Il manifesto domenica 26 marzo 2017
A 50 anni dalla Populorum progressio
di Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it
Sembrano passati secoli, eppure sono passati solo cinquant’anni dal 1967, quando è stata pubblicata l’enciclica “Populorum progressio”, scritta da Paolo VI. Tempestosi e ricchi di speranze quegli anni sessanta del Novecento; si erano da poco conclusi i lavori del Concilio Vaticano II che aveva aperto al mondo le porte della chiesa cattolica; era ancora vivo il ricordo della crisi dei missili a Cuba, quando il confronto fra Stati Uniti e Unione Sovietica con le loro bombe termonucleari, aveva fatto sentire il mondo sull’orlo di una catastrofe; i paesi coloniali stavano lentamente e faticosamente procedendo sulla via dell’indipendenza, sempre sotto l’ombra delle multinazionali straniere attente a non mollare i loro privilegi di sfruttamento delle preziose materie prime; la miseria della crescente popolazione dei paesi del terzo mondo chiedeva giustizia davanti alla sfacciata opulenza consumistica dei paesi capitalistici del primo mondo; nel primo mondo studenti e operai chiedevano leggi per un ambiente migliore, per salari più equi, per il divieto degli esperimenti nucleari.
In questa atmosfera il malinconico Paolo VI aveva alzata la voce parlando di nuove strade per lo sviluppo. “Progressio”, ben diverso dalla crescita delle merci e del denaro, la divinità delle economie capitalistiche.
L’enciclica sullo sviluppo dei popoli diceva bene che “il fine ultimo e fondamentale dello sviluppo non consiste nel solo aumento dei beni prodotti né nella sola ricerca del profitto e del predominio economico; non basta promuovere la tecnica perché la Terra diventi più umana da abitare; economia e tecnica non hanno senso che in rapporto all’uomo che esse devono servire”.
La “Populorum progressio” metteva in discussione lo stesso diritto umano al “possesso” dei campi, dei minerali, dell’acqua, degli alberi, degli animali, che non sono di una singola persona o di un singolo paese, ma “di Dio”, beni comuni come ripete papa Francesco nella sua enciclica “Laudato si’” e continuamente.
L’enciclica “Populorum progressio” indica diritti e doveri dei popoli della Terra divisi nelle due grandi “classi” dei ricchi e dei poveri, ben riconoscibili anche oggi: i ricchi, talvolta sfacciatamente ricchi, dei paesi industriali ma anche quelli che, nei paesi poveri, accumulano grandi ricchezze alle spese dei loro concittadini; i poveri che affollano i paesi arretrati, ma anche quelli, spesso invisibili, che affollano le strade delle dei paesi opulenti, all’ombra degli svettanti grattacieli e delle botteghe sfavillanti.
La “Populorum progressio” fu letta poco volentieri quando fu pubblicata e da allora è stata quasi dimenticata benché le sue analisi dei grandi problemi mondiali siano rimaste attualissime.
I popoli a cui l’enciclica si rivolge sono, allora come oggi, quelli che lottano per liberarsi dal giogo della fame, della miseria, delle malattie endemiche, dell’ignoranza; che cercano una partecipazione più larga ai frutti della civiltà, una più attiva valorizzazione delle loro qualità umane; che si muovono con decisione “verso la meta di un pieno rigoglio”.
L’enciclica denuncia il malaugurato (dice proprio così) sistema che considera il profitto come motore essenziale del progresso economico, la concorrenza come legge suprema dell’economia, la proprietà privata dei mezzi di produzione come un diritto assoluto, senza limiti né obblighi sociali corrispondenti. E condanna l’abuso di un liberalismo che si manifesta come “imperialismo internazionale del denaro”.
In quegli anni sessanta era vivace il dibattito sulla “esplosione” della popolazione, in rapida crescita specialmente nei paesi poveri, e la domanda di un controllo della popolazione, resa possibile dall’invenzione “della pillola”, aveva posto i cattolici di fronte a contraddizioni. Paolo VI ricorda che spetta ai genitori di decidere, con piena cognizione di causa, sul numero dei loro figli, prendendo le loro “responsabilità davanti a Dio, davanti a se stessi, davanti ai figli che già hanno messo al mondo, e davanti alla comunità alla quale appartengono”. Il tema della “paternità responsabile” sarebbe stato ripreso nel 1968 dallo stesso Paolo VI nella controversa enciclica “Humanae vitae” e, più recentemente, da papa Francesco che ha detto che per essere buoni cattolici non è necessario essere come conigli.
Il progresso dei popoli è ostacolato anche dallo “scandalo intollerabile di ogni estenuante corsa agli armamenti”, una corsa che si è aggravata in tutto il mezzo secolo successivo con la diffusione di costosissime e sempre più devastanti armi nucleari, oggi nelle mani di ben nove paesi, oltre che di armi convenzionali.
In mezzo secolo è cambiata la geografia politica; un mondo capitalistico egoista e invecchiato deve fare i conti con vivaci e affollati paesi emergenti, pieni di contraddizioni, e con una folla di poverissimi.
I poveri di cui l’enciclica auspicava il progresso, nel frattempo cresciuti di numero, sono quelli che oggi si affacciano alle porte dell’Europa per sfuggire a miseria, guerre fratricide, oppressione imperialista, per sfuggire alla sete e alle alluvioni, alla fame e all’ignoranza, quelli che i paesi cristiani non esitano a rispedire in campi di concentramento africani pur di non incrinare il loro benessere, magari dopo avere strizzato la vita e salute degli immigrati nei nostri campi. I pontefici dicano pure quello che vogliono; le cose serie sono i propri interessi e commerci.
Eppure è fra i poveri disperati e arrabbiati che trova facile ascolto l’invito alla violenza e al terrorismo; noi crediamo che la sicurezza dei nostri negozi e affari si difenda con altre truppe super-armate, con sistemi elettronici che si rivelano fragili e violabili, e invece l’unica ricetta, anche se scomoda, per rendere la terra meno violenta e più “adatta da abitare”, sarebbe la giustizia.
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