“Giusto il tema, sbagliata la soluzione”
di Paolo Naso
in “NEV” – Notizie Evangeliche” del 10 agosto 2017
“”Un’altra fibrillazione nel governo e un altro dibattito infinito – spesso tra sordi – sulle migrazioni mediterranee e sulle politiche di “search and rescue” (SAR) adottate dalla Giardia Costiera e dalle ONG.
I fatti sono sostanzialmente due. Innanzitutto la politica del ministro Minniti, sostenuto dal premier e dallo stesso Presidente della Repubblica, che da tempo ritiene che i flussi migratori debbano essere fermati “a monte”, e cioè nel luogo in cui i migranti si concentrano e incontrano gli “scafisti”, insomma in Libia. Da qui la sua “intesa” con il governo Serraj, che però esercita il suo potere solo su alcune regioni del paese nordafricano – sostanzialmente la Tripolitania – mentre altre come la vasta Cirenaica restano sotto il controllo del suo avversario, il generale Haftar, dell’Isis o di tribù e clan che da sempre si contendono il controllo delle zone petrolifere. Il piano Minniti prevede un asse diretto con il presidente Serraj che, in cambio di aiuti economici e tecnici e della fornitura di mezzi di soccorso italiani, si impegna a contrastare il traffico illegale di migranti.
In questa strada, già battuta ai tempi di Gheddafi, non c’è nulla di nuovo: sostenere un regime a patto che blocchi i flussi migratori. Questa strategia nasce da una intenzione, magari secondaria e indiretta, che tuttavia va riconosciuta e apprezzata: il traffico di migranti, che sempre più spesso coinvolge anche donne e bambini, è un crimine contro l’umanità che deve essere combattuto con fermezza.
Gli operatori di Mediterranean Hope (MH), programma rifugiati e migranti della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI), che incontrano i migranti partiti con i gommoni degli scafisti, ci raccontano quotidianamente di violenze e torture per spremere da uomini, donne e bambini inermi l’ultimo dollaro di cui dispongono. E quando non hanno più niente se non il fiato per supplicare un po’ di pietà, i trafficanti ricattano i loro parenti.
I trafficanti di oggi non sono dei romantici passeur che arrotondano i loro guadagni con un’attività illegale ma una struttura economico criminale che usa i migranti come una merce; sono schiavisti come quelli che nei secoli scorsi battevano le rotte dall’Africa occidentale verso il nuovo mondo americano, con l’aggravante che i loro guadagni vanno ad alimentare traffici oscuri e criminali.
Ma per combattere questo mostro non si possono consegnare i migranti al suo gemello, e cioè a una terra senza legge in cui neanche il capo di un contestato governo territoriale come Serraj è in grado di garantire il minimo rispetto di elementari diritti umani per i profughi “respinti” e restituiti a chi li ha derubati, violentati e torturati per mesi. In questo ha perfettamente ragione il viceministro degli Esteri, Mario Giro, quando afferma che “fare rientrare quelle persone vuol dire condannarle all’inferno”.
E i corridoi umanitari – realizzati dalle chiese evangeliche insieme alla Comunità di Sant’Egidio nel quadro di un protocollo firmato dai ministeri dell’Interno e degli Esteri – hanno rappresentato un’alternativa legale e umanitaria all’inferno libico. Sia pure senza enfasi né orgoglio, bisogna però riconoscere che essi indicano una strada assai più concreta di tanti proclami al contrasto dello human trafficking
. Una strada che l’Italia potrebbe potenziare e l’Europa finalmente adottare con quote ragionevoli e sostenibili divise per paese. Con questo obiettivo abbiamo lavorato in questi anni e su questo programma torneremo in occasione di un convegno internazionale che la Federazione delle chiese evangeliche sta organizzando a Palermo dal 30 settembre al 3 ottobre. Così i protestanti italiani ricorderanno le 368 vittime della strage del 2013, e lo faranno insieme a rappresentanti della Chiesa cattolica e delle chiese protestanti degli USA, della Germania, della Francia e di una decina di altri paesi europei che hanno già annunciato la loro presenza.
La polemica contro le ONG si consuma in questo scenario. Se qualcuno di questo mondo che è espressione di una società civile che non si accontenta dei dibattiti impegnati, ha avuto un qualche rapporto con i trafficanti è giusto che venga isolato e giudicato, anche con severità: non si può collaborare con chi programma lo sfruttamento brutale di centinaia di milioni di persone ogni anno, ricorrendo a violenze, stupri e ricatti.
Ma la realtà complessiva delle ONG è un’altra cosa e il semplice dato dei salvataggi in mare, per altro sempre coordinati dalla Guardia costiera, racconta una storia del tutto diversa da quella contrabbandata in questi giorni: secondo fonti della Guardia Costiera nel 2016 le ONG hanno recuperato complessivamente 46.796 migranti, più del doppio di quanti ne avevano soccorsi l’anno precedente (20.063). E nei primi 4 mesi del 2017 hanno salvato 12.646 persone, il 35% del totale.
Oscurare questo dato è politicamente strumentale ma soprattutto moralmente ingiusto. Il problema non sono le ONG né la loro prossimità alle acque territoriali libiche: la tragedia di oggi è la forza dei “push factors” che spingono centinaia di migliaia di persone a rischiare la vita pur di sfuggire alla disperazione della guerra, delle violenze e della fame.
E’ giusto porsi il problema di fermare o ridurre i flussi migratori “a monte” ma la strada non può essere quella di chi oggi vuole respingere i migranti in Libia e magari domani vorrà creare un muro lungo la riva sud del Mediterraneo. Un’enorme area geografica che va dalla Siria alla Guinea ha bisogno di stabilizzazione politica e di aiuti economici per la ricostruzione o lo sviluppo. Ed è questo che l’Europa potrà e dovrà fare con quel famoso “piano Marshall per l’Africa” di cui si parla da troppo tempo in sede UE, senza che però nulla accada. “Aiutiamoli anche a casa loro”, certo, ha un senso. Ma alla scorciatoia facilona e irrealistica invocata da qualcuno, dobbiamo aggiungere un “anche” essenziale e irrinunciabile, perché le migrazioni globali non si fermano con la facilità con cui si rilascia una dichiarazione ai giornali. Ma soprattutto mettiamoci in testa che “aiutarli anche a casa loro” non può significare scaricare il barile sulla sponda sud del Mediterraneo ma, al contrario, implica nuovi, onerosi impegni.””
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