 8 di Nicea, solennemente e certo previa lacerante discussione, pervenne alla decisione storica di dichiarare in ogni sua parte eterodossa l’opinione rigorista, intimando a chi l’avesse professata, ove desiderasse rientrare nella grande chiesa, di accettare per iscritto nella comunione vuoi gli apostati nella persecuzione (lapsi), vuoi coloro che vivessero le seconde nozze in una delle situazioni appena descritte (inclusi, presumibilmente, i vedovi e le vedove).

Arturo Massignani
(Università di Teramo-Diritto canonico)


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