A Milano come sacerdote
28 marzo 2017 (dal sito www.chiesadituttichiesadeipoveri.it )
Il papa ha incontrato i milanesi uno per uno, e poi un milione e poi ottantamila ragazzi. Sulla condizione di minoranza, i ministeri, la pedagogia e l’inclusione discorsi avanzati e nuovi.
(la redazione)
Alla vigilia del viaggio di papa Francesco a Milano un giornale rimpiangeva che un arcivescovo della città come il cardinale Martini non fosse diventato papa. Ed ecco che dopo la straordinaria immagine di sé e della Chiesa offerta dal pontefice nella sua visita alla diocesi lombarda, molti hanno sognato che un pastore simile lui possa essere il futuro arcivescovo ambrosiano.
La giornata di papa Francesco a Milano, rallegrata da un magnifico sole imprevisto, è stata come il compendio del migliore Bergoglio. Ma essa ha pure offerto dei motivi inediti o inattesi che è compito del cronista segnalare perché siano più largamente conosciuti;e qui vogliamo citarne alcuni particolarmente eloquenti nelle parole del papa, che hanno a che fare con cinque questioni di grande portata: la “minorità” o condizione di minoranza nella Chiesa, i ministeri, la pedagogia, la trasmissione della fede e l’inclusione.
In minoranza ma non rassegnati
1- Quanto alla “minorità” Francesco ha detto nel suo colloquio con le monache, i religiosi ed i preti in Duomo, che gli era molto piaciuto che Madre Paola, la suora orsolina che l’aveva interrogato, avesse usato questa parola per porre la questione di istituzioni (e la cosa riguarda la stessa Chiesa) che vedono sempre più ridursi le forze, diminuire il numero dei loro membri e invecchiare quelli che ci sono. E la risposta è stata che una cosa è riconoscersi come “minori” (addirittura è un carisma nella Chiesa, e non solo dei francescani), l’essere o il sapersi minoranza, e un’altra cosa è è la rassegnazione; non c’è nessuna relazione tra debolezza e rinuncia, mancare di forze e rassegnarsi all’esistente. Quali che siano i numeri, le potenzialità, il potere, i remi non si tirano in barca, la vita continua (“vivere, non sopravvivere!”) e la missione non è abbandonata. E una Chiesa povera e di poveri non vuole dire affatto una Chiesa mortificata e abbattuta, e il non cercare la moltitudine non significa affatto essere in pochi; significa essere lievito: “Io non ho mai visto un pizzaiolo che per fare la pizza prenda mezzo chilo di lievito e 100 grammi di farina – ha detto il papa – no. E’ al contrario. Il lievito, poco, per far crescere la farina”.
La giornata milanese ne è stata una straordinaria prova: perché è cominciata nella visita solitaria a tre famiglie di periferia, intrise del dolore di anziani, malati e stranieri, e dopo l’incontro con un milione di persone a Monza è finita in un’apoteosi di gioia e nella dimostrazione di salute e di forza di ottantamila ragazzi pronti alla cresima, cioè pronti a un impegno responsabile di vita cristiana, tanti che c’è voluto l’intero stadio di San Siro per contenerli. Dunque, come ha detto il papa in Duomo, “pochi sì, in minoranza sì, anziani sì, rassegnati no!”.
Non ci sono mezzi ministeri
2- Riguardo ai ministeri, il papa ha detto due cose preziose. La prima l’ha detta a proposito di se stesso come sacerdote, nel primo incontro con la gente della periferia alle “Case Bianche” (“io entro a Milano come sacerdote”). Ed è che il sacerdote cristiano “è scelto dal popolo e al servizio del popolo”. E poiché i primi ad accoglierlo gli avevano regalato una stola, Francesco vi ha visto un segno: “Il sacerdozio è dono di Cristo, ma tessuto da voi, dalla vostra gente, con la sua fede, le sue fatiche, le sue preghiere, le sue lacrime…”
La seconda cosa il papa l’ha detta in Duomo a proposito del diaconato in risposta a un diacono permanente, Roberto Crespo. E la cosa è che il diacono non è un mezzo prete, e non è un mezzo laico; ogni ministero ha la sua identità e la sua compiutezza in se stesso, non si definisce per eccesso o per difetto rispetto agli altri: così è tra sacerdoti e laici, così è tra diaconi e sacerdoti, così è tra monaci e preti. Altrimenti si cade tutti nel clericalismo. “Il diaconato – ha detto il papa – è una vocazione specifica, una vocazione familiare che richiama il servizio. A me piace tanto quando [negli Atti degli Apostoli] i primi cristiani ellenisti sono andati dagli apostoli a lamentarsi perché le loro vedove e i loro orfani non erano ben assistiti, e hanno fatto quella riunione, quel “sinodo” tra gli apostoli e i discepoli, e hanno inventato i diaconi per servire. E questo è molto interessante anche per noi vescovi, perché quelli erano tutti vescovi, quelli che hanno fatto i diaconi. E che cosa ci dice? Che i diaconi siano i servitori. Poi hanno capito che, in quel caso, era per assistere le vedove e gli orfani; ma servire:…. il servizio. Questa parola è la chiave per capire il vostro carisma. Il servizio come uno dei doni caratteristici del popolo di Dio. Il diacono è – per così dire – il custode del servizio nella Chiesa. Ogni parola deve essere ben misurata. Voi siete i custodi del servizio nella Chiesa: il servizio alla Parola, il servizio all’Altare, il servizio ai Poveri. E la vostra missione, la missione del diacono, e il suo contributo consistono in questo: nel ricordare a tutti noi che la fede, nelle sue diverse espressioni – la liturgia comunitaria, la preghiera personale, le diverse forme di carità – e nei suoi vari stati di vita – laicale, clericale, familiare – possiede un’essenziale dimensione di servizio. Il servizio a Dio e ai fratelli. E quanta strada c’è da fare in questo senso! Voi siete i custodi del servizio nella Chiesa”.
Ed ha aggiunto: “In ciò consiste il valore dei carismi nella Chiesa, che sono una ricordo e un dono per aiutare tutto il popolo di Dio a non perdere la prospettiva e le ricchezze dell’agire di Dio. Voi non siete mezzi preti e mezzi laici – questo sarebbe “funzionalizzare” il diaconato –, siete sacramento del servizio a Dio e ai fratelli. E da questa parola “servizio” deriva tutto lo sviluppo del vostro lavoro, della vostra vocazione, del vostro essere nella Chiesa. Una vocazione che come tutte le vocazioni non è solamente individuale, ma vissuta all’interno della famiglia e con la famiglia; all’interno del Popolo di Dio e con il Popolo di Dio”.
Ma se questo è il diaconato, se è una vocazione familiare, e se il ministero è quello del servizio – servizio alla Parola, all’Altare, alla Mensa, ai Poveri – è chiaro che ciò non può riguardare solo gli uomini, solo la metà dei membri della Chiesa, non può che riguardare anche le donne. Quindi la Commissione a suo tempo annunciata dal papa per studiare la questione del diaconato femminile, non può che concludersi con l’indicazione di un diaconato permanente femminile nella Chiesa, come ministero ordinato.
Come educare
3- Quanto alla pedagogia, l’incontro del papa con i ragazzi e le ragazze nello stadio di San Siro è stata una lezione di grande, moderna pedagogia. Non si formano i giovani con la repressione, che li mortifica in ciò che hanno di spontaneo e di gioioso e li costringe a ciò cui sono riluttanti; non li si forma con i castighi che sono specchio dell’insipiente mentalità degli adulti e lasciano i giovani in una condizione peggiore di prima.
“Ricordo che una volta in una scuola – ha raccontato il papa – c’era un alunno che era un fenomeno a giocare a calcio e un disastro nella condotta in classe. Una regola che gli avevano detto che se non si comportava bene doveva lasciare il calcio, che gli piaceva tanto! Dato che continuò a comportarsi male rimase due mesi senza giocare, e questo peggiorò le cose. Stare attenti quando si punisce: quel ragazzo peggiorò. E’ vero, l’ho conosciuto, questo ragazzo. Un giorno l’allenatore parlò con la direttrice, e spiegò: ‘La cosa non va! Lasciami provare’, disse alla direttrice, e le chiese che il ragazzo potesse riprendere a giocare. ‘Proviamo’, disse la signora. E l’allenatore lo mise come capitano della squadra. Allora quel bambino, quel ragazzo si sentì considerato, sentì che poteva dare il meglio di sé e cominciò non solo a comportarsi meglio, ma a migliorare tutto il rendimento. Questo mi sembra molto importante nell’educazione. Molto importante. Tra i nostri studenti ce ne sono alcuni che sono portati per lo sport e non tanto per le scienze e altri riescono meglio nell’arte piuttosto che nella matematica e altri nella filosofia più che nello sport. Un buon maestro, educatore o allenatore sa stimolare le buone qualità dei suoi allievi e non trascurare le altre”.
E nemmeno si formano i giovani dimenticando il valore del gioco, cioè la dimensione gratuita della vita, ma del giocare insieme, del gioco collettivo o di squadra come educazione a stare e interagire con gli altri: “E sempre va bene stimolarli, ma i bambini hanno anche bisogno di divertirsi e di dormire. Educare soltanto, senza lo spazio della gratuità non va bene”. E a proposito del modo in cui lui stesso si era formato, aveva detto poco prima: “ mi ha aiutato tanto giocare con gli amici, perché giocare bene, giocare e sentire la gioia del gioco con gli amici, senza insultarci, e pensare che così giocava Gesù… Ma, vi domando, Gesù giocava? O no?” E alla risposta dei ragazzi aveva aggiunto: “Sì, Gesù giocava, e giocava con gli altri. E a noi fa bene giocare con gli amici, perché quando il gioco è pulito, si impara a rispettare gli altri, si impara a fare la squadra, in équipe, a lavorare tutti insieme. E questo ci unisce a Gesù. Giocare con gli amici…. E se uno litiga, perché è normale litigare, ma poi chieda scusa, e finita è la storia. E’ chiaro?”
E se è bene giocare, toni di particolare severità – severità anche di un volto solitamente gioviale – il papa ha assunto quando ha cercato di inculcare nei ragazzi non solo il rifiuto del bullismo – prendere in giro per un difetto, fare beffa, picchiare – ma l’impegno a non permettere mai che si faccia nel proprio collegio, nella propria scuola, nel proprio quartiere. E dopo esserselo fatto promettere come impegno col papa, se lo è fatto promettere come impegno con Gesù. E quanto questo appello fosse opportuno, si è visto solo tre giorni dopo con l’atroce spettacolo del delitto del bullismo ad Alatri.
I bambini ci guardano
4- Ma naturalmente per il papa l’oggetto pedagogico più importante è la trasmissione della fede. Qui egli ha voluto dire con molta determinazione che la fede si trasmette da persona a persona, invitando gli educatori stessi a ricordare da chi sono stati aiutati nel loro cammino di fede. E se tutto dipende dal rapporto tra persone, le persone devono avere somma cura dell’immagine che trasmettono di sé: “I nostri figli ci guardano continuamente; anche se non ce ne rendiamo conto, loro ci osservano tutto il tempo e intanto apprendono. «I bambini ci guardano»: questo è il titolo di un film di Vittorio De Sica del ’43. Cercatelo. Cercatelo. Quei film italiani del dopoguerra sono stati una vera “catechesi” di umanità. I bambini ci guardano, e voi non immaginate l’angoscia che sente un bambino quando i genitori litigano. Soffrono! E quando i genitori si separano, il conto lo pagano loro. Quando si porta un figlio al mondo, dovete avere coscienza di questo: noi prendiamo la responsabilità di far crescere nella fede questo bambino… I bambini conoscono le nostre gioie, le nostre tristezze e preoccupazioni. Riescono a captare tutto, si accorgono di tutto e, dato che sono molto, molto intuitivi, ricavano le loro conclusioni e i loro insegnamenti. Sanno quando facciamo loro delle trappole e quando no. Lo sanno. Sono furbissimi. Perciò, una delle prime cose che vi direi è: abbiate cura di loro, abbiate cura del loro cuore, della loro gioia, della loro speranza.
“Gli “occhietti” dei vostri figli via via memorizzano e leggono con il cuore come la fede è una delle migliori eredità che avete ricevuto dai vostri genitori e dai vostri avi. Se ne accorgono. E se voi date la fede e la vivete bene, c’è la trasmissione”.
E qui il papa che, come si sa, ama i neologismi, ha introdotto una nuova parola che non è nuova per gli spagnoli ma è nuova per noi: “dominguear”. “In diverse parti, molte famiglie hanno una tradizione molto bella ed è andare insieme a Messa e dopo vanno a un parco, portano i figli a giocare insieme. Così che la fede diventa un’esigenza della famiglia con altre famiglie, con gli amici, famiglie amiche… Questo è bello e aiuta a vivere il comandamento di santificare le feste. Non solo andare in chiesa a pregare o a dormire durante l’omelia – succede! -, non solo, ma poi andare a giocare insieme. Adesso che cominciano le belle giornate, ad esempio, la domenica dopo essere andati a Messa in famiglia, è una buona cosa se potete andare in un parco o in piazza, a giocare, a stare un po’ insieme. Nella mia terra questo si chiama “dominguear”, “passare la domenica insieme”. Ma il nostro tempo è un tempo un po’ brutto per fare questo, perché tanti genitori, per dare da mangiare alla famiglia, devono lavorare anche nei giorni festivi. E questo è brutto. Io sempre domando ai genitori, quando mi dicono che perdono la pazienza con i figli, prima domando: “Ma quanti sono?” – “Tre, quattro”, mi dicono. E faccio loro una seconda domanda: “Tu, giochi con i tuoi figli?… Giochi?” E non sanno cosa rispondere. I genitori in questi tempi non possono, o hanno perso l’abitudine di giocare con i figli, di “perdere tempo” con i figli. Un papà una volta mi ha detto: “Padre, quando io parto per andare al lavoro, ancora stanno a letto, e quando torno la sera tardi già sono a letto. Li vedo soltanto nei giorni festivi”. E’ brutto! E’ questa vita che ci toglie l’umanità! Ma tenete a mente questo: giocare con i figli, “perdere tempo” con i figli è anche trasmettere la fede. E’ la gratuità, la gratuità di Dio”.
Temere una fede senza sfide
Sono tempi difficili per la fede. E nell’incontro con i preti e i religiosi in Duomo, rispondendo al sacerdote Gabriele Gioia, papa Francesco aveva detto come si debba affrontare questa sfida, senza pensare di aver tutto già in tasca.
“Non dobbiamo temere le sfide. Quante volte si sentono delle lamentele: «Ah, quest’epoca, ci sono tante sfide, e siamo tristi…». No. Non avere timore. Le sfide si devono prendere come il bue, per le corna. Non temere le sfide. Ed è bene che ci siano, le sfide. E’ bene, perché ci fanno crescere. Sono segno di una fede viva, di una comunità viva che cerca il suo Signore e tiene gli occhi e il cuore aperti. Dobbiamo piuttosto temere una fede senza sfide, una fede che si ritiene completa, tutta completa: non ho bisogno di altre cose, tutto fatto. Questa fede è tanto annacquata che non serve. Questo dobbiamo temere. E si ritiene completa come se tutto fosse stato detto e realizzato. Le sfide ci aiutano a far sì che la nostra fede non diventi ideologica. Ci sono i pericoli delle ideologie, sempre. Le ideologie crescono, germogliano e crescono quando uno crede di avere la fede completa, e diventa ideologia. Le sfide ci salvano da un pensiero chiuso e definito e ci aprono a una comprensione più ampia del dato rivelato. Come ha affermato la Costituzione dogmatica Dei Verbum: «La Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio» (8b). E in ciò le sfide ci aiutano ad aprirci al mistero rivelato”.
Abbracciare i confini
5- Quanto all’inclusione, il papa ne ha parlato nell’omelia della Messa. L’inclusione suppone saper guardare il dolore che ci sta intorno, in tempi “pieni di speculazione”. Ma soprattutto è motivata non da ragioni contingenti, ma dalla consapevolezza di appartenere all’unico popolo di Dio: “Ci fa bene ricordare che siamo membri del Popolo di Dio! Milanesi, sì, ambrosiani, certo, ma parte del grande Popolo di Dio. Un popolo formato da mille volti, storie e provenienze, un popolo multiculturale e multietnico. Questa è una delle nostre ricchezze. E’ un popolo chiamato a ospitare le differenze, a integrarle con rispetto e creatività e a celebrare la novità che proviene dagli altri; è un popolo che non ha paura di abbracciare i confini, le frontiere; è un popolo che non ha paura di dare accoglienza a chi ne ha bisogno perché sa che lì è presente il suo Signore”. Ed è chiaro, in questa visione larga del papa, che il popolo di Dio non è quello dei cattolici e nemmeno dei credenti in Dio, ma è l’umanità tutta intera.
Che cosa c’è dagli Urali all’Atlantico
Del resto che cosa significa l’inclusione papa Francesco l’aveva detto la sera prima ai dignitari europei venuti a Roma a celebrare i 60 anni dalla fondazione dell’unità europea, dall’investimento che si era fatto su speranze poi in gran parte svanite, che ora vanno risuscitate
“L’Europa – aveva detto il papa – ritrova speranza nella solidarietà, che è anche il più efficace antidoto ai moderni populismi. La solidarietà comporta la consapevolezza di essere parte di un solo corpo e nello stesso tempo implica la capacità che ciascun membro ha di «simpatizzare»con l’altro e con il tutto … La solidarietà non è un buon proposito: è caratterizzata da fatti e gesti concreti, che avvicinano al prossimo, in qualunque condizione si trovi. Al contrario, i populismi fioriscono proprio dall’egoismo, che chiude in un cerchio ristretto e soffocante e che non consente di superare la limitatezza dei propri pensieri e «guardare oltre». Occorre ricominciare a pensare in modo europeo, per scongiurare il pericolo opposto di una grigia uniformità, ovvero il trionfo dei particolarismi. Alla politica spetta tale leadership ideale, che eviti di far leva sulle emozioni per guadagnare consenso, ma piuttosto elabori, in uno spirito di solidarietà e sussidiarietà, politiche che facciano crescere tutta quanta l’Unione in uno sviluppo armonico, così che chi riesce a correre più in fretta possa tendere la mano a chi va più piano e chi fa più fatica sia teso a raggiungere chi è in testa.
“L’Europa ritrova speranza quando non si chiude nella paura di false sicurezze. Al contrario, la sua storia è fortemente determinata dall’incontro con altri popoli e culture e la sua identità – ha detto il papa riprendendo la tesi avanzata quando aveva ricevuto il premio Carlo Magno – «è, ed è sempre stata, un’identità dinamica e multiculturale»… L’apertura al mondo implica la capacità di «dialogo come forma di incontro» (Evangelii Gaudium, 239) a tutti i livelli, a cominciare da quello fra gli Stati membri e fra le Istituzioni e i cittadini, fino a quello con i numerosi immigrati che approdano sulle coste dell’Unione. Non ci si può limitare a gestire la grave crisi migratoria di questi anni come fosse solo un problema numerico, economico o di sicurezza. La questione migratoria pone una domanda più profonda, che è anzitutto culturale. Quale cultura propone l’Europa oggi? La paura che spesso si avverte trova, infatti, nella perdita d’ideali la sua causa più radicale. Senza una vera prospettiva ideale si finisce per essere dominati dal timore che l’altro ci strappi dalle abitudini consolidate, ci privi dei confort acquisiti, metta in qualche modo in discussione uno stile di vita fatto troppo spesso solo di benessere materiale. Al contrario, la ricchezza dell’Europa è sempre stata la sua apertura spirituale e la capacità di porsi domande fondamentali sul senso dell’esistenza. All’apertura verso il senso dell’eterno è corrisposta anche un’apertura positiva, anche se non priva di tensioni e di errori, verso il mondo. Il benessere acquisito sembra invece averle tarpato le ali, e fatto abbassare lo sguardo. L’Europa ha un patrimonio ideale e spirituale unico al mondo che merita di essere riproposto con passione e rinnovata freschezza e che è il miglior rimedio contro il vuoto di valori del nostro tempo, fertile terreno per ogni forma di estremismo. Sono questi gli ideali che hanno reso Europa quella «penisola dell’Asia» che dagli Urali giunge all’Atlantico”.
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