T A V O L A R O T O N D A
CHE FINE HA FATTO
IL DISSENSO CATTOLICO?
(dal n.7 /2012 di Micromega)
Un tempo veniva definito ‘dissenso cattolico’:
era quell’insieme di movimenti, comunità di base, gruppi
parrocchiali eccetera che non esitava a rispondere con la
disobbedienza ai diktat e alle censure di una gerarchia
tanto distante dal messaggio del Vangelo, quanto estranea
all’annuncio di speranza e rinnovamento portato
dal Concilio. Cosa ne è oggi di quelle realtà? Perché
il ‘cattolicesimo visibile’ è solo quello dei papi,
dei cardinali e delle associazioni ‘embedded’?
don PAOLO FARINELLA / don PIERLUIGI DI PIAZZA
don FRANCO BARBERO / VITTORIO BELLAVITE
MicroMega: Sono passati cinquant’anni dall’apertura del Concilio
Vaticano II, evento cui è seguita una stagione di straordinarie speranze
per una radicale riforma della Chiesa. Cosa ne è stato di
quelle speranze? In che cosa il Concilio è «ancora vivo» dentro la
Chiesa e per quali aspetti esso è stato invece «rimosso», o addirittura
«rinnegato»?
don Paolo Farinella: Il Concilio ha aperto una prospettiva, avviando
una rivoluzione, che però – secondo me – è rimasta incompiuta.
Nel cinquantesimo del Vaticano II esprimo gratitudine a papa Giovanni
XXIII e a papa Paolo VI. Aggiungo, però, con estrema chiarezza
che con i due papi seguenti, Wojtyła e Ratzinger, il Concilio è finito,
perché tutti i problemi dell’inizio degli anni Sessanta sono ancora
irrisolti. Siamo tornati al punto di partenza, per non dire peggio.
Oggi la Chiesa è di fatto acefala. Il popolo cammina per i fatti
suoi dando vita a tante piccole Chiese, che procedono per conto
proprio, ma appartengono a quel grande fiume carsico che è l’Ekklesìa.
Essa, che porta avanti e sviluppa con fatica le intuizioni del
Concilio, non si identifica certamente con la gerarchia cattolica cieca
e sorda perché ha paura e per questo vuole tornare indietro. La
gerarchia che si presenta come sinonimo di Chiesa, in questa ossessione
del passato, non è alla ricerca di una Chiesa nemmeno tridentina,
ma va oltre, aspira addirittura a una Chiesa presocratica. Gli ultimi
due pontificati sono stati un disastro per la Chiesa intera.
Ho dedicato il mio penultimo libro, Il padre che fu madre (Gabrielli
editore), al Concilio Vaticano III, IV, V, VI… VIII, IX. Ritengo, infatti,
che bisogna inaugurare una nuova stagione conciliare permanente,
come aveva auspicato anche padre Carlo Maria Martini, recentemente
scomparso. Oggi non è più pensabile che una persona sola, o
un gruppetto oligarchico di funzionari, possa gestire le problematiche
enormi che investono la Chiesa in tutta la sua universalità.
don Pierluigi Di Piazza: In chi l’ha vissuto e in chi ha cercato di
attuarlo, il Concilio Vaticano II ha certamente lasciato un patrimonio
di sensibilità, di orientamenti e di prassi che sono indistruttibili.
E tuttavia, come ha appena detto don Farinella, non si può negare
che il suo ricordo susciti delusione, rimpianto, e a volte anche
un senso di impotenza rispetto alla situazione attuale.
Il filosofo Pietro Prini alla fine degli anni Novanta ha utilizzato
l’espressione di «scisma sommerso» per definire la realtà della
Chiesa di oggi, il rapporto fra i fedeli e la gerarchia. Io stesso lo
scorso anno, girando un po’ l’Italia per presentare il mio libro
uscito con Laterza (Fuori dal tempio: la Chiesa al servizio dell’umanità),
ho trovato conferma di questo fenomeno in diverse realtà parrocchiali.
Non poche persone hanno una presenza attiva nelle comunità,
partecipano alla vita delle parrocchie, ma poi di fatto coltivano
una sensibilità diversa da quella della Chiesa gerarchica, avvertita
come una piramide sacralizzata e distante. Mi pare si tratti
di uno scollamento oltremodo evidente.
In occasione di questo anniversario tutti si affretteranno a celebra-
re, a parole, il Concilio. Ma dai vertici della gerarchia giunge, di fatto,
una «smentita» quotidiana del suo messaggio.
È vero: ci sono tante realtà all’interno della Chiesa che ancora si
muovono lungo il solco del Concilio, che rendono ancora vitale e
fertile il suo insegnamento. L’interrogativo più grande riguarda
tuttavia le giovani generazioni, per le quali quell’evento è molto
lontano nel tempo. I giovani possono percepire lo spirito del Concilio
solo da chi continua a viverlo, non certo attraverso le grandi
adunate degli incontri papali, capaci per lo più di suscitare un superficiale
coinvolgimento emotivo.
L’elemento cardine di quella straordinaria stagione di riforma risiedette
nel nuovo rapporto che si tentò di stabilire fra la Chiesa e
il mondo. Si tentò di favorire il passaggio da una Chiesa come soggetto
«fuori» dal mondo, estraneo alle sue contraddizioni e alla vita
che scorre in esso, a una Chiesa «dentro la storia», segno evangelico,
coerente testimonianza del Vangelo non solo nelle dichiarazioni,
ma soprattutto nella coerenza della vita.
Ancora oggi, su suggerimento del Concilio, tendo ad affrontare
queste discussioni non partendo dalla Chiesa in senso astratto, ma
dalla Chiesa come popolo di Dio che cammina insieme alla storia
di tutta l’umanità. Ricordiamo tutti le bellissime parole con le quali
si apriva la Gaudium et Spes: «Le gioie e le speranze, le tristezze e
le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro
che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le
angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano
che non trovi eco nel loro cuore». Non c’è Chiesa che possa essere
contrapposta al mondo.
E allora non dobbiamo partire dalla Chiesa. La vera domanda che è
necessario porsi è: quale umanità noi sogniamo? Per quale progetto
di umanità noi ci impegniamo, ci battiamo? Esso dovrebbe rappresentare
il sogno che Dio ha per il mondo: un sogno di giustizia, di
pace, di accoglienza, di fraternità, concepito a partire dai più deboli,
dalle persone che fanno più fatica. Solo dopo possiamo domandarci:
rispetto a tutto questo, di quale Chiesa abbiamo bisogno?
Ma se il progetto di umanità corrisponde al sogno che Dio ha per
l’uomo, non possiamo non domandarci subito dopo: quale Dio?
Constato nella Chiesa attuale una sorta di «politeismo» e, dato che
si parla tanto di relativismo, si potrebbe invece considerare il relativismo
riguardo a Dio. In che senso? Sembra che in modo indistinto
ci si possa rivolgere al Dio dei ricchi e al Dio dei poveri; al
Dio di chi legittima le guerre e al Dio di chi si impegna con perseveranza
per la non violenza attiva e per la pace; al Dio di chi fa ap-
pello – in nome di una qualche «identità cristiana» – alle discriminazioni
e al razzismo e al Dio di chi accoglie l’altro, lo straniero; al
Dio di chi è morto per contrastare le mafie e «al Dio dei mafiosi»;
al Dio di chi è legato al potere e al Dio di chi sta con gli umili, e
cammina con i poveri di questa società e della terra. Ecco: l’interrogativo
su «quale Chiesa?» secondo me rimanda alla domanda su
«quale Dio?». Ma anche su «quale Gesù?»: il Gesù delle devozioni o
il Gesù di quella provocazione rivoluzionaria che il Vangelo continua
a suggerirci quotidianamente? «Quale umanità?», «Quale
Dio?», «Quale Gesù?». Solo da ultimo: «quale Chiesa?».
La Chiesa è solo un segno dentro alla storia. Anche noi preti dobbiamo
interrogarci sul senso e sul ruolo della nostra missione –
«quali preti?» – solo dopo aver cercato di rispondere a tutte le domande
che ho appena evocato. Partendo dalla Chiesa e dai preti rischiamo
di indulgere in una sorta di autoreferenzialità, in un atteggiamento
per cui la Chiesa guarda a se stessa, al proprio interno,
e ha col mondo un rapporto di competizione, o di paura, o di
sospetto. Sentimenti che ispirano ammonimenti, condanne, al limite
consigli, ma non certo spirito di confronto e dialogo. Il Concilio
ci ha insegnato che la Chiesa deve ascoltare prima di parlare.
don Franco Barbero: Io sono stato consacrato proprio l’anno di
inizio del Concilio (1962) e quindi nel suo cinquantesimo anniversario
festeggio anche i miei cinquant’anni di sacerdozio.
Allora ho sentito che potevo amare questa casa perché finalmente
era una casa dentro il mondo. Don Di Piazza ha ricordato l’incipit
della Gaudium et spes, la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel
mondo contemporaneo. A me piace tornare con la mente alle parole
del numero 11: «Il popolo di Dio, mosso dalla fede con cui
crede di essere condotto dallo Spirito del Signore che riempie
l’universo, cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e
nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del
nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza o del disegno
di Dio». Io allora sentivo profondamente questo anelito di presenza
simpatetica nel mondo. Mi sentivo veramente spronato ad amare
la mia fede, ad amare questa Chiesa. E infatti mi sono buttato,
direi quasi a capofitto, nella mia missione.
Oggi non sono assolutamente un prete deluso. Sono un prete
«problematizzato». Se volete, per certi versi, sofferente. Ma anche
gioioso e fiducioso, perché alcune indicazioni del Concilio, nonostante
tutti i sacri palazzi, mi sono rimaste vive nel cuore e le vedo
palpitare anche nei petti e nelle menti delle donne e degli uomini
intorno a me.
La prima grande acquisizione del Concilio è stata che la Chiesa
non coincide con la gerarchia. Una volta dire Chiesa voleva dire gerarchia.
Adesso con la parola Chiesa mi viene in mente lo sterminato
popolo delle strade, dove ogni donna, ogni uomo ha un proprio
cammino, una propria ricerca, una propria sofferenza, una
propria gioia e un proprio amore. Ah, come mi piace pensare che
Dio è in queste strade, in queste arterie dell’umanità!
Io non vado mai in giro in macchina (anche se purtroppo sono
spesso obbligato a prendere il treno o l’aereo). Percorro ogni giorno
le strade della mia città, guardo negli occhi delle donne e degli
uomini che incontro e mi sembra che lì si possa scorgere la prima
presenza di Dio. È questo ciò che mi pare ancora vitale del Concilio,
nonostante tutti i venti contrari che in seguito si sono levati.
E ancora: il Concilio vive nella consapevolezza che la Chiesa è legata
indissolubilmente al Vangelo. Dove c’è Vangelo, lì c’è Chiesa.
Dove c’è amore per i poveri, dove c’è vicinanza all’umanità, gioiosa
o sofferente, lì c’è Chiesa. Dove si sta con i minatori, dove si sta
con gli esodati, i licenziati, i tossicodipendenti, dove si sta con le
persone che la Chiesa ha sempre emarginato – le donne, gli omosessuali,
i transessuali – ecco, lì ci vedo la Chiesa e il Concilio.
Quest’ultimo ha rappresentato la spinta ad entrare nel nuovo
mondo che stava nascendo, con le nuove frontiere della scienza e
dei grandi rivolgimenti sociali. Quella spinta io la sento ancora.
Certo, ne vedo tutte le negazioni e le manipolazioni. Ma questa
Chiesa della compagnia e non del dirigismo continuo a scorgerla in
tanti germogli e, qualche volta, in fiori e frutti che mi riempiono il
cuore di gratitudine verso Dio.
Per questo io amo ancora tantissimo la mia Chiesa e non ho mai
pensato di andarmene, di sbattere la porta. Però capisco che essa
deve aprire gli occhi e le orecchie. Chi ha dei ministeri – soprattutto
chi ha dei ministeri – deve scoprire questo passeggiare di Dio
nelle vie del mondo. Altrimenti il grande spazio del «palazzo» rischia
di diventare definitivamente una casa vuota.
Vittorio Bellavite: Io non sono un prete, ho una numerosa famiglia
e nella mia vita ho percorso le strade del lavoro e della politica.
Quindi ho un’esperienza leggermente diversa da quella degli
interlocutori che mi hanno preceduto ed esprimo un punto di vista
che non è solo il mio: è frutto della riflessione sviluppatasi all’interno
del movimento Noi Siamo Chiesa, del quale io coordino
la sezione italiana.
Io sono più ottimista rispetto alle parole pronunciate da don Farinella
all’inizio della nostra discussione. Non credo che i problemi
di oggi siano esattamente gli stessi di fronte ai quali si è trovato il
Concilio.
Ricordo che cos’era la Chiesa prima di esso. Cos’erano i seminari
(si entrava in seminario a undici anni!), le liturgie con la messa in
latino, i rapporti con i cosiddetti «infedeli», oppure anche solo con
i protestanti. Ricordo un’idea di cristianità chiusa, diffidente verso
l’esterno, oppure organizzata solo per conquistare il mondo. La
Democrazia cristiana era il partito dei cattolici e doveva gestire lo
Stato. Se penso a come era a quel tempo la Chiesa vedo chiaramente
che tanti positivi cambiamenti promossi dal Concilio si sono
in effetti prodotti e resistono ancora oggi.
Ne faccio un elenco rapido e molto parziale: 1) la nuova attenzione
alla parola di Dio, cioè alla lettura della Bibbia: una volta la sua lettura
diretta era considerata una cosa dei protestanti ed era vista
con diffidenza; 2) una maggiore libertà di coscienza al contrario
della precedente ossessionante casistica dei peccati mortali e di
quelli veniali; 3) la liturgia diversa: anche se poi la riforma liturgica
è stata «sterilizzata», è comunque una straordinaria novità quella di
poter capire le parole del prete durante la celebrazione eucaristica;
4) le novità nel rapporto con il mondo: da quel momento tanti
cristiani hanno compreso e praticato le parole della Gaudium et
spes che sono state citate prima; penso ad esempio alle esperienze
di lotta per la giustizia nate sulla scorta della teologia della liberazione
in America Latina; o al grandissimo impegno di tanti cattolici
in tutto il mondo a favore della pace, del disarmo e della nonviolenza.
Tutto ciò ha origini nel Concilio, nella Pacem in terris.
Molte cose del Concilio non sono state cancellate. E non saranno
cancellate in futuro da nessun Ratzinger: sono cose irreversibili.
Certamente ci sono anche tante riforme che sono state bloccate,
soprattutto quelle che riguardano l’organizzazione gerarchica della
Chiesa: è del tutto evidente che la collegialità – ovvero l’auspicato
strumento di partecipazione del popolo di Dio all’organizzazione
e alla gestione della Chiesa di cui parlava il Concilio – nella
Chiesa di oggi non esiste. Su questo, e sull’ecumenismo, si è registrata
una chiara e inequivocabile battuta di arresto, in particolare
con il pontificato di Ratzinger.
Però il mio giudizio sui due papi più recenti è più articolato di
quello di don Paolo Farinella, che mi sembra li accomuni in
un’opera di sostanziale demolizione delle riforme degli anni Sessanta
e Settanta. Detto in modo esplicito, le critiche che rivolgiamo
a Ratzinger sono molto più severe di quelle che facciamo a
Wojtyła.
Io credo che noi dobbiamo usare lo spirito del Concilio per andare
oltre il Concilio, cioè per affrontare tutti quei problemi che il
Concilio non ha saputo trattare o risolvere. Per esempio quello dei
ministeri e del ruolo della donna all’interno di essi. O quello della
Chiesa povera e dei poveri (problema che è stato posto ma non risolto
al Concilio). O ancora quello dell’organizzazione della curia.
Bisognerebbe dunque andare oltre il Concilio.
Da diverso tempo è in corso un dibattito interno dell’area «critica»
della Chiesa nella quale, bene o male, tutti coloro che siedono intorno
a questo tavolo si riconoscono. Mi riferisco alla discussione
sull’opportunità di un Vaticano III. Io e la mia associazione pensiamo
che occorra fare un passo indietro. Bisogna prima di tutto attuare
il Vaticano II. E prima ancora fare memoria del Vaticano II,
riuscire a trasmetterne lo spirito e gli insegnamenti a tutti quei
giovani che per ragioni anagrafiche non lo hanno potuto vivere direttamente.
don Farinella: Nel precedente intervento, davo per scontato che le
conquiste del Vaticano II sono acquisite: nessun papa le potrà
espungere dalla vita e dal cuore dei fedeli e dalla prospettiva della
storia. Chi lo pensa s’illude. I papi possono solo rallentare la storia,
come ha fatto il famigerato papa Pio X, che, ossessionato dal modernismo,
mise in piedi un «servizio di spionaggio», bloccando ricerca
e teologia, sostituiti dal catechismo a memoria. Il Vaticano II
fece piazza pulita insegnando l’esatto contrario.
Nei confronti dei due più recenti pontefici, Wojtyła e Ratzinger, ribadisco
il mio giudizio. Sono stati i peggiori papi degli ultimi 100
anni: il primo ha posto premesse e metodo, il secondo è la logica
conseguenza estrema del primo.
È vero, Wojtyła ha contribuito ha «demitizzare» la figura del papa
con la sua carica carismatica di uomo «di carne»; lo ha fatto, però,
al prezzo di una spettacolarizzazione mondana, accentrando ancora
di più la funzione della Chiesa nella sua persona. All’epoca girava
una battuta divertente: «Qual è la differenza tra Wojtyła e Dio?
Dio è in cielo, in terra e in ogni luogo… Wojtyła c’è già stato!». Non
ho e non avevo nulla contro i viaggi del papa che deve essere presente
nel cuore del mondo. Dal punto di vista teologico ed etico,
però, il suo pontificato è stato una tragedia; ha completamente
stroncato le teologie diverse dalla «romana»: la teologia della liberazione,
quella indiana, africana eccetera. Grandissimi teologi in
quegli anni vennero espulsi dalla Chiesa a causa del loro pensiero.
Wojtyła ha espanso a dismisura le diocesi ad personam, dando autonomia
incontrollata all’Opus Dei, a Comunione e liberazione, ai
neocatecumenali, alla diocesi militare eccetera. Intanto 50 mila
Comunità di base in Brasile vennero decapitate o boicottate. La
conseguenza è che ora il Brasile è in mano alle sette, cattoliche o
non cattoliche poco importa.
Wojtyła ha frantumato la Chiesa per asservirla alla sua grandiosa
figura, alla quale teneva anche. Il suo modello fu la Chiesa polacca,
per lui «sacramento» della Chiesa universale.
Non dimentichiamo che per venticinque anni il suo collaboratore
principale è stato Joseph Ratzinger che gli scriveva i documenti.
Oggi Ratzinger è coerente: tira in proprio le logiche conseguenze
di ciò che faceva prima per conto di Wojtyła.
Alcuni anni fa ebbi la curiosità di esaminare i testi ufficiali del
pontificato di Wojtyła nel corso di 27 anni: l’espressione «popolo
di Dio», coniata dal Concilio che vi ha dedicato addirittura il capitolo
II della Lumen gentium, non si trova. Tutta l’impostazione generale
della Costituzione Lumen gentium si regge su quella espressione
biblica forte e per questo è stata abolita. Al suo posto, invece,
ricorre la locuzione «Chiesa-Comunione», che non è compromettente.
L’espressione «Chiesa popolo di Dio» si trova solo due volte
nel documento Christus Dominus (che affossa ogni forma di ecumenismo),
nell’ambito della condanna della teologia della liberazione,
come categoria socio-economica e quindi condannata. È un
fatto grave del quale oggi paghiamo le conseguenze.
Nel mio piccolo, cerco di pensare con la mia testa; mi occupo un
po’ di teologia, e un po’ di più di esegesi e studio delle Scritture.
Da credente praticante e da prete, mi considero cattolico apostolico,
ma non romano. La Chiesa non può essere il fine del messaggio
cristiano perché essa è e resta nell’ordine dei mezzi, destinata quindi
a finire. Non può proporre se stessa, o peggio ancora la gerarchia,
come oggetto e fine del suo annuncio.
Don Di Piazza ha posto la domanda pertinente su quale umanità
noi sogniamo, che rimanda al concetto di Regno di Dio nel Nuovo
Testamento: il Regno non è altro che un modo nuovo di relazionarsi
al prossimo, sull’esempio del Dio di Gesù. Ciò non può essere
sperimentato all’interno delle sacrestie o dei piccoli gruppi autoreferenziali
nei quali si sta parcellizzando la Chiesa.
Recentemente, nell’ambito di un’operazione a mio parere aberrante,
gruppi di anglicani dissidenti sono stati ammessi nella
Chiesa cattolica e anche ad essi è stata data una diocesi personalizzata,
fatta apposta per loro. Lo stesso il Vaticano sta pensando di fare
con i lefebvriani che avranno un’autonomia maggiore, cioè saranno
una «chiesuola nella Chiesa».
All’interno della Chiesa vanno dunque prendendo forma due tendenze
apparentemente contraddittorie: da una parte il sempre più
asfissiante accentramento del potere nella piramide gerarchica;
dall’altra la frantumazione in segmenti di disperati, collezione di
gruppi più vari e pittoreschi.
don Di Piazza:Vorrei riprendere un attimo il discorso sui semi del
Concilio che continuano a dare i loro frutti ancora oggi. Don Barbero
ha evocato un’immagine molto profonda e molto vera quando
ha detto di incontrare tutti i giorni la Chiesa del Concilio per le
strade della sua città. È negli sguardi, nelle storie, nelle manifestazioni
di prossimità e di amore delle persone comuni che possiamo
scorgere i segni più chiari e incoraggianti di una Chiesa ancora
protesa in avanti e immersa nel mondo, nelle sue gioie e nelle sue
sofferenze.
Anch’io cerco di far vivere questi segni nel mio impegno di prete,
in particolare con il Centro Balducci, che ospita una cinquantina
di persone da 13 paesi differenti (quest’anno, a proposito, ricordiamo
i vent’anni dalla morte di padre Ernesto Balducci e di padre
David Maria Turoldo e delle vittime delle stragi di Capaci e di via
D’Amelio).
Per quanto concerne il pontificato di Giovanni Paolo II, non sono
uno storico, e dunque non ho la presunzione di dare chissà quale
interpretazione esaustiva. Dico solo che rispetto a quegli anni ho
una sensazione di «dualità». Rivolgendosi all’esterno papa Wojtyła
è stato protagonista di gesti molto importanti e positivi. Penso ad
esempio alla prima guerra del Golfo: la sua voce si è levata con
grande forza e quasi solitaria contro quel conflitto, definito come
«un’avventura senza ritorno». Oppure penso l’evento di Assisi del
1986, ovvero alla Giornata mondiale di preghiera per la pace, a cui
presero parte i rappresentanti di tutte le grandi religioni mondiali.
Padre Balducci salutò quel giorno come segno ben augurante per
il futuro (anche se successivamente abbiamo visto quanti passi indietro
si siano fatti sul piano dell’ecumenismo). Oppure, ancora,
penso alla richiesta di perdono fatta nel 2000, anno del Giubileo,
per le violenze perpetrate nel corso dei secoli dalla Chiesa nei
confronti di tanta parte dell’umanità (gesto che, si dice, suscitò allora
le forti perplessità del cardinale Ratzinger).
Ora, accanto a questi aspetti positivi del pontificato di Giovanni
Paolo II che non possiamo non riconoscere, c’è un aspetto per me
fondamentale che getta un’ombra diffusa e suscita interrogativi dirimenti:
in quegli anni la Chiesa è stata lui, è stata il papa e questo
è grave. La sua visibilità, il suo protagonismo, la sua capacità di pa-
droneggiare i nuovi mezzi di comunicazione di massa hanno oscurato
tutto il resto. Dov’era la Chiesa in quegli anni? E dov’era la
collegialità? Dove i diversi ministeri? Dove gli episcopati, le comunità,
le donne? Dove le teologhe e i teologi sospettati e tacitati?
La Chiesa ha assunto un’«identità cattolica polacca», ha cancellato la
teologia della liberazione e si è gettata nelle mani dell’Opus Dei, dei
Legionari di Cristo, di altri movimenti come Comunione e liberazione
eccetera. Ancora oggi nel mondo ci sono tanti vescovi dell’Opus
Dei che sono il frutto di quella stagione storica. Quando ho avuto
l’occasione di incontrare qualche comunità dell’America Latina ho
notato che a quelle persone vengono i brividi al solo sentir pronunciare
il nome «Opus Dei». Associano immediatamente quelle due parole
ai gruppi della ricchezza, del potere e del militarismo. Di fatto,
l’esaltazione dell’identità ha soffocato la democrazia nella Chiesa.
Quando è stato eletto l’attuale papa, mi sono posto un interrogativo:
come potrà Ratzinger guardare il mondo con altri occhi rispetto
a quelli con cui l’ha osservato finora? Era una domanda sincera,
non c’era malizia o pregiudizio. Mi domandavo: chi per 25 anni è
stato prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, e
dunque ha guardato dentro la Chiesa con l’atteggiamento di chi
deve controllare – e reprimere – come può trovare la via giusta per
la nuova missione cui è stato chiamato?
Hans Küng, che a suo tempo fu collega di insegnamento di Ratzinger
a Tubinga, disse di sperare nell’intelligenza del nuovo papa per
avviare qualche riforma indispensabile. Sperava che capisse l’urgenza
di attuarle, a cominciare dal drastico ridimensionamento
della centralizzazione del potere a Roma. Successivamente lo stesso
Küng ha espresso la sua forte delusione per il papato di Benedetto
XVI e ultimamente ha anche pronunciato un giudizio severo:
ha detto che il papa fa lo studioso in Vaticano, ma non esercita
il suo compito di guida.
Sono d’accordo: questo papa fa il teologo – poi magari discuteremo
della sua teologia – ma non orienta in modo deciso la traiettoria
della Chiesa di cui è alla guida. Inoltre, secondo il mio sentire,
non ha attenzione verso le situazioni di marginalità e di povertà;
pare non vibrare con la storia, non ascoltare ciò che succede nelle
Comunità di base, ciò che si muove e ferve dentro la sua Chiesa. È
una situazione preoccupante.
don Barbero: Non possiedo un misurino per valutare in modo
preciso e incontrovertibile il livello di oppressione esercitato tanto
da Wojtyła quanto da Ratzinger. Vorrei però fare tre semplici annotazioni.
Nello stile di Giovanni Paolo II c’era un tratto di grandiosa spettacolarità
che ne ha fatto, come bene è stato scritto, un «papa Re».
Quella spettacolarità esulava del tutto dalla concezione che io ho
del Vangelo. Nella vita di ogni giorno noi siamo persone che vanno
a comperare il pane, che lavano l’insalata, che mangiano insieme
agli altri. E questa era anche la vita che conduceva Gesù, cioè
quella di un uomo semplice, umile. Per questo la Chiesa non può
diventare una macchina dello spettacolo, il quale fra l’altro esige
strumenti, spazi e appoggi che non possono non comprometterne
la missione. La Chiesa mediatica non è altro che una versione aggiornata
della Chiesa imperiale.
L’altra cosa che mi ha molto turbato del pontificato diWojtyła, e
mi ha distanziato dalla sua figura, è l’ambiguità dei gesti. In Cile si
è affacciato dalla finestra del palazzo presidenziale con il dittatore
Augusto Pinochet e in Nicaragua ha umiliato padre Ernesto Cardenal,
che si era inginocchiato di fronte a lui.
Nelle sue spettacolari esibizioni ha indossato il casco dei minatori,
ha stretto le mani di lavoratori, ha celebrato messe con i popoli oppressi
dai governi e dalle multinazionali, ma poi nei documenti e
nella politica ecclesiastica ha bastonato coloro che si schieravano
dalla parte dei poveri.
Di Wojtyła, infine, non posso accettare il suo dubbio permanente e
costante verso l’intelligenza dei teologi e delle teologhe. Nutriva
un vero e proprio sospetto per l’intelligenza e ostentava un falso
richiamo alla tradizione riducendola a tradizionalismo.
Devo dire che quando morì Wojtyła, non pensavo potesse esserci
di peggio. Mi sono sbagliato. Ratzinger è di fatto un figlio, un fratello
di Wojtyła. Fra loro c’è un’assoluta continuità, che si esprime
anche nella graduale ma costante strozzatura del Concilio.
don Farinella: Lo strozzano citandolo…
don Barbero: Esatto. Strozzano il Concilio, ma continuano a citarlo:
hanno sempre il Concilio sulla bocca. E questo è un altro
aspetto della loro ambiguità. Come quando noi cristiani parliamo
continuamente di perdono, ma utilizziamo questi richiami come un
alibi per mantenere l’odio nel cuore.
Bellavite: È sempre difficile dare i voti a processi estremamente
complessi. Don Di Piazza ha citato prima tre cose positive di Wojtyła
– la posizione contro la guerra, l’incontro delle religioni del
mondo di Assisi nell’86 e il pentimento del 2000 – che però «riscattano
» solo in parte altri aspetti molto negativi ricordati, ad
esempio, da don Farinella e don Barbero. Per questo motivo noi
abbiamo un giudizio complessivamente negativo di Giovanni Pao-
lo II e al tempo stesso ritengo che ci può sempre essere qualcosa
di peggio. E, infatti, Ratzinger è peggio.
Benedetto XVI ha continuato nel solco del predecessore, ma in lui
non si possono rintracciare nemmeno quelle «luci isolate» che
hanno caratterizzato Giovanni Paolo II.
Per noi non si è trattato di una delusione, perché era del tutto prevedibile
come sarebbero andate le cose.
Innanzitutto Benedetto XVI ha cambiato radicalmente la politica
estera vaticana. Non dimentichiamo, a tal proposito, quale importanza
hanno rivestito gli incontri fra il papa e il presidente americano
George W. Bush in Vaticano e alla Casa Bianca.
Non è un caso se oggi ci ritroviamo con il cardinale di New York,
Timothy Dolan, presidente dei vescovi americani, che va a benedire
la Convention repubblicana di Tampa e a lanciare la volata elettorale
a Mitt Romney. Oggi la Chiesa cattolica americana – almeno
nelle sue strutture gerarchiche – sceglie di schierarsi a destra, e ciò
è stato enormemente facilitato dalla politica di Ratzinger.
Questo papa, inoltre, non ha la minima capacità di gestire le strutture
e le persone. Guardiamo a tutto ciò che è successo più di recente
in Vaticano: le trame, i complotti, la confusione, gli scandali,
la fiducia concessa a Bertone, personaggio solo di potere oltre che
incapace. È inutile che riassuma in questa sede fatti che tutti conoscono
benissimo. Come credete che i fedeli leggano tutto ciò?
Quale percezione della missione del papa pensate che risulti ai loro
occhi?
Per quanto riguarda, infine, l’orientamento – diciamo così – teologico-
pastorale, c’è questa ossessione del «relativismo» che è una
pura manifestazione di paura e di sfiducia nei confronti del mondo.
Siamo all’esatto rovesciamento delle ragioni che spinsero Giovanni
XXIII a convocare il Concilio. Allora si disse che bisognava
aprire le porte e le finestre della Chiesa al mondo. Oggi si tenta di
chiudere ogni spiraglio.
don Farinella: Don Di Piazza ha citato l’Opus Dei e la reazione di
sdegno dei suoi amici. Vorrei aggiungere un piccolo aneddoto su
questa massoneria clericale bigotta che ormai detiene in mano sua
le finanze del Vaticano.
Quando studiavo nel seminario per l’America Latina di Verona mi
è capitata fra le mani una traduzione del Vangelo fatta dall’Opus
Dei per un corso formativo per imprenditori e banchieri. Matteo
5,3 – cioè l’incipit delle Beatitudini, la Carta costitutiva del Regno
di Dio, «Beati i poveri di spirito» – era tradotto esattamente così:
«Beati voi che, pur essendo ricchi, siete distaccati col cuore dalle
ricchezze terrene». È la mistificazione più blasfema che si potrebbe
immaginare perché i clienti dell’Opus Dei sono i ricchi e i potenti.
Sì, basta essere distaccati col cuore purché il portafogli non
si tocchi!
Quanto invece al «papa teologo», ricordo che il codice di diritto canonico
del 1917 (Benedetto XV), quello precedente l’attuale (riformato
da Wojtyła), vietava esplicitamente al papa di scrivere libri. Il
motivo era ovvio: i suoi scritti, pur non avendo carattere magisteriale,
influenzano senza dubbio la teologia ufficiale e la pastorale
nelle parrocchie. Non è forse quello che è accaduto con il «Gesù»
edulcorato di papa Ratzinger, che è stato adottato come testo ufficiale
di catechismo in molte parrocchie? «Proprio perché l’ha
scritto il papa, è un testo sicuro», sento ripetere in giro. Il papa non
deve essere un teologo di professione, ma un pastore che, nel suo
ministero, si serve di biblisti, di teologi e di altri specialisti.
Oggi Benedetto XVI fa il teologo e lo scriba, ma non governa la
Chiesa. Aggiungiamo poi che il suo segretario di Stato, oggi l’inadeguato
Tarcisio Bertone, si diletta in trame e complotti e il quadro
è chiaro: governano alcuni curiali da strapazzo.
Una parola sul confronto Wojtyła-Ratzinger. Credo ci sia un’assoluta
continuità fra le due figure. QuandoWojtyła era papa, Ratzinger
era il prefetto dell’ex Sant’Uffizio ed era lui la «mente teologica
» del pontificato. È stato lui il responsabile dello spengimento di
tutte le luci che rappresentavano una speranza per la Chiesa. Da
una prospettiva storica, possiamo dire che il papato di Wojtyła è
stato tra i più reazionari, oggi superato solo dal suo discepolo e
successore, Ratzinger.
All’inizio degli anni Ottanta sono stato in Polonia due volte, poco
dopo l’avvento al potere del generale Wojciech Jaruzelski, per studiare
la struttura ecclesiastica e capirne la mentalità. Non mi sono
ingannato perché ho ritrovato in tutti gli atti di Giovanni Paolo II
la ferma volontà di esportare quel modello di Chiesa in tutto il
mondo, riuscendoci egregiamente e con l’aiuto di Ratzinger. Questi,
dopo ogni gesto di apparente apertura del papa, interveniva
con un documento che era un’immediata smentita. I due seguivano
un po’ la strategia degli interrogatori di polizia con il doppio
ruolo del poliziotto buono e quello cattivo.
MicroMega: Il disagio che voi avete appena espresso nei confronti
dei massimi vertici della gerarchia cattolica è condiviso anche da
tantissimi fedeli. Diversamente che nel passato, però, l’area di questo
dissenso appare particolarmente silente, se non addirittura in
crisi. È solo una questione di scarsa visibilità mediatica – televisio-
ni e giornali danno sempre spazio agli alti prelati ma mai alle realtà
di base – o ci sono dei problemi più profondi?
don Farinella: Ritengo che per affrontare questo discorso dobbiamo
prenderne in considerazione diversi aspetti. In primo luogo
c’è un fattore anagrafico: le persone che hanno vissuto l’epoca del
Concilio invecchiano e si ammalano. C’è, quindi, un elemento di
stanchezza fisica in chi è stato testimone di quegli eventi e ha cercato
di proseguire lungo lo stesso tracciato nella propria attività
dentro le comunità, le parrocchie e i gruppi. C’è poi una componente
di disillusione. Infine c’è da fare i conti con una vera e propria
repressione dall’alto. Tutti quelli che sono qui oggi, compreso
Vittorio Bellavite, che non è prete, hanno avuto a che fare con le
censure della gerarchia. Da molto tempo è in atto nella Chiesa una
repressione sistematica, direi scientifica, per arrivare a cancellare
il Concilio dall’orizzonte della Chiesa senza espellerlo formalmente:
basta svuotarlo.
Una nota autobiografica: ho 65 anni e sono parroco di una parrocchia
senza territorio e senza parrocchiani nel centro storico di Genova,
che da 25 anni non aveva il parroco. Il motivo è ovvio: «sistemandomi
» qui, secondo il sistema di potere, si evita che io possa
fare «danni» maggiori.
Mentre parlo ho tra le mani l’edizione critica delle Cinque piaghe
della Chiesa di Antonio Rosmini del 1848, edite da Clemente Riva
nel ’66. Rosmini è stato messo all’indice e perseguitato. Il Vaticano
II lo ha rivalutato e qualche anno fa è stato beatificato, cioè annesso
al sistema, ma svuotato della sua dirompenza. Penso che questo
sarà il destino anche di chi, in epoca recente, è stato colpito dalla
censura vaticana. Personalità come padre Davide Maria Turoldo,
Primo Mazzolari, don Lorenzo Milani, Leonardo Boff, Gustavo Gutiérrez,
Frei Betto… Sono stati tutti emarginati e perseguitati dalla
Chiesa. Leonardo Boff è stato difeso davanti a Ratzinger da due
cardinali: Paulo Evaristo Arns e Aloisio Lorscheider, eppure, nonostante
la loro convinta difesa a garanzia della sua ortodossia, è
stato espulso e, d’autorità, ridotto allo stato laicale. Credo che sia
un peccato grave di cui Ratzinger e Wojtyła dovranno rispondere
davanti a Dio. La loro persecuzione non fu attuata in funzione della
fede, ma della visione di Chiesa che la gerarchia ha tentato d’imporre
a tutta l’Ekklesìa cattolica.
Se guardo l’indice delle Cinque piaghe della Chiesa di Rosmini, rilevo
che i problemi di fronte ai quali oggi ci troviamo sono gli stessi
del 1848. La prima piaga è la divisione del popolo dal clero nel
pubblico culto; lo stiamo sperimentando: non basta avere una li-
turgia in italiano quando la sintassi è latina! Segue la disunione
dei vescovi e l’insufficiente educazione del clero: oggi quasi tutti i
preti che studiano a Roma sono obbligati a scegliere diritto canonico,
morale oppure mistica, mentre la Scrittura viene completamente
snobbata. Papa e cardinali non si fidano dei biblisti. A me
in seminario, dopo che mi fu sequestrata la rivista Il Regno dei dehoniani,
mi è stato proibito – con diffida formale – di leggere libri
editi dopo il 1963, in quanto pericolosi perché post-conciliari.
Un altro gigantesco problema della Chiesa di oggi, che rallenta o
impedisce il rinnovamento, è il laicato. Nonostante tutte le cose incoraggianti
dette da Bellavite, da don Di Piazza e da don Barbero, io
credo che il laicato sia un laicato minorenne e clericale. Non ha coscienza
di sé e del proprio ruolo. L’ho riscontrato anche nelle mie
esperienze di parroco: ci si aspetta sempre l’imbeccata dal prete.
I laici, se presi individualmente, hanno una chiara concezione della
loro autonomia e dignità, ma faticano ad assumersi responsabilità
collettive. Di fronte alla presa di posizione particolarmente indigesta
di un vescovo, ad esempio, mugugnano… magari scrivono
anche un documento, ma poi tutto si ferma lì.
O la facciamo finita con questa Chiesa clericale e passiamo davvero
al concetto della Ekklesìa-assemblea, della Chiesa popolo di
Dio, oppure possiamo fare anche diecimila concili, ma resteremo
sempre al palo.
don Di Piazza: Indubbiamente viviamo tempi complessi. Ma la
sofferenza non riguarda solo la Chiesa, attraversa tutta la società.
Non credo, tuttavia, si possa parlare di una generale crisi della religione.
Di religione, a mio modesto sentire, ce n’è anche troppa
nella nostra società. Non mancano di certo le celebrazioni, i rituali,
le solennità rilanciate in ogni minuto dai media.
Altra cosa è la Chiesa della fede, la Chiesa del Vangelo. È una
Chiesa esigente, questa: chiama a scelte radicali, perché il mondo
ha bisogno di una portentosa spinta alla giustizia, di un grande
processo di umanizzazione.
Mi chiedo allora se non dovremmo orientarci, anche in Italia, verso
una Chiesa di minoranza.
Le maggioranze, alla fine, si alleano sempre con i poteri. Ricordo
una frase di Dietrich Bonhoeffer: «Verrà un tempo in cui saremo
chiamati a pregare e a impegnarci per la giustizia». Se questi fossero
l’atteggiamento e la prassi della Chiesa, saremmo molto più in
sintonia col Vangelo. Il «pregare» è da intendersi nel senso più autentico,
come vibrazione profonda dell’essere dentro alla storia,
con riferimenti all’ulteriorità, non nel senso di una fuga dal mon-
do. E «l’impegno per la giustizia» dovrebbe riassumere tutte le dimensioni
della nostra vita.
Al di là dei problemi, ritengo anche che ci sia una certa sottovalutazione
da parte degli osservatori e dei media di ciò che si muove
alla base della Chiesa. Esistono centinaia e centinaia di esperienze,
anche nel nostro paese, che sono una fulgida testimonianza di
Chiesa del Vangelo. Comunità, associazioni, centri di accoglienza
per persone che in diverso modo fanno fatica: non mancano davvero
esempi con i quali nutrire la speranza. I mezzi di informazione
prestano attenzione quasi solo alla Chiesa gerarchica, alla Chiesa
del potere, ma non significa che non esista altro.
Il punto, forse, è che questo «altro» non riesce a coordinarsi e organizzarsi.
Recentemente, in Austria, 400 preti hanno firmato l’appello
della Pfarrer Initiative, che ha fatto molto scalpore. Perché da
noi non si realizzano situazioni simili? Credo manchi la capacità di
«fare rete», di stabilire percorsi condivisi ed efficaci.
don Barbero: È chiaro che la gerarchia coltiva il sogno, dove può,
di una Chiesa di minorenni. L’ignoranza biblica, il devozionismo,
tutto questo insistere sulle madonne, i santi, le grandi adunate eccetera,
sono elementi funzionali a un obiettivo preciso: distrarre
dal Gesù storico e dal Dio di Gesù. Dobbiamo guardare con occhi
ben aperti a questi fatti. Noi vogliamo una Chiesa di adulti e di
adulte. Da qui nasce il contrasto. È stato scritto, in un bel libretto
un po’ irridente nei confronti di Ratzinger (Anonimo, Contro Ratzinger),
che oggi «i laici sono ridotti come le mucche che guardano
il treno passare». Una Chiesa di spettatori non è più una Chiesa di
protagonisti e di protagoniste.
Tuttavia può darsi che nell’analizzare questa «crisi», se vogliamo
chiamarla così, siamo un po’ traditi da un’ottica esclusivamente
italiana. Io ho la fortuna di avere molti contatti anche fuori dal nostro
paese, e posso assicurare che in tantissimi posti la situazione è
ben diversa. Penso, solo per far riferimento a vicende più recenti,
alla coraggiosissima presa di posizione dei gesuiti del Paraguay
sulla destituzione del presidente Lugo.
Penso, con loro, a tutta l’America Latina, a quelle migliaia di gruppi
di campesinos cristiani che ogni giorno lottano contro il loro
sfruttamento; all’Università Cattolica di Lima che si ribella e continua
a studiare e a produrre. Penso ai preti dell’Austria, ai domenicani
olandesi, ai molti teologi che, fatti fuori dal circuito ufficiale,
continuano a lavorare, non arrestano il loro cammino (io stesso,
per quando sia il più piccolo del mondo, quando ho ricevuto una
porta chiusa dal papa mi sono trovato con tre altre porte aperte).
L’Italia è un caso un po’ particolare, visto il grande controllo che su
di essa può esercitare il Vaticano. Ma se guardiamo all’ecumene cristiana,
anche cattolica, nel suo complesso rintracciamo un fermento
e una vivacità incredibili. E io ringrazio Dio per tutto questo!
Nel nostro paese il movimento delle Comunità di base ha svolto
storicamente un servizio prezioso. Ha aperto nuove vie, ha fatto sedimentare
esperienze. Però temo che alcune comunità talvolta si
siano innamorate un po’ troppo del loro modello. E quando ti innamori
del modello, rischi di non vedere tutto quello che intorno
a te si muove e va avanti.
Non è detto, comunque, che questa crisi del cattolicesimo «critico»
in Italia non possa essere salutare. Ci abitua a camminare con l’andatura
dei poveri, che è un’andatura lenta.
Io nella mia esperienza, siccome non ho mai costruito nulla di
«grande» e ho sempre apprezzato il lavoro quotidiano, trovo che la
vita di tutti i giorni sia una palestra fondamentale per crescere nella
forza, nella costanza e nella pazienza.
Noi non dobbiamo sbattere la porta della nostra casa: dobbiamo
amare la nostra casa con la volontà di renderla più bella. Ciò non
significa rinunciare a dire quel che si pensa. Io, ad esempio, penso
che la Chiesa stia compiendo nei confronti delle donne e degli
omosessuali errori peggiori di quelli compiuti con il caso Galileo.
Vive fuori dalla storia come e più di allora.
Nelle gerarchie c’è un clima di ostilità e diffidenza verso tutto. Ma
in questa casa nella quale ho deciso di restare, ho incontrato anche
tanti vescovi, tanti preti, tanti uomini e donne con una fede audace,
ardente, intelligente, capace di disobbedire. Sento la fecondità di
queste presenze ed è con loro che dobbiamo camminare
Bellavite: Ha ragione don Barbero nel sottolineare la necessità di
una distinzione fra la situazione italiana e quella del resto del
mondo. Come rappresentante italiano del movimento internazionale
We Are Church io ho la possibilità di usufruire di un punto di
vista privilegiato: partecipo spesso a incontri e iniziative negli altri
paesi d’Europa o negli Stati Uniti e ai forum della teologia della liberazione
in America Latina. La situazione all’estero è diversa: c’è
un dibattito molto più libero, molto più vivace. Anche su tutte le
vicende legate alla pedofilia nel clero c’è stata una reazione dell’opinione
pubblica – e del mondo cattolico di base – distante anni
luce dalle censure e dai silenzi che hanno caratterizzato il nostro
paese, compresa tanta parte della stampa cosiddetta laica.
Ma veniamo, più da vicino, alla domanda che ci è stata posta sulle
ragioni della crisi dell’area del «dissenso» in Italia (ma non chia-
miamola più così. Chiamiamola area del «cristianesimo critico»: è
un’espressione più esatta).
Io credo che tale crisi nasca da una trasformazione sociale molto
ampia che non ha riguardato solo il mondo cattolico. Gli anni Sessanta
e Settanta erano ricchi di movimenti politici, di fermenti, di
contrasti. Ora la società italiana è ripiegata su se stessa ed è caratterizzata
da un crescente individualismo.
I cristiani «critici» non vivono fuori dalla realtà storica. Naturalmente
partecipano delle evoluzioni del mondo attorno a loro e
dunque risentono di questo clima assai inaridito dal punto di vista
delle sensibilità etiche e dell’impegno sociale.
C’è poi da registrare un diffuso sentimento di impotenza tra quanti
si battono per il cambiamento all’interno della Chiesa. Io sono
in contatto con tantissime persone che magari condividono pienamente
la nostra sensibilità e le nostre posizioni, ma poi mi dicono:
«Perché perdete tempo a tentare di riformare la Chiesa? È inutile,
non c’è alcuna possibilità». La conseguenza è che anche chi vive
con sofferenza molti atteggiamenti della gerarchia decide di «rientrare
nei ranghi»: partecipa alla vita parrocchiale facendosi il suo
gruppetto e si rassegna a ignorare quel che succede sopra di lui.
Oppure abbandona del tutto la frequentazione della parrocchia e
pratica una sorta di «cristianesimo individuale», che talvolta scivola
addirittura in una completa indifferenza verso tematiche che lo
avevano appassionato per anni.
Un terzo aspetto della crisi, una delle sue ragioni di fondo all’interno
del contesto che ho appena descritto, è la censura. La stampa
cattolica ufficiale ha una tecnica di selezione delle notizie rigorosissima.
Io leggo tutti i giorni Avvenire, il quotidiano dei vescovi
italiani. Non c’è mai una sola riga – una riga soltanto! – delle numerose
iniziative organizzate dalle realtà del cattolicesimo di base.
In compenso ci sono pagine e pagine di notizie noiosissime e inutili
su ciò che è promosso dalle organizzazioni «ufficiali» controllate
direttamente dalla Cei. Anche Famiglia Cristiana, pur essendo
più vivace come impostazione, non dà alcuno spazio alle realtà di
base. Jesus è un po’ diverso, è più interessante, più informato.
C’è infine l’elemento della frammentazione. Esistono tanti gruppi
di «cristiani critici» ma non sono coordinati fra loro. Spesso nemmeno
si conoscono gli uni con gli altri anche nella stessa diocesi.
È molto incoraggiante il fatto che lo scorso 15 settembre a Roma si
sia autoconvocata – in occasione dei cinquant’anni dell’inizio del
Concilio Vaticano II – una grande assemblea di queste realtà per
cominciare a delineare una qualche forma di percorso comune. È
un primo passo, speriamo ne vengano altri. Abbiamo estrema necessità
di un maggiore coordinamento e di una maggiore unità,
naturalmente pluralista.
don Farinella: Anche a me risulta, per esperienza diretta o tramite
i miei contatti, una grande differenza fra la situazione dell’Italia e
quella del resto del mondo.
La ragione è semplice: in Italia c’è il Vaticano che considera l’Italia
un proprio prolungamento. Per questo, tempo fa, ho lanciato la
provocatoria proposta di sciogliere il parlamento italiano e di annettere
direttamente la penisola al Vaticano (sul ricalco della filosofia
di Gioberti): almeno sapremmo di che morte moriremo e per
mano di chi. Si farebbe chiarezza una volta per tutte, sgombrando
il campo da tanta ipocrisia.
Se esaminiamo la stessa «produzione teorica» del Vaticano, sappiamo
che i documenti, le encicliche, i discorsi del papa hanno come
orizzonte l’Italia perché sono tutti pensati e scritti «guardando all’Italia
e dall’Italia». Il clericalismo considera l’Italia come una sorta
di «ultima trincea» del potere temporale del papa che è ancora in
atto.
Non a caso fuori dal nostro paese i documenti papali passano sulle
teste delle persone senza che quasi se ne accorgano. Amici all’estero,
preti e non preti, mi dicono: «Sì, riceviamo qualche eco di queste
cose. Noi abbiamo la nostra coscienza, facciamo le nostre scelte
in base alle linee pastorali delle nostre Chiese locali. Il dibattito che
si svolge a Roma e i documenti del papa non ci influenzano più di
tanto: molto spesso arrivano anche tardi, quando non servono più».
Concludendo, credo che rispetto all’Italia e all’ingombrante presenza
del «sistema Vaticano» non possiamo che rilanciare l’obiettivo
del superamento del Concordato che è il vero peccato originale
della Chiesa italiana (e del Vaticano) che impedisce qualsiasi rinnovamento
perché esso è in funzione dell’esercizio del potere attraverso
privilegi e contropartite.
don Di Piazza: Voglio chiudere anch’io insistendo sull’orizzonte
delle proposte dopo che ci siamo soffermati a lungo su quello della
critica.
Dobbiamo ritornare ad annunciare la Parola di Dio come una parola
profetica, sempre immersa nella storia, o meglio nelle molteplici
storie delle persone in carne e ossa che incrociano il nostro
cammino. Perché ciò sia possibile è necessario che la Chiesa si liberi
dall’abbraccio mortale con il potere politico, economico e militare:
quando la Chiesa diventa una «Chiesa del potere» non è più,
di fatto, Chiesa.
Cosa significa concretamente tale attestazione di principio? Molte
cose. Farò solo due esempi. Primo: nella nostra società, una società
sempre più multietnica, multiculturale e multireligiosa, è ormai
inaccettabile l’ora di religione cattolica nelle scuole così come è
concepita oggi. Ci dovrebbe essere un’ora di studio delle diverse religioni
e di dialogo fra gli alunni. Secondo: i cappellani militari. Sono
figure del tutto incompatibili con l’annuncio di pace che è l’essenza
stessa del Vangelo, perché strutturalmente parte dell’esercito;
eventualmente dovrebbero essere volontari, non parte dell’esercito,
restando comunque aperta con la loro presenza la questione del
rapporto tra armi e Vangelo che pare davvero inconciliabile.
Quando noi invochiamo maggiore democrazia nella vita della
Chiesa ci viene risposto che la Chiesa è comunione. Va bene: ma la
comunione dovrebbe essere qualcosa di più della democrazia. Dovrebbe
andare oltre la democrazia, ma non certo coprire la sua assenza
in questo modo offendendo e disprezzando sia la democrazia
che la comunione.
Credo che la democrazia sia la base, la condizione necessaria, per
quanto non sufficiente, della comunione.
Io sogno una Chiesa che si libera di ogni orpello, di ogni onorificenza,
di ogni inutile solennità, e torni a camminare povera fra i
poveri. Una Chiesa libera per poter denunciare, annunciare, scegliere
con fedeltà e coerenza con il Vangelo.
La sua presenza nel mondo non può essere affidata alla semplice
rivendicazione di «princìpi non negoziabili». Come si può dichiarare
preventivamente la propria indisponibilità al dialogo quando
si affrontano temi come la famiglia, la sessualità nei suoi diversi
aspetti, l’aborto, il fine vita? O come si può continuare a negare la
riconsiderazione del celibato obbligatorio e rifiutare l’apertura a
ministeri diversi, alla presenza di preti celibi e di preti sposati e di
donne prete?
Sogno una Chiesa che superi definitivamente, una volta per tutte,
l’insopportabile maschilismo da cui è ancora affetta. Le donne devono
essere protagoniste con il pensiero, le decisioni, le azioni,
dentro la vita della Chiesa. Anche perché non è pensabile che una
Chiesa di soli uomini, come quella attuale, possa essere all’altezza
delle sfide che l’attendono nel futuro e del dialogo sempre più
ravvicinato con il mondo e la società al quale è chiamata.
don Barbero: Nella Gaudium et spes si legge che la Chiesa «non pone
la sua speranza nei privilegi offertigli dall’autorità civile. Anzi,
essa rinunzierà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti,
ove constatasse che il loro uso può far dubitare della sincerità
della sua testimonianza». Come siamo lontani dai vostri insegnamenti,
cari padri conciliari! Altro che rinunciare, il Vaticano continua
a cercare sempre nuovi privilegi.
La gerarchia non ha capito che tutti questi uomini e queste donne,
questi teologi e teologhe, questi testimoni di un altro modo di vivere
l’impegno nelle realtà ecclesiastiche sono mossi da un amore
profondo per la Chiesa. Noi non critichiamo la Chiesa per rabbia,
la critichiamo per amore. Come fate a non capire, cari vescovi, che
noi siamo mossi da amore per questo nostro mondo, per il Vangelo
e per la Chiesa? Se non amassimo la Chiesa, non ci interesseremmo
certo di queste cose. E non protesteremmo. Semplicemente,
ce ne andremmo altrove. Invece restiamo. Con speranza, con fiducia,
con serenità.
Bellavite: Non posso che condividere queste ultime parole di don
Barbero sul nostro approccio e la nostra sensibilità.
Aggiungo tre punti sui quali ritengo che l’area del cattolicesimo
conciliare potrebbe impegnarsi di più.
Primo: la povertà della Chiesa. E con questo alludo a battaglie
molto concrete, come la messa in discussione dell’attuale gestione
del patrimonio ecclesiastico, dell’8 per mille, dei bilanci delle diocesi,
del sistema di sostentamento del clero. Dobbiamo pretendere
trasparenza. Dobbiamo chiedere di sapere, di controllare e, sopratutto,
di cambiare, dobbiamo pretendere più sobrietà come primo
passo per una Chiesa povera.
Secondo: la nomina dei vescovi. È mai possibile che queste decisioni
piovano sulla testa dei fedeli senza che nessuno dica nulla?
Senza che, per esempio, ci siano gruppi organizzati all’interno di
una diocesi che intervengano dicendo: «Questo nome non ci pare
degno per l’incarico», oppure «non ci pare adatto per la nostra realtà
». È così impensabile pensare a un ruolo attivo dei laici anche
per suggerire, in positivo, una nomina o, almeno, dei criteri rigidi?
Per esempio dicendo: «Vorremmo questo tale pastore per continuare
a portare avanti insieme a lui questo percorso».
Terzo punto: la pedofilia nel clero. A fine maggio i vescovi italiani
si sono riuniti e hanno affrontato la questione tra di loro in gruppi
ristretti. Ne è uscito un documento vergognoso, che Noi Siamo
Chiesa ha denunciato con estrema chiarezza. È ora che anche in
Italia, come è successo in tutti gli altri paesi, la Chiesa si metta finalmente
dalla parte delle vittime e la smetta di tutelare e coprire
il clero pedofilo. Dobbiamo alzare la voce con forza.
(a cura di Emilio Carnevali)
Lascia un commento