Notizie, documenti, rassegne, dossier su mondo cattolico e realtà religiose
“Dare a Dio quel che è di Cesare ?”
Convegno sul Progetto culturale della CEI, Roma 1 ottobre 2011
(da Adista n.81 del 5 novembre 2011)
Dalla Dc al “partito della Cei”
Gli organizzatori di questo convegno sono gruppi di
cattolici di base costituiti in un comitato che non ha
il compito di rappresentarli nelle loro diversità, ma solo la
funzione di organizzare momenti di confronto per riflettere
insieme sulla realtà in cui si trovano a vivere i percorsi
che hanno autonomamente intrapreso. Per questo non
è anomalo che ne facciano parte le redazioni di due testate
giornalistiche, strumenti preziosi per la formazione dell’opinione
pubblica, cattolica e no.
In questa prospettiva, dal giugno del 2009, hanno organizzato
una serie di convegni. Tra questi:
l “Tra memoria e profezia: le aperture del Concilio e le
sfide di oggi” (20 giugno 2009), con Maria Bonafede, Paola
Gaiotti De Biase, Giovanni Franzoni, Giancarla Codrignani,
Luigi Pedrazzi, p. Alberto Bruno Simoni, Raniero
La Valle, Francesca Koch;
l “Un’etica condivisa per una società pluralista” (30
gennaio 2010), con Francesca Koch, Stefano Ciccone,
Francesco Zanchini, Giovanni Franzoni, Vera Pegna, Adnane
Mokrani, Maria Angela Falà, Giovanni Cereti, Gian
Mario Gillio, Emilio Carnevali;
l “Sotto le due Cupole. Chiesa, religione, mafia” (17
Settembre 2010), con Augusto Cavadi, don Luigi Ciotti,
Alessandra Dino, Giuseppe Leotta, Giovanni Avena.
NON SI È TRATTATO DI UNA SVISTA
Introduzione di Mario Campli
Oggi, il convegno – con il titolo “Dare a Dio quel che è di Cesare?”
e il sottotitolo “Il progetto culturale della Cei nella crisi
italiana” – dovrebbe aiutarci a capire dove è approdata la Chiesa
italiana e perché, appena concluse le elezioni politiche del
1994, salutò con entusiasmo (cito testualmente) il «giovane ed
efficace raggruppamento messo in campo da Berlusconi»; al
quale subito, ancor prima di vederlo all’opera, attribuì questo
grande merito: «Ha messo in prima linea l’importanza della famiglia
e non ha taciuto la tradizione cristiana dell’Italia».
Il titolo, da noi scelto, è solo una parte della medaglia; l’altra
parte suonerebbe: “Dare a Cesare quel che è di Dio?”.
Siamo, insomma, nel contesto globale di una tragica confusione
sia sul tipo di tributo, sia sul destinatario di esso.
Nell’aprile 1994, Avvenire, nel supplemento per la diocesi
di Roma, di cui era vicario del papa Camillo Ruini, presidente
della Cei, dava voce ad una precisa scelta di campo, titolando
con enfasi: «È tempo di guardare avanti».
Che anni erano quelli? Vorrei soltanto ricordare un intervento
di Dossetti in occasione dell’ottavo anniversario della morte
di Giuseppe Lazzati, perché cade negli stessi giorni dell’entusiasmo
di Avvenire e del card. Ruini, nel maggio 1994. Dossetti
si poneva la domanda annunciata da Isaia e invitava a riflettere:
«Sentinella, quanto resta della notte?».
Dunque: due mondi, due Chiese, due Italie. 1994 (ieri) –
2014 (subito domani): siamo nella dirittura di arrivo di un ventennio
tormentato.
Avvenire non lo farà, mentre dovrebbe sentire il dovere morale
e professionale di un nuovo titolo: «È tempo per tutti di guardare
indietro».
Prima di arrivare al compimento del ventennio è urgente
che tutta la comunità ecclesiale italiana, e in Essa il suo episcopato,
si interroghi – di fronte all’intero Paese – sul come e
sul perché siano state fatte determinate scelte. Si interroghi
sulle sue specifiche responsabilità.
Noi oggi guidati dai nostri relatori, avvieremo il confronto e
l’analisi su tre versanti della riflessione: storica, teologica e sociologica;
intrecciati insieme (…). A noi pare, infatti, che sarebbero
sbagliati sia atteggiamenti di sufficienza, sia analisi affrettate
e incomplete.
Non si è trattato di una svista. Questo è il punto! Cancellare
l’opzione politica e culturale – dal ’94 in poi – con un tratto
di penna o con un “bel” discorso è una pretesa incauta ed impropria,
che potrebbe sconfinare nell’arroganza. No, non si è
trattato, secondo noi, di una svista.
(…) Abbiamo, dunque, urgente bisogno di guardare ben in
faccia la situazione nella sua complessità e nella sua gravità!
Cominciando con il fare chiarezza e analizzando contesti e scelte
fatte, anche per reagire subito (con fermezza, senza presunzione,
con assoluta e non delegabile responsabilità) al tentativo,
che è sotto i nostri occhi, di chi – dopo aver concepito, erroneamente,
la pretesa di farsi e offrirsi come Progetto Culturale
– ora ritiene di non essere in nessun modo corresponsabile
della deriva del sentimento pubblico e della vasta deprivazione
delle coscienze: una cultura del nulla, è stato detto, ma
sorvolando sulla circostanza che essa si è prodotta negli stessi
anni di vigenza del cosiddetto progetto culturale, dispiegatosi
con dovizia di risorse, di convegni ecclesiali e di ricca editoria;
e mentre il laicato cattolico organizzato ha largamente taciuto,
consenziente o meno, dismettendo le responsabilità proprie
che il Concilio gli aveva pure affidato.
Lo stesso “soggetto” che si appresterebbe per il futuro a
fare, nuovamente o in altre forme, quanto il titolo di questa giornata
pone come interrogativo di fondo, cioè: “Dare a Dio quel
che di Cesare?” (…).
Sul mare di Galilea, agli emissari del potere – nella sua duplice
configurazione religiosa e politica – Egli, accettando la sfida,
disse: «Mostratemi una moneta: di chi è l’immagine»?
Buon lavoro, dunque, a noi tutti e tutte. n
Mario Campli fa parte della Comunità cristiana di base di S.Paolo a Roma
IL PROGETTO CULTURALE DI RUINI
NELLA SITUAZIONE ITALIANA OGGI
Di Sergio Tanzarella
Fino a qualche settimana fa non mi ero mai occupato del
Progetto Culturale, né il Progetto Culturale si era mai occupato
di me. Avremmo vissuto tranquillamente, credo, ignorandoci reciprocamente.
Poi l’invito dei promotori di questo convegno mi
ha progressivamente convinto che sarebbe stato opportuno interessarsi
ed approfondire questo argomento.
Io sono uno storico e quindi di solito mi interesso di persone
morte. In questo caso, invece, si tratta di studiare persone
vive, almeno anagraficamente. Ci proverò, dividendo la mia relazione
in quattro parti.
I “BUONI PROPOSITI”
L’idea di un Progetto Culturale della Chiesa italiana appare,
per la prima volta, nella prolusione del card. Camillo Ruini, presidente
della Conferenza episcopale italiana, al Consiglio permanente
della Cei del maggio 1994 a Montecassino. Le date,
specie in questo caso, sono importanti. Poche settimane prima,
il 27 marzo, si erano tenute infatti le elezioni che avevano portato
per la prima volta Berlusconi alla vittoria. E alla guida del
suo primo governo. I vescovi discussero poi di Progetto Culturale
anche successivamente, nella loro Assemblea Generale del
maggio 1995. E ancora, nel Convegno ecclesiale del novembre
dello stesso anno, a Palermo, dove l’idea del Progetto Culturale
fu definitivamente lanciata. Da allora il Progetto Culturale è
stato sviluppato in diverse sedi e da varie componenti ecclesiali.
La cronologia che abbiamo ricordato segnala come il Progetto
Culturale coincida con la fine dell’unità dei cattolici in politica
considerata fino ad allora come un valore assoluto, quasi un dogma.
Un «valore irrinunciabile» che era stato proclamato da Ruini
ancora alla vigilia delle politiche del 1992; e poi, ancora, delle
amministrative dell’anno successivo. Poi però le cose andarono
diversamente. E già nel 1994 tutto ciò che era stato proclamato
come “irrinunciabile” fu rimesso totalmente in discussione…
Per definire cos’è il Progetto Culturale utilizzerò due fonti in
particolare: la prima ne segna la nascita vera e propria, e viene
dalla Presidenza della Cei, cioè dal card. Ruini. Si tratta di un
documento datato 28 gennaio 1997, dal titolo: “Il Progetto Culturale
orientato in senso cristiano”. Poi c’è un intervento del segretario
della Cei, Giuseppe Betori, tenuto il 7 maggio 2003 in
occasione della Festa dell’Istituto Biblico. A distanza di qualche
anno questo secondo documento ci aiuterà a verificare lo stato
di attuazione del progetto.
Nel primo documento si parte dalla considerazione dell’esistenza
di una «diffusa dissociazione tra pratica religiosa e vissuto
quotidiano», che viene definita come «una tragica contro testimonianza
» della fede cristiana: non è affermazione nuova nel
magistero cristiano, in particolare, si ritrova nella parte finale
della Pacem in Terris. Il documento prosegue: «Si tratta di una
distanza che tende ad approfondirsi tra il credo professato e i
modi collettivi di pensare, e di agire, tra il messaggio a cui si afferma
di aderire e lo stile e la mentalità dominanti, non solo nelle
società ma anche all’interno delle stesse comunità cristiane».
Il documento passa poi a dare una definizione di “cultura”.
«Il termine cultura viene inteso qui – scrive Ruini – nel senso
più ampio e antropologico, che abbraccia non soltanto le idee,
ma il vissuto quotidiano delle persone e della collettività, le
strutture che lo reggono e i valori che gli danno forma». Si arriva
quindi alle finalità del Progetto: «Rendere più motivata e incisiva
la pastorale ordinaria, stimolandola ad assumere consapevolmente
il rapporto tra fede e cultura per poter proporre
la fede mediante esperienze e linguaggi significativi nell’odierno
contesto culturale. Dare sostegno ai fedeli laici nel compito
loro proprio di esprimere la fecondità della fede nella vita familiare
e sociale, nella ricerca filosofica e nell’arte». Sottolineo
l’espressione «dare sostegno». Non si dice dare “direttive” o
“indicazioni”, ma “sostegno”.
Gli ambiti contenutistici da privilegiare, spiega quindi Ruini,
sono le «grandi aree tematiche per se stesse interdisciplinari che
toccano i contenuti fondamentali della fede nel loro impatto con
i nodi più vivi del pensiero e dell’ethos contemporanei, quello dei
temi emergenti di volta in volta nel dibattito culturale e nella vita
sociale, a cui appare necessario offrire risposte evangelicamente
illuminate, che orientino il pensare e l’agire comune dei cristiani
e li rendano capaci di entrare in dialogo con tutti».
Poi, il documento continua parlando del coinvolgimento del
popolo di Dio nel Progetto Culturale: «In quanto processo di discernimento
comunitario e di comunicazione, il progetto coinvolge
in definitiva tutto il popolo di Dio. L’incontro tra fede e cultura
è connaturato all’esperienza stessa della fede».
Tutti elementi che alla luce di quasi 15 anni di progetto culturale
appaiono in buona misura falliti.
L’ATTUAZIONE DEL PROGETTO CULTURALE
Localmente il Progetto Culturale non è mai partito. Chi ne visiti
il sito vedrà che ciascuna diocesi ha il proprio delegato e che
in ogni diocesi sono presenti decine di associazioni che dovrebbero
dare corpo e gambe al Progetto. Se poi però si verifica
l’attività svolta da queste realtà ecclesiali si potrà facilmente
notare che queste risalgono ora al 1999, ora al 2001, talvolta
al 2003. Difficilmente oltre. (…). Del resto, chi frequenta
realtà periferiche o ha avuto come me per studenti centinaia di
parroci meridionali sa bene che le realtà parrocchiali sono rimaste
totalmente estranee al Progetto.
Questa considerazione ci porta alla seconda “fonte”, fondamentale
per comprendere genesi e finalità del Progetto Culturale:
la relazione fatta da mons. Betori nel 2003: «Obiettivo
del progetto culturale – scriveva l’allora segretario della Cei – è
costruire, con le categorie di oggi, una visione del mondo cristiana,
consapevole delle proprie radici e della propria pertinenza
sulle questioni vitali, fiduciosa circa le proprie potenzialità nel
dialogo con la cultura contemporanea». «Stiamo dentro una svolta
storica o, comunque, in una fase di transizione piena di incertezze,
i cui sviluppi avranno conseguenze significative riguardo
alla valorizzazione o all’emarginazione dell’eredità cristiana che
ha alimentato e costruito la nostra civiltà. Solo entrando nel vivo
del rapporto tra Vangelo e cultura è possibile salvare oggi
questa eredità e questa fecondità. (…)».
Si dice poi (ci viene chiarito solo nel 2003, prima non era
mai stato esplicitamente detto) che il Progetto Culturale nasce
con «il venire meno dell’unità politica dei cattolici che rischiava
di essere interpretato come la giustificazione di una sorta di “diaspora
culturale”, da non confondersi con il necessario pluralismo
in cui si incarna il Vangelo. Accettare la logica della “diaspora
culturale” significherebbe il venir meno nel cattolicesimo
italiano della capacità e del compito di essere “forza incidente”
nel tessuto sociale del Paese. Questo, ovviamente, nella consapevolezza
che l’incidenza non è frutto di una strategia di occupazione
di spazi di potere – culturale, sociale, politico, ecc. –
ma esito di una coerente visione e attuazione del ruolo storico
del cristiano oggi in questo ambiente».
Mi permetto una chiosa alle parole di Betori: si può essere
“forza incidente” in tanti modi. Con l’autovalore della testimonianza
personale, ma anche con relazioni privilegiate con il mondo
politico, economico, finanziario…
Il documento prosegue poi affermando che «bisogna organizzare
una capacità di tenuta di fronte ai forti processi di scristianizzazione
della mentalità e del costume». L’elemento della
scristianizzazione viene presentato come un elemento nuovo.
Ma i documenti della Chiesa ne parlano da secoli. Eppure, la
“scristianizzazione” ha questo elemento ricorrente: chi la evoca,
pensa sempre di essere il primo a farlo, nonostante di questo
fenomeno della scristianizzazione si parli già nei documenti
magisteriali del XVIII secolo. Una circostanza che ci riporta al
mito di una società pienamente cristiana, una sorta di età dell’oro
del cristianesimo, irrimediabilmente perduta.
(…) Ecco, a questi punti toccati da mons. Betori se ne aggiunge
un altro, quando l’ex segretario della Cei parla del fatto
che il progetto ecclesiale e pastorale della Chiesa «per lungo
tempo ha potuto contare su una connaturalità tra etica cristiana
e indirizzi, anche giuridicamente avvalorati, della vita civile».
Questa parola, “connaturalità”, mi ha molto sorpreso. Dunque
secondo Betori esisteva una connaturalità tra etica cristiana
e vita civile… Da storico devo dire che questa affermazione
non ha nessuna sussistenza. Esiste semmai, quella sì, una “coincidenza”
che si è realizzata tra poteri. Si pensi alla Restaurazione,
o – per restare al territorio in cui vivo – al Concordato di Terracina
del 1818, quando il papa e il re Borbone si incontrarono
dopo le parentesi rivoluzionarie e stipularono un Concordato che
attribuiva ai vescovi un potere straordinario: quello, in sostanza,
di commissari prefettizi. Diventavano, di fatto, la longa manus dei
Borboni nella periferia del Regno. E i Borboni si garantivano l’ultima
parola sulla loro nomina, poiché i vescovi dovevano essere
fedeli alla corona, al potere assoluto del sovrano.
Infine, nel suo discorso, Betori auspica che attraverso il Progetto
Culturale si possa «instaurare un dialogo fecondo con i rappresentanti
della cultura “laica”, per tanti aspetti così potente
ma anche così in crisi nel nostro Paese». Questo per me è un
punto molto importante. Betori parla di “rappresentanti della cultura
laica”. E chi stabilisce chi devono essere tali rappresentanti?
E poi: a rappresentare che cosa? O chi? Infine chiedo e
mi chiedo: ma veramente la cultura laica si sente rappresentata
da Giuliano Ferrara? Io sinceramente spero di no, proprio per
rispetto della cosiddetta “cultura laica”. Eppure, gli interlocutori
che la Chiesa di volta in volta ha scelto per il suo Progetto Culturale
sono in realtà sulla stessa linea di Giuliano Ferrara.
Un ultimo elemento di riflessione. Betori si chiede «come
mantenere viva la dimensione storica del cattolicesimo italiano,
senza però farlo scadere a religione civile, a etica condivisibile
a prescindere da un riferimento credente?». Va sottolineato il
fatto che su questo pericolo dello scadimento della fede in religione
civile il Progetto Culturale torna più volte, salvo poi riconoscere
come interlocutori della cultura laica proprio gli assertori
della religione civile, Marcello Pera su tutti.
A rileggere i titoli dei forum c’è da chiedersi quale sia la percezione
della realtà, quale mondo abitano i relatori e gli organizzatori
degli eventi che hanno realizzato nelle parrocchie e nelle
diocesi il Progetto Culturale, perché avverto come urgenti per
le nostre comunità ecclesiali e civili temi come “L’Europa, sfida
e problema per i cattolici”; oppure “Mutamenti culturali, fede cristiana,
crescita della libertà”; “Il futuro dell’uomo. Un progetto
di vita buona: corpo,affetti, lavoro”; “La ragione, le scienze e il
futuro delle civiltà”. Mi chiedo se questi siano corsi universitari
piuttosto che un Progetto Culturale diffuso nel tessuto ecclesiale
e civile, che parta dal vissuto della gente, che riesca ad articolare
un discorso che possa essere compreso e che possa coinvolgere
la maggior parte dei nostri concittadini.
Nella sua attuazione concreta, per gli interlocutori scelti e le
tematiche che studia, il Progetto Culturale mi è sembrato essere
piuttosto orientato alla nascita o al recupero di un regime di
cristianità, invece che autentico servizio, come viene dichiarato,
rivolto agli esseri umani che vivono nella comunità italiana. (…).
QUALE MEMORIA PER QUALE PROGETTO CULTURALE?
Vorrei prendere in considerazione l’ultimo volume pubblicato
dal Progetto Culturale, quello che raccoglie i materiali del
Forum svoltosi dal 2 al 4 dicembre 2010, in occasione dei 150
anni dell’Unità d’Italia.
Quando l’ho consultato, mi aspettavo di trovare materiale
abbondante sul ruolo dei cattolici nei 150 anni di storia unitaria.
Pensavo cioè di trovare notizie sulla partecipazione alla Pri
ma guerra mondiale, analisi sul convinto appoggio dei cattolici
al fascismo, sul sostegno alle guerre coloniali, sul contributo
offerto dalla Chiesa alla distruzione del patrimonio ambientale,
a partire dagli anni ’50.
Siccome il Forum si svolgeva a Roma, pensavo poi che si sarebbe
parlato dello scandalo dell’Aeroporto di Fiumicino, della
giunta Rebecchini e dei terreni che improvvisamente furono convertiti
in aree edificabili (anche quelli della Chiesa e degli ordini
e congregazioni religiose); magari anche un riferimento all’occupazione
del potere da parte della Dc. Oppure qualche parola
sulla loggia massonica P2, sullo spreco di denaro pubblico dopo
il terremoto del 1980, che ha contribuito in maniera determinante
alla formazione di quel debito pubblico che oggi ci grava
sulle spalle (e che non si è certo formato perché abbiamo
fornito troppa assistenza sanitaria ai nostri malati).
È incredibile, ma in questo volume non c’è nulla di tutto ciò.
Guardare indietro, va bene. A condizione che ci sia la voglia
di guardare.
Nella premessa Ruini scrive che «cogliere il contributo cristiano
rispetto al destino del nostro Paese richiede una lettura
della storia scevra da pregiudizi e serenamente documentata».
Dopo aver letto questo passaggio potevo quindi ben sperare di
trovare qualcuno dei temi prima accennati, affrontati in modo
“documentato” e “scevro da pregiudizi”.
Ma se si scorre l’indice del libro, che non consiglio a nessuno
e che ho letto per una sorta di mortificazione personale, non
si trova nulla di tutto ciò. Eppure gli storici che hanno contribuito
alla realizzazione del testo sono di primissimo piano e “titolati”.
Ecco invece il modo documentato e rigoroso con cui nel libro
vengono affrontati i nodi problematici della storia unitaria.
Andrea Riccardi scrive ad esempio nel suo saggio: «Mai come
oggi dalla Seconda guerra mondiale l’Italia è stata così impegnata
militarmente, con più di 9mila militari impegnati in 21
Paesi, tra cui Libano, Afghanistan, l’area dei Balcani. C’è un bisogno
di Italia nel mondo!».
Scrive invece Giovagnoli (Università del Sacro Cuore) nel suo:
«L’Italia non è mai cambiata tanto come tra il ’45 e il ’75, passando
da una società agricola ad una società industriale, con
vaste migrazioni da sud a nord e da est ad ovest, ed intensa urbanizzazione,
anche se forse in un trentennio l’impegnativa presenza
pubblica verso cui i cattolici si sono proiettati li ha distratti
dall’elaborazione di un progetto culturale adeguato alla trasformazione
in atto». Trent’anni della distruzione del nostro Paese
vengono contenute in queste parole. Cos’è accaduto? C’è stata
l’“urbanizzazione”. Noi sappiamo cosa è stata questa urbanizzazione:
basta leggere qualche pagina degli anni ’50 del libro
di Cederna I vandali in casa, pensare alla distruzione delle nostre
coste, al “sacco di Napoli”. Tutto questo processo storico
viene invece ridotto da Giovagnoli al passaggio da una società
agricola ad una società industriale!
L’onnipresente rettore della cattolica, Lorenzo Ornaghi (alle
pagine 67 e 68), ci dà invece una precisa indicazione: «Bisogna
tornare ad essere guelfi»: «Tornare con decisione ad essere guelfi
comporta affermare l’idea e la realtà di italianità come dato
storico, insieme culturale e popolare, di cui gli essenziali e più
duraturi elementi sono religiosi e cattolici. E soprattutto richiede
la consapevolezza della benignità dell’Italia cattolica. Essere
guelfi oggi implica la consapevolezza che la nostra posizione
di vantaggio culturale va di giorno in giorno consolidata».
A queste parole vorrei contrapporre le parole pronunciate il
17 marzo 1994 ai presbiteri della diocesi di Pordenone da Giuseppe
Dossetti: «La cristianità è finita. E non dobbiamo pensare
con nostalgia ad essa, e neppure dobbiamo ad ogni costo
darci da fare per salvare qualche rottame della cristianità. Il sogno
dello storico Eusebio da Cesarea è finito, irrimediabilmente
finito. È finito dappertutto. L’Italia ha conservato alcuni rottami
fino ad ora, ma erano rottami, non più ben giustificati neppure
alla coscienza dei nostri politici».
Se si fosse dato ascolto a quelle profetiche parole, attuali
allora e ancora più oggi!
LA NECESSITÀ DEL GIUDICARE COME DOVERE
Per cominciare questa ultima parte della mia relazione scelgo
una citazione del Vangelo: «Come mai questo tempo non sapete
giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è
giusto?» (Lc 12,56-57).
A cosa dovrebbe rispondere il Progetto Culturale così come
gli stessi vescovi lo hanno disegnato nei loro documenti?
Si tratterebbe di aiutare lo sviluppo nella cultura italiana di
vaccini tali da rendere, su alcuni temi centrali per la vita degli esseri
umani, inaccettabili tutte le forme di persecuzione, di indifferenza,
di cinismo sistemico oggi imperanti; si tratterebbe di
contrastare il dilagante egoismo e il culto dell’effimero non solo
nelle loro ultime conseguenze ma nella elaborazione originaria
che deriva da una politica nazionale che promuove, non da oggi,
il principio della competizione, del successo, dell’acquisto del
consenso, dell’imbonimento televisivo e pubblicitario. Un Progetto
Culturale dovrebbe fornire gli strumenti per smascherare
l’inganno, la frode, la volontà di non far crescere il senso critico
dei cittadini e la loro autonomia di coscienza. Questo può dare
un Progetto Culturale. Servirebbe a rendere impossibile, impensabile,
ingiustificabile: l’evasione fiscale e l’esportazione dei capitali
all’estero; il contagio del male attraverso l’agire di chi è investito
di responsabilità pubblica; Il lavoro nero o il lavoro sottopagato;
il rifiuto e persecuzione dei migranti; la mercificazione
delle donne; le mafie e le camorre; la violazione dei diritti umani
e lo stato di degrado delle carceri; la guerra e il commercio armi.
A proposito della questione del lavoro, va ricordato ad esempio
che nel 2009 usciva il rapporto-proposta del Comitato per il
Progetto culturale Cei dedicato alla “sfida educativa”. Uno dei
punti di questa sfida era proprio il lavoro. Venivano ripresi tali e
quali i dati statistici degli istituti di ricerca che continuano a dire
bugie sul numero degli occupati e dei disoccupati. Io vengo da
una zona, il casertano, che insieme a quella di Napoli ha il tasso
più alto di disoccupati, non solo d’Italia ma d’Europa. Sono
dati falsi, perché se fossero reali ci sarebbe gente che si ammazzerebbe
quotidianamente perché spinta dalla fame. Esiste
invece il lavoro nero, il lavoro sottopagato, a 3-400 euro al mese,
ma non per 2 o 3 persone, per centinaia di migliaia di persone.
Non c’è negozio, ristorante, pizzeria dove non lavorino pressoché
tutti in nero. Non c’è cantiere dove non si lavori in nero.
Senza garanzie e senza soldi. E non c’è campagna dove si raccolgano
i prodotti utilizzando manodopera stagionale e in nero.
Uno si aspetterebbe che il Progetto Culturale denunciasse tutto
questo, dacché non lo fanno più nemmeno i sindacati.
Invece: «Umanizzare il lavoro significa realizzare un compito
con la massima perfezione possibile, sia come perfezione umana,
competenza professionale, sia come perfezione sovrannaturale,
per amore del progetto divino sul mondo e a servizio degli
uomini». Ma quando una cameriera guadagna venti euro, lavorando
in una pizzeria dalle 18 fino alle 3 di notte, come può
riconoscere questa «perfezione umana e sovrannaturale»? Ma
cari amici, chi scrive queste cose ha un gravissimo e forse irrecuperabile
handicap: non ha nessun rapporto con il mondo e
con la realtà. Purtroppo è a costoro che viene data la parola, parola
pronunciata e parola scritta.
Con queste guide e con queste testimonianze sappiamo benissimo
dove andremo a finire. E dove già siamo finiti.
Sui migranti, poi, non è più nemmeno questione di destra e
sinistra. Il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, presentato oggi come
uno degli astri nascenti della nostra politica è il galantuomo
che ha fatto l’ordinanza conto i lavavetri. Il sindaco di Pisa, che
non è un leghista, ha fatto invece un’ordinanza contro l’attraversamento
della città di persone che portano i borsoni. Chiaro
che se sono io a passeggiare per Pisa con un borsone non mi
ferma nessuno. Ma se sono un immigrato, allora è diverso. E
l’ordinanza serve esattamente a bloccare il commercio e la possibilità
di sopravvivenza di centinaia di persone immigrate.
Nella cattolicissima Vicenza c’è un’ordinanza del sindaco,
emessa il 3 settembre 2003, che recita: «La mendicità nel territorio
comunale è consentita sui marciapiedi dei luoghi pubblici
o aperti al pubblico purché sia lasciato uno spazio libero per
il transito dei pedoni di almeno metri 1 (uno); fra un mendicante
e un altro deve esservi una distanza non inferiore a metri 200
(duecento); l’esercizio della mendicità è vietato in Corso Palladio,
in Piazza dei Signori e nelle altre aree pedonali; la mendicità
non è inoltre consentita davanti agli ingressi dei luoghi di spettacolo
o economici, intendendo con ciò anche il singolo esercizio
commerciale e non deve intralciare l’accesso delle abitazioni.
È vietata la mendicità all’interno o nelle vicinanze dell’area
di manifestazioni di carattere economico, sportivo o politico, in
occasione di mercati e fiere, considerando come vicinanza una
distanza di almeno metri 100 (cento)».
In questa ordinanza c’è un programma politico che corrisponde
ad un modello di vita, un modello fondato sull’esclusione
e sulla cancellazione degli esseri umani. Comprendete allora
cosa dico quando parlo della gravità delle condizioni nelle quali
ci troviamo, perché questo documento (…) è stato assorbito
tranquillamente nella città di Vicenza. In pochi hanno manifestato
contro la sua mostruosità. Noi qui siamo davanti a un alto
grado di intolleranza nei confronti del bisogno. Ecco perché
l’azione di carità va contro i benpensanti e i sazi. Va esattamente
nella corrente opposta rispetto alla moda di oggi. Ci sono perfino
norme che prevedono ammende per i tanti anziani e migranti
che rovistano nella spazzatura (…). Oggi non vogliamo più cancellare
il bisogno ma i bisognosi. Non è quindi grave che qualcuno
abbia fame, ma che abbia la sfrontatezza di dircelo, di ricordarcelo,
che possa infastidirci con la sua richiesta o semplicemente
con la sua esistenza. (…).
E non può mancare una citazione per la Caritas della diocesi
di Foligno che nel 2010 stabilì che alla mensa per i poveri potevano
accedere solo coloro che avevano la residenza!
Eppure, queste sono le parole di mons. Di Liegro, per anni
direttore della Caritas di Roma: «L’esperienza di solidarietà verso
i cittadini più indifesi deve accompagnarsi costantemente
ad un’opera di denuncia profetica di ogni forma di violenza verso
gli indifesi. Il rischio è quello, giustificato dalla tradizione caritativa
del passato, di badare più al gesto isolato e generoso
che alle condizioni strutturali e culturali dei problemi sociali».
Ecco quale dovrebbe essere il collegamento a un Progetto Culturale
cristianamente ispirato.(…)
Io, nonostante tutto, sono fiducioso nel futuro. Non passeranno
50 o 100 anni che questo nostro tempo sarà ricordato
come un tempo nel quale l’infamia si è impossessata della realtà
delle nostre terre e della nostra nazione. E questa infamia
sarà condannata come è stato per la tortura e per la schiavitù.
Però qualcuno nel futuro si chiederà: «Perché anche tanti hanno
taciuto, non sono intervenuti, non hanno denunciato?». Noi
non possiamo permetterci di passare per quelli che sono stati
complici di questo disastro umano.
Nel 1933, nel pieno vigore dell’era fascista, quando il fascismo
era ormai riuscito ad ottenere il convinto consenso dei cattolici
italiani e si avviava a sperimentarlo con la loro adesione
entusiastica alla guerra coloniale in Abissinia compresa dai vertici
della cattolicità italiana come una straordinaria occasione
missionaria, Mazzolari scriveva una breve nota intitolata Rapporto
su Chiesa-fascismo e prospettive future che può servire ad
illuminare anche questo nostro tempo presente. Dopo aver sottolineato
l’antitesi profonda tra cristianesimo e fascismo, guardando
al rapporto tra i cattolici e i futuri governi, Mazzolari affermava:
«Non chiediamo nessun privilegio né per i singoli né
per le istituzioni nostre: nessuna preferenza, neppure in nome
del fatto non trascurabile, che il cattolico è (almeno nominalmente)
la maggioranza. Ogni cosa sia giudicata in rapporto al
valore sociale, apprezzato però con spirito non settario». E ancora.
«Non vogliamo nulla in dono. Anche le cose più giuste ce
le vogliamo guadagnare; dei diritti più santi della Chiesa, esserne,
anche umanamente, degni. Ci offende il solo pensiero
che qualcuno (come fu spesso, come purtroppo è) ci tolga il respiro
col pretesto della riconoscenza. Resiste soltanto ciò che
veramente è guadagnato (…). Non rinneghiamo – non è neppure
in nostro potere – nessun diritto alla Chiesa. Sappiamo però
che essi devono incarnarsi nel nostro sforzo, prima di essere riconosciuti
da chi non crede, il quale può essere mosso a riconoscerli
da interesse politico. Agli uomini di domani non chiederemo
delle adesioni ufficiali, anche a titolo di buon esempio,
se non hanno il personale convincimento».
Sergio Tanzarella è docente di Storia della Chiesa presso
la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale di Napoli
PROGETTO CULTURALE
O PAROLA INCARNATA?
Paolo Farinella
PREMESSA DI ATTUALITÀ
Il logo del Progetto Culturale della Cei è un semicerchio che
rappresenta una piazza col campanile, la torre civica, le case
con i portici tipici di una piazza italiana. In una parola, il simbolo
della città. Il semicerchio per sua natura indica l’apertura, la
convergenza e il dialogo. Il pensiero corre all’agorà greca come
luogo di discussione, di partecipazione, di decisione assembleare.
Questo riferimento all’agorà greca non è peregrino, ma
è la chiave di lettura sia del fantomatico Progetto Culturale della
Cei, sia delle scelte operative e ideologiche che la Chiesa gerarchia,
dal papa in giù, sta facendo in questi anni «con piena
avvertenza e deliberato consenso» (come dice il catechismo per
definire un peccato mortale).
In occasione della 45.ma Settimana Sociale dei cattolici italiani
(Pistoia, 23 settembre 2007), Benedetto XVI auspicava che
i cattolici «sappiano cogliere con consapevolezza la grande opportunità
che offrono queste sfide e reagiscano non con un rinunciatario
ripiegamento su se stessi, ma, al contrario, con un
rinnovato dinamismo, aprendosi con fiducia a nuovi rapporti e
non trascurando nessuna delle energie capaci di contribuire alla
crescita culturale e morale dell’Italia».
Tre mesi dopo (23 gennaio 2008), riprendendo questa consegna,
nella prolusione al Consiglio permanente della Cei, il card.
Angelo Bagnasco andava oltre, parlando del «Progetto culturale
cristianamente ispirato» che, lanciato dal card. Camillo Ruini nel
1994, ha avuto un primo varo nel Convegno ecclesiale di Palermo
del 1995 e il definitivo avvio nel biennio 1996-98. Esso ha
aiutato nell’ultimo decennio la Chiesa che è in Italia a individuare
una «nuova svolta antropologica come il passaggio obbligato nel
rapporto fede-cultura-società», diventando «un punto di riferimento
» per altre Conferenze e «un fattore dinamico di paragone
e di confronto, talora dialettico, con tutti i soggetti pubblici che
agiscono nella società civile italiana e non solo» (Angelo Scola,
intervento all’Università Cattolica, 5 novembre 2007)».
L’apertura e l’impegno verso le sfide che vengono da un mondo
in corsa qui si identificano col Progetto Culturale», diventato
la nuova parola magica con cui la Cei cucina da tempo tutte le
pietanze che riguardano l’Italia. Prosegue il cardinale dicendo di
essere convinto «che questo Progetto abbia prodotto molto di
più di quanto esteriormente talora non appaia, in termini di una
maggior consapevolezza ai diversi livelli: quello della pastorale
ordinaria, giacché è attraverso tutta la sua attività che la Chiesa
vuol fare anzitutto cultura; quindi mediante la presenza e
l’azione dei cristiani nel mondo, i quali incidono nella misura in
cui la fede diventa per loro vita vissuta; infine attraverso la valorizzazione
della dimensione intellettuale e l’esercizio delle attitudini
proprie di chi fa vocazionalmente cultura».
Dunque sappiamo che il «Progetto Culturale» ha competenza
su tre ambiti: a) la pastorale ordinaria; b) la vita dei laici che
sono nel mondo; c) le università, i media e qualsiasi altro centro
dove si fa cultura «vocazionalmente». In altre parole: nulla
deve sfuggire al centralismo culturale e non solo della Cei. Infine,
afferma il cardinale, «il Progetto è stato una felice occasione
per far emergere competenze e professionalità, porle in rete
e convocarle a convergente riflessione su temi nevralgici». Qui
a me pare chiaro che queste competenze e professionalità sono
quelle di alcuni individui a loro volta individuati dalla gerarchia
e che comunque fanno parte della cerchia degli eletti che
in campo profano normalmente si chiamo “cricche”. Se doveva
esserci una convergenza di professionalità e competenze, bisognava
cercarle in tutta la Chiesa e specialmente tra coloro che
sono critici, perché nessun progetto può essere autentico e lecito
se non nasce dal confronto di visioni diverse come sintesi
di modalità ecclesiali diversificate.
Il culmine però si raggiunge nell’auspicio finale, che è il vero
obiettivo primario, per quanto espresso quasi con noncuranza:
«È il momento, a me pare, per dare un ulteriore sviluppo al
Progetto, rafforzando un poco la struttura centrale e suggerendo
a questa di promuovere periodicamente dei momenti pubblici
di elaborazione e di proposta ad alto livello, dando la priorità, se
questo sarà condiviso, ai temi della coscienza nel suo nesso
con la libertà e la responsabilità».
Ecco lo scopo per cui è nato dalla fertile mente del cardinale
Ruini, il Progetto Culturale: rafforzare la struttura centrale e
ogni tanto illudere la plebe con qualche convegno, facendole credere
di essere propositiva. Il cardinale nella sua prolusione parla
di una «svolta antropologica» che il progetto Cei ha aiutato a
individuare. Vediamo quale è stata questa «svolta antropologica
» operata dalle scelte della gerarchia cattolica, ubriaca ed erotizzata
dal Progetto Culturale:
a) Nel 1991 la Cei pubblica un documento programmatico
per il decennio 1991-2000, in preparazione al Grande Giubileo
del 2000. Il titolo è Educare alla Legalità. Mai documento ecclesiale
fu così profetico e puntuale nella diagnosi di ciò che
sarebbe accaduto nel decennio seguente. Previde il connubio
tra «istituzioni e criminalità»,«l’oblio del bene comune», «l’asservimento
della legge», la degenerazione politica, il conflitto
tra interessi privati e bene comune. Li descrisse, li condannò e
spinse ogni credente a vigilare. Previde addirittura che «il Parlamento
corre il rischio di essere ridotto a strumento di semplice
ratifica di intese realizzate al suo esterno». I vescovi riuscirono
persino a descrivere gli eventi come sarebbero accaduti:
«Nell’ambito poi dei diritti fondamentali della persona vengono
promulgate “leggi manifesto” che proclamano solennemente
alcuni valori, ma che, in mancanza di strutture e di risorse
adeguate, naufragano al primo impatto con la realtà».
b) Il documento non ebbe storia: appena pubblicato, fu dimenticato
e mai citato in alcun testo ufficiale. Forse, dopo averlo
letto, i vescovi si resero conto che avrebbero dovuto fare sul
serio. Non so più chi mi ha detto che recentemente un vescovo,
a chi gli chiedeva interventi sulla qualità morale della politica,
rispose: «Oggi non è tempo di profezia, ma di occuparci di
cose concrete».
c) Nacque in compenso il primo governo Berlusconi, a cui seguì
il secondo, il terzo e il quarto: nacque il sodalizio incestuoso
tra lui e il Vaticano e la Cei di Ruini. Berlusconi promise tutto
e il contrario di tutto, il concedibile e oltre, promise che mai
si sarebbe messo contro la politica del Vaticano, che mai avrebbe
fatto votare leggi contrarie alla morale cattolica (…). Il referente
di garanzia nel governo era Pierferdinando Casini, il frutto
maturo della illegalità e della immoralità della Dc, il quale sostenne
il governo Berlusconi votando tutte le leggi contrarie alla
decenza di uno Stato democratico.
d) La Cei e il Vaticano assistettero afoni e muti al cambiamento
antropologico operato dal berlusconismo, prima con le tv
private e di Stato e poi con la sua immonda azione politica, supportata
intrinsecamente dalla xenofobia della Lega, negando
ogni singolo articolo della morale cristiana e della dottrina sociale
della Chiesa.
e) Nell’epoca berlusconiana, l’unico mantra che i vescovi e il
papa sanno ripetere sono «i principi non negoziabili», che invece
negoziano sottobanco con metodi mafiosi.
f) «La crescita culturale e morale» dell’Italia di cui parla Bagnasco
è davanti a tutti: la corruzione dilaga, la mafia e le associazioni
della malavita organizzata hanno preso possesso del Parlamento
e del governo; il Parlamento non è più eletto, ma nominato
dai magnaccia dei partiti; il presidente del Consiglio; ha permeato
il potere che esercita di corruttela e di ricatti incrociati; fa
la comunione ostentatamente e impudicamente; bestemmia in
pubblico (e il responsabile della Nuova Evangelizzazione, il vescovo
Rino Fisichella si precipita a «contestualizzare»); ha fatto eleggere
deputate passate dal letto di Putin; ha distrutto lo stato sociale,
ha dichiarato guerra alla Giustizia; ha devastato l’economia; ha
fatto i suoi esclusivi interessi immorali; ha fondato tutto sulla bugia
e la falsità…
g) È questo l’uomo che il Vaticano e la Cei hanno appoggiato
e difeso. Ecco il progetto culturale della Cei e del Vaticano:
fare affari, fare affari sporchi, avere vantaggi e privilegi economici
e alla fine concludere con un Pater Ave e Gloria.
Alla luce di questi fatti, ritengo che la gerarchia cattolica abbia
perso ogni diritto di parlare di etica e di progetti culturali,
avendo permesso a Opus Dei, Comunione e Liberazione, Legionari
di Cristo, ecc. di sostenere questo sistema immorale
che si regge sulla disonestà e sull’illegalità. (…). Papa e vescovi
sono colpevoli dello sfacelo in cui è piombata l’Italia perché sono
complici consapevoli e coscienti. Se Dio esiste, dovranno
rendere conto della loro ignominia. Nel ventennio hanno appoggiato
con indifferenza il fascismo, nel diciottennio hanno appoggiato
Berlusconi… E non si fanno scrupoli, perché sono adeguabili
alla moda di ogni stagione.
L’OBIETTIVO DEL PROGETTO CULTURALE
Il cardinale Camillo Ruini, quando nel 1994 (anno del 1° governo
Berlusconi/Lega) pone all’odg «il Progetto Culturale cristianamente
orientato», aveva un obiettivo preciso: porre le mani
della gerarchia su tutte le strutture, le organizzazioni e gli strumenti
culturali che allora vivevano e si esprimevano in Italia con
relativa libertà. (…)
Azione Cattolica, Focolarini, Cl, Neocatecumenali, Scout, ecc.,
tutti furono sottomessi alla gerarchia (…), con l’obiettivo di formare
falangi in vista del Progetto Culturale che l’utero fertile di
Ruini andava gestendo in segreto. Per raggiungere questo scopo,
bisognava spezzare le ali agli uccelli migratori, a cominciare
dalle grandi congregazioni come i gesuiti; contrastare la Teologia
della Liberazione che in Italia cominciava ad avere ripercussioni;
e stabilire il principio di autorità: chi comanda è la gerarchia, al
popolo spetta per concessione ecclesiastica dire «Amen» nella
liturgia: obbedienza, obbedienza cieca, obbedienza convinta.
Il progetto culturale aveva l’ambizione di riportare tutte le
case editrici di matrice cattolica, tutti i giornali di ispirazione cristiana,
tutti i settimanali e fogli diocesani sotto un unico cappello
di garanzia; nessuno avrebbe potuto e dovuto più respirare
senza permesso. È il ritorno, non detto ma praticato, al
tempo di papa Pacelli, quando a pensare nella Chiesa bastava
il papa e tutti a cantare giulivi e anche contenti: «Bianco Padre
che da Roma / ci sei mèta, duce e guida. / Su noi tutti tu confida,
/ un esercito a marciar». L’obiettivo di Giovanni Paolo II e
Benedetto XVI di abolire il Concilio Vaticano II senza eliminarlo
è essenziale a questo ritorno alla cristianità pacelliana. Per chi
fosse scettico, cito la Nota ufficiale della Cei dopo Palermo: «Entro
le coordinate del Progetto Culturale sono invitati a situarsi
creativamente i molteplici soggetti pastorali delle nostre chiese.
Inoltre, in funzione di stimolo, per alimentare e rilanciare
continuamente la riflessione nei luoghi pastorali, verranno organizzati
un servizio di coordinamento presso la Cei e una rete
di laboratori di studio e di proposta, distribuiti sul territorio e distinti
per aree tematiche» .
Da una parte «i molteplici soggetti pastorali delle nostre Chiese
» invitati a coordinarsi entro il Progetto e dall’altra «un servizio
di coordinamento presso la Cei». Se 2 + 2 fa 4, il cerchio si
chiude. Il Progetto Culturale partorito da Ruini e imposto alla
Chiesa italiana è un grande sombrero per nascondere un disegno
di morte: eliminare o quanto meno emarginare nella Chiesa
ogni forma di dissenso, di autonomia, di iniziativa, riportan-
do tutte le agenzie di comunicazione sotto la supervisione della
Cei che tutto deve controllare, verificare, autorizzare. Il Concilio
ecumenico Vaticano II che ha cercato di porre le basi per
una incarnazione del Vangelo in ogni cultura, è morto e sepolto,
un incidente dello Spirito Santo, un accidente della Storia. (…).
PROGETTO CULTURALE? COSA DICONO BIBBIA E TEOLOGIA
(…). Diciamo subito che il Progetto Culturale descritto non
ha niente da spartire con il Vangelo e con la teologia perché si
riduce ad una mera gestione di potere all’interno della Chiesa
italiana, dove a periodi alterni si danno battaglia i due referenti
principali: il Vaticano e la CEI.
Al tempo di papa Giovanni XXIII prevaleva la Cei perché il
papa cercava tendenzialmente di disinteressarsi dell’Italia, guardando
alla Chiesa universale in spirito di autentico servizio. Al
tempo di Paolo VI vi fu una sostanziale collaborazione, sia perché
il papa conosceva bene la situazione e aveva rapporti diretti
con alcuni protagonisti della politica italiana, sia perché
la Chiesa italiana era in fermento, con un dopo Concilio segnato
da figure di rilievo come testimoni e come uomini di cultura
e di fede: accenno solo al carmelitano Anastasio Ballestrero
e al segretario generale della Cei Enrico Bartoletti, uomini
onesti e credenti in Dio che mai avrebbero usato la Chiesa
per i loro scopi personali e tanto meno di potere.
Nel pontificato di Giovanni Paolo II, la Cei è stata guidata
da uomini che hanno lavorato per perpetuare il loro potere anche
dopo la loro formale, ma non reale, uscita di scena. Il card.
Camillo Ruini si dimette nel 2007 e tre anni dopo, nel 2010,
lo ritroviamo a pranzo con Berlusconi e Letta per coordinare
le elezioni regionali del Lazio allo scopo di far vincere ad ogni
costo Renata Polverini contro l’atea e miscredente Emma Bonino,
che i sondaggi davano per vincente. (…). Nel luglio dello
stesso 2010, il segretario di Stato vaticano, card. Tarcisio
Bertone, partecipava ad una cena notturna con Berlusconi,
Letta, Casini, Draghi, Geronzi in casa di Bruno Vespa, sempre
pronto a fare da cameriere di regime. In questo caso l’obiettivo
era convincere Casini a sostenere il governo e a non farlo
cadere dopo la cacciata di Fini.
Se questo è il Progetto Culturale, possiamo dire addio alla
decenza democratica, alla laicità dello Stato e all’etica senza
aggettivi. Credo che il mondo laico interno alla Chiesa e il mondo
laico senza chiesa dovrebbero programmare insieme un progetto
culturale che abbia solo un punto all’odg: semplicemente
l’abolizione del Concordato, il vero convitato di pietra alla
mensa democratica italiana. (…)
«Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro
che tu mi hai dato, perché sono tuoi. Io non sono più nel mondo,
ma essi sono nel mondo, mentre io vengo a te. Io ho dato
loro la tua parola e il mondo li ha odiati, perché non sono del
mondo come io non sono del mondo. Non ti chiedo che li tolga
dal mondo, ma che li preservi dal maligno. Essi non sono del
mondo, come io non sono del mondo» (Gv 17,6.9.11.14-16). È
la categoria teologica «nel-del» che esprime la presenza provvisoria,
locativa «nel» e di appartenenza, di identità «del». È qui
a mio parere il fondamento biblico della separazione tra Stato
e Religione: «nel mondo/non del mondo». Sta qui anche la definizione
della natura intima della Chiesa.
Quando la Chiesa non è odiata e perseguitata, ma ricercata,
riverita e ossequiata, rinnega la sua anima e il suo Signore
che l’ha inviata nel mondo senza bisaccia, senza tunica e senza
denaro, ma solo con il vincastro e i sandali (Mc 6,8-9). Tutto
il resto viene dal maligno. Nel momento storico che sta vivendo
l’Italia, essere Chiesa di Dio e non bottega di efficienza
significa non collaborare con un governo e una maggioranza che
hanno distrutto il tessuto sociale del nostro popolo, che hanno
frantumato la coesione generazionale, che hanno disintegrato
le coordinate antropologiche delle relazioni, che hanno introdotto
il virus dell’individualismo come fine, della corruzione come
metodo e della illegalità come strumento di dominio e di
predominio del malaffare istituzionalizzato. (…).
Parlando al Bundestag durante la sua visita in Germania,
Benedetto XVI ha citato Sant’Agostino per affermare il discrimine
tra il diritto e il brigantaggio: «Togli il diritto, e allora che
cosa distingue lo Stato da una grossa banda di briganti?». Guardando
in casa nostra, noi vediamo che i vescovi che pensano
il Progetto Culturale negli ultimi venti anni, sono stati e sono
ancora oggi complici di una «banda di briganti» che hanno allevato
nel loro seno e con i loro consigli, con accordi e scambi
mercantili, ignobili e peccaminosi. Il Progetto Culturale nella
nostra sventurata Italia è oggi: non collaborare con i briganti
che siedono al governo, indagati di mafia compresi; non appoggiare
politiche contro i diritti umani come fa il governo Bossi/
Berlusconi; non tacere per opportunismo quando c’è da parlare
da profeti; non contrattare sottobanco leggi secondo la
propria morale a scapito di quella degli altri; anteporre gli interessi
della povera gente ai privilegi delle caste; definire i confini
tra Stato e Chiesa; avere chiaro il fine ultimo dello Stato
che è laicità come condizione previa di democrazia; rispettare
le esigenze delle minoranze anche a scapito dei propri interessi;
amare la profezia della testimonianza come garanzia di
fedeltà al Signore Gesù; vivere come provvisori in cammino verso
il definitivo, senza pretese e con amore; amare la verità, la
libertà e la giustizia come frutti buoni dello Spirito; vivere l’unico
progetto culturale possibile che è testimoniare con la vita il
Signore Risorto, perché non si possono servire due padroni:
Dio e mammona (cf Mt 6,24).
In altre parole, ecco l’unico progetto di vita possibile, descritto
da Matteo: «Beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei
cieli. Beati quelli che piangono, perché saranno consolati. Beati
i miti, perché erediteranno la terra. Beati quelli che hanno fame
e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno
chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati a causa della giustizia,
poiché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno
e vi perseguiteranno e, mentendo, diranno contro di voi
ogni sorta di male a causa mia, rallegratevi ed esultate, poiché
grande è la vostra ricompensa nei cieli» (Mt 5,3-12).
Paolo Farinella è biblista, scrittore e saggista, parroco a Genova
L’ITALIA: PAESE
POST MODERNO E PREISTORICO
Maria Immacolata Macioti
A differenza di altri Paesi, tecnicamente progrediti e politicamente
dotati di una democrazia parlamentare rappresentativa,
l’Italia ha una sua peculiarità: ha una classe dirigente che
non dirige. Discute abbondantemente ma, in fondo, naviga a vista
e quindi vivacchia, sopravvive a se stessa. Non dirige, quindi
non decide e non sceglie perché mira soltanto a durare. È il
potere inerte, la forma più oppressiva di potere che si possa
immaginare. Questo potere può anche durare indefinitamente,
ma solo in una situazione di relativa normalità su piano nazionale
e planetario. E oggi questo non è più possibile.
Viviamo oggi, disgraziatamente, in un’epoca di terribile crisi
della finanza globale e della stessa economia occidentale.
Ma per quanto riguarda l’Italia, sarebbe estremamente riduttivo
parlare solo di crisi economica. Siamo infatti nel mezzo di
un progressivo degrado morale della classe politica e di una
parte del tessuto sociale. Si è fatta strada, soprattutto nell’ultimo
ventennio, anche se i prodromi sono più antichi, una “cultura
dell’illegalità”, per cui, da parte delle persone al potere, si
hanno proclami moraleggianti e comportamenti effettivi che vanno
in senso contrario. Un esempio che ha fatto scuola. (…)
Temo che la stessa gerarchia cattolica abbia dato, negli ultimi
venti anni, un decisivo contributo alla situazione attuale,
supportando il governo di centro-destra e ricavandone benefici,
azzittendo il dissenso interno. (…)
L’APPORTO DEL CARD. RUINI: IL PROGETTO CULTURALE
Difficile ignorare il forte appoggio dato a questa compagine
politica, nonostante tutto, dalla gerarchia cattolica. O forse dovrei
specificare meglio: dalla Cei presieduta dal cardinal Ruini.
Non certo, ad esempio, da mons. Bettazzi o dal card. Martini.
Anche qui bisognerebbe ricordare che le radici vengono da
lontano. Secondo alcune interpretazioni, dalla Centesimus annus
di Giovanni Paolo II.
Certamente con Ruini, nominato da Giovanni Paolo II segretario
generale della Conferenza episcopale italiana il 26 giugno
1986, si ha una “normalizzazione” del clero nella stessa
città di Roma dove, dopo il Concilio Vaticano II (presto, in buona
parte, disatteso e dimenticato), si era avuta una innovativa
presa di posizione di alcuni sacerdoti, tra i quali don Roberto
Sardelli (che nei tardi anni ’60 aveva aperto una scuola all’Acquedotto
Felice per i bambini dei baraccati), con la Lettera ai
Cristiani di Roma… Dove si era avuto il “Convegno sui mali di
Roma”, del 1974, che tante speranze aveva acceso.
Nulla di tutto ciò avrà un grande riflesso nella politica della
Cei, dove il segretario generale ha imposto la sua egemonia e
è subentrato, de facto se non de jure, al cardinal Poletti, via via
sempre più esautorato. Si passerà dalla difesa della Dc (nonostante
Tangentopoli) a quella del nuovo governo, definito un
«giovane ma efficace raggruppamento messo in campo da Berlusconi
», il quale ha «messo in prima linea l’importanza della
famiglia e non ha taciuto la tradizione cristiana dell’Italia». Mentre
altre persone divorziate e risposate si sono viste, e si vedono
ancora oggi, rifiutare i sacramenti.
Si apre al governo Berlusconi un grande credito, ribadendo
l’intenzione della Chiesa di continuare ad offrire quella che viene
definita «una genuina collaborazione» per la promozione dell’essere
umano e il bene del Paese.
Il 1995 è un anno difficile per mons. Luigi Di Liegro: gli si
vieta di rilasciare dichiarazioni alla stampa (ogni dichiarazione
dovrà essere preventivamente approvata dal card. Ruini); di partecipare
a manifestazioni pubbliche; non dovrà presentare denunce
anche di fronte a inadempienze gravi delle autorità civili;
sarà costretto a scegliere tra la Caritas diocesana e la sua
parrocchia al Centro Giano. Ruini preferisce decisamente la comunità
di S. Egidio fondata da Andrea Riccardi.
Ed ecco la proposta del Progetto Culturale, del ricompattamento
culturale a presidio della fede, contro la «scristianizzazione
» (Adista nn. 79, 81, 83 e 84/95).
Certo, ci si può sbagliare. Si potrebbe dire che è solo negli
anni successivi che si evidenzia sempre di più la povertà, l’impresentabilità
di questo governo, che è riuscito a portare al degrado
il Paese. Ma qui, quello che mi sembra grave è la continuità
del sostegno alla compagine governativa. È il disappunto
esplicito per la vittoria dell’Ulivo nel 1996. È l’appoggio dato alla
Pia Unione vicina a Comunione e Liberazione, accusata di «lavaggio
del cervello», di allontanamento dei membri dalle famiglie,
di richieste di obbedienza cieca. Una associazione gradita
anche a mons. Grillo, vescovo di Civitavecchia, nella cui diocesi
pare vi sia una Madonna piangente.
Intanto viene commissariata la Società San Paolo, che continua
a pubblicare riviste fastidiose: verrà nominato commissario
mons. Antonio Buoncristiani, fedele al card. Ruini, e si
aprirà un contenzioso con duri scontri, per più di un anno, che
si risolverà con una vittoria dei paolini (Buoncristiani dovrà andarsene),
che però dovranno subire l’allontanamento di don
Leonardo Zega, direttore di Famiglia Cristiana.
E non è tutto. Va ricordato il deciso aiuto dato a Storace contro
Piero Badaloni, che pure veniva dal mondo del volontariato
cattolico. E, del resto, il 22 gennaio 2001, nella prolusione al
Consiglio permanente della Cei, il cardinale critica duramente
quanto fatto dal centro sinistra tra il 1996 e il 2001 negli ambiti
dalla famiglia alla procreazione, dalle scuole alla biotecnologia
e alla bioetica. Sono invece da lodare, dice, le altre voci,
quelle che «a partire dai propri punti di vista, propongono e sostengono
orientamenti spesso non dissimili dai nostri sulle grandi
questioni che interpellano ogni coscienza responsabile».
E poco dopo interviene auspicando libri di testo di ispirazione
cristiana per le scuole: raccoglie l’invito Giampiero Fiorani
della Banca Popolare di Lodi, disponibile a intervenire con
100 milioni di lire per ogni progetto approvato dalla Cei. Per impegni
maggiori, la Banca erogherà prestiti a tasso agevolato.
Per ora, aggiunge, sono stati stanziati a fondo perduto 1,5 miliardi
di lire: ma il plafond complessivo sarà di 50 miliardi di lire,
che serviranno anche alla costruzione di parrocchie. Peccato
che il banchiere venga arrestato in dicembre con accuse di
aggiotaggio, insider trading, truffa, appropriazione indebita.
Quando scoppieranno gli scandali della Banca d’Italia (2005),
riguardanti il governatore Antonio Fazio, di nuovo Ruini porgerà
un aiuto, intervenendo contro le intercettazioni telefoniche.
«IL MIO REGNO NON È DI QUESTO MONDO»?
Dal suo punto di vista, Ruini ha certamente ben meritato: il
Progetto Culturale, o “ricompattamento culturale”, con annesso
il sostegno al governo e alla destra, ha portato alla Chiesa innumerevoli
frutti. Si potrebbe utilmente partire dalla richiesta di
50 nuove chiese a Roma, in vista del Giubileo del 2000. E rammento
che, in un convegno di poco precedente in Campidoglio,
Giovanni Franzoni ed io ci eravamo trovati su posizioni spontaneamente
convergenti a riguardo: forse c’erano problemi più urgenti
che non l’edificazione di altre 50 chiese, come le case popolari.
Se poi proprio si doveva pensare a edifici religiosi, perché
non tenere conto dei mutamenti della società italiana, con
i migranti che portavano altre fedi religiose? Si sarebbe potuto
pensare a una sorta di casa comune per più credenze, con elementi
simbolici richiamanti più fedi. Ma naturalmente questa
istanza non è andata lontano. Quella delle 50 nuove chiese sì.
A) IL PROGETTO CULTURALE E LA SCUOLA
Un obiettivo chiaramente indicato è quello della parità scolastica,
su cui Ruini avanza precise richieste già nel 1991. Il tema
sarà una preoccupazione costante per il cardinale: nel settembre
1997 ricorda come la scuola cattolica offra un servizio pubblico
e reclama un finanziamento per le scuole “confessionali”:
magari, una forma che non susciti troppa attenzione e polemiche.
E il prosieguo dei tempi gli dà ragione: il 23 ottobre 2003
viene firmata una Intesa per le scuole elementari, nel maggio
2004 la ministra Moratti ne firma un’altra sugli Obiettivi specifici
di apprendimento per l’insegnamento della religione cattolica (Irc)
per la scuola media inferiore. La ministra in questa occasione
esprime gratitudine alla Cei per l’ininterrotto appoggio al rinnovamento
della scuola. Oggi, gli insegnanti di religione presenti
nelle scuole italiane continuano ad essere nominati dalla Chiesa
e i loro stipendi ad essere pagati, però, dallo Stato italiano.
Il 20 marzo 2006 il card. Ruini interviene alla Cei, sull’ipotesi
di un insegnamento italiano nelle scuole che si potrebbe prendere
in considerazione, purché non sia in contrasto con la Costituzione,
v. i diritti civili o i rapporti uomo/donna, v. il matrimonio.
Bisognerebbe quindi essere sicuri che detto insegnamento
non si risolva in un «indottrinamento socialmente pericoloso».
Tanta perseveranza trova accoglimento e dà frutti. Nel 2011,
la legge di stabilità, voluta da Giulio Tremonti, assegna alle scuole
private 245 milioni di euro (la scuola statale invece perde 8
miliardi in tre anni). A questa cifra si dovrebbero aggiungere, per
un conteggio più realistico, i contributi regionali: stando all’Adista
(n. 3/10), solo la Regione Lombardia del ciellino Roberto Formigoni
avrebbe ottenuto, nel 2010, quasi 45 milioni di euro.
B) IL PROGETTO CULTURALE, LE ASSOCIAZIONI E I MEDIA
Nasce Sat2000: la Chiesa potrà così meglio intervenire dando
precise indicazioni anche a chi fa politica. L’impegno della
Chiesa non può infatti limitarsi ad un impegno etico relativo ai
valori, alla formazione delle coscienze: sono importanti le scelte
politiche e legislative che abbiano valenza etica: come la famiglia,
ad esempio; come la difesa del diritto alla vita.
Fa parte di questo quadro la costante attenzione al ridimensionamento
delle riviste dei Paolini, il sostegno dato all’Avvenire
diretto da Boffo, quello dato a questi contro Monticone,
presidente dell’Azione Cattolica, che nell’aprile 1986 non
si ricandida: suo successore sarà Raffaele Cananzi, considerato
un moderato. Un notevole passo avanti verrà compiuto, nella
direzione di ottenere una informazione cattolica orientata dalla
Cei, con la nascita del Sir, agenzia dei vescovi, nell’86.
Mons. Tagliaferri, assistente generale di Ac, sostenitore di
Monticone, verrà sostituito – senza alcuna consultazione in merito
– da Bianchin, vicino a Boffo. E nell’ottobre 1988 l’Ac verrà
commissariata. Il processo di “normalizzazione” verrà a compimento
nel 1990, con la nomina del vescovo di Taranto, mons.
Salvatore De Giorgi, a assistente generale dell’Ac. Nello stesso
anno la rivista Nigrizia viene ripresa perché aveva avanzato critiche
rispetto ad alcune convenzioni stipulate dalla Cei con banche
aventi rapporti di affari con il Sudafrica dell’apartheid. E nel
dicembre viene ristrutturato e ridimensionato il Consiglio nazionale
della Caritas, rea di essere troppo radicata nel territorio e
di avere aperto le porte ai laici. Poco dopo, Cielle entra nella
Consulta nazionale dell’apostolato dei laici. Insieme, vengono
ammessi il Movimento dei Focolarini e la Comunità di S. Egidio.
C) IL PROGETTO CULTURALE E LA SANITÀ
Nel gennaio 2002 il presidente della Cei firma, con il presidente
della Regione Lazio Storace, un protocollo d’intesa: verranno
istituite in tutte le aziende ospedaliere e sanitarie del Lazio
dei servizi di assistenza religiosa di fede cattolica. Si tratta
di circa 200 cappellani ospedalieri, equiparabili a collaboratori
amministrativi (ruolo di 7° livello): avranno quindi un regolare
stipendio pagato dalle Asl. Intanto è stata riconosciuta la “personalità
giuridica” dell’embrione.
Il 2005 vede un’altra vittoria del Progetto Culturale: si voterà
sulla legge riguardante la procreazione medicalmente as-
sistita. Legge che, approvata in Parlamento, non dovrà essere
peggiorata attraverso emendamenti: al limite, si potrà scegliere
la via dell’astensione, in modo da far cadere il previsto referendum.
E non verrà raggiunto il quorum.
A fine anno, parole dure vengono pronunciate contro l’uso della
pillola Ru486 e contro la sua sperimentazione aperta in alcune
regioni, mentre viene accolta con evidente favore la proposta
avanzata da Francesco Storace, ormai Ministro della Salute, di
inserire nei consultori i volontari del Movimento per la Vita: un lavoro
di tutela, dice il cardinale, che in genere avviene poco.
Coerentemente, il Vicariato di Roma nega a Welby, morto il
20 dicembre 2006, i funerali religiosi. Alla decisione del card.
Ruini reagiscono, prendendo le distanze, vari sacerdoti.
Più recentemente, la decennale politica del card. Ruini a riguardo
trova una ulteriore conferma: le volontà espresse da un
paziente quando era in buona salute, circa il respingimento di
cure a oltranza, non avranno valore. Saranno disattese.
D) IL PROGETTO CULTURALE E LA FAMIGLIA
Un altro tema su cui il Progetto Culturale sembra avere ottenuto
un certo successo è quello della “difesa della famiglia”.
Nel dicembre 2005, su RomaSette compare un pezzo attribuibile
alla Segreteria particolare del cardinal vicario di Roma, dove
si parla di un tentativo, da parte del X Municipio, che voleva
istituire un registro delle unioni civili, di «legittimare qualcosa di
simile a un matrimonio, attuando una pervicace volontà e scelta
ideologica, socialmente distruttiva oltre che inammissibile
sul piano giuridico e ancor più su quello morale». Pochi giorni
dopo una delibera del genere non passerà nell’XI Municipio, per
il no della Margherita, sensibile al richiamo.
Ruini ritorna sul tema delle “unioni di fatto” e sul rifiuto dell’eutanasia
il 22 gennaio e il 6 febbraio 2007, quando si discute
il ddl presentato da Rosy Bindi, in cui si riconoscono alle coppie
di fatto alcuni diritti: un editoriale sull’Avvenire diretto da Dino
Boffo (fedele alleato di Ruini, vicino a Cl) boccia decisamente
il progetto: non bisogna incoraggiare realtà “parafamiliari”.
Non va indebolito e mortificato l’istituto familiare e coniugale.
CHE NE PENSANO I CATTOLICI?
La politica di Ruini ha ottenuto indubbi successi, ha espanso
la sua ombra anche dopo il termine della sua presidenza della
Cei, quando è stato sostituito dall’arcivescovo di Genova,
mons. Angelo Bagnasco (marzo 2007).
A quale prezzo? La lista è lunga. Può comprendere le vessazioni
subite a suo tempo da mons. Luigi Di Liegro e dalla Caritas
diocesana di Roma, la marginalizzazione di mons. Bettazzi,
vescovo di Ivrea, ma non va dimenticato lo scarso spazio dato
al dissenso cattolico, sempre più in difficoltà con papa Giovanni
Paolo II prima, con il suo successore dopo. Le difficoltà
patite dai Paolini, da La Civiltà Cattolica. Il distacco della gerarchia
rispetto al sempre più ignorato popolo di Dio.
La base cattolica non sembra infatti essere per nulla in linea
con questa politica di rivendicazione di privilegi: di fronte all’intervento
del 19 agosto scorso del card. Angelo Bagnasco, attuale
presidente Cei, che attaccava gli evasori fiscali, che chiedeva una
revisione di stili di vita, maggiore sobrietà, la reazione di molti –
anche cattolici – è stata quella di chiedersi: e la Chiesa? Come
mai il cardinale non ha fatto cenno ai privilegi della Chiesa? Il fatto
interessante è che sono scese in campo associazioni cattoliche
e Comunità di Base. La polemica è rimbalzata in internet, su
Facebook. Molte agevolazioni, molte esenzioni effettivamente esistono
e molti credenti chiedono, ad esempio, che la Cei rinunci
alle quote non espresse dell’8 per mille (con il 35% dei consensi,
vanno alla Chiesa cattolica l’85% di questi denari).
Il partito unico dei cattolici, tanto voluto e spinto dal card.
Ruini sembra un ritorno al passato: l’unità non dovrebbe essere
una meta interna alla Chiesa, piuttosto che non una aspirazione
partitica?
Il successo ottenuto grazie a rapporti con la politica è davvero
rispondente all’insegnamento evangelico? Ai compiti della
Chiesa? O non è piuttosto un successo politico che poco
ha a che vedere con il sentire medio dei credenti?
Certo, lo scorso settembre il card. Bagnasco ha preso le
distanze da questo governo, dal presidente del Consiglio, sia
pure senza nominarlo. Ha usato parole forti: «Mortifica soprattutto
dovere prendere atto di comportamenti non solo contrari
al pubblico decoro, ma intrinsecamente tristi e vacui». E
ha continuato: «Non è la prima volta che ci occorre annotarlo;
chiunque sceglie la militanza politica, deve essere consapevole
della misura e della serietà; della disciplina e dell’onore
che comporta, come anche la nostra Costituzione ricorda». E
«C’è da purificare l’aria perché le nuove generazioni, crescendo,
non restino avvelenate».
Dubito fortemente che, con poche eccezioni, i cattolici italiani
oggi non abbiano chiaro che si tratta di parole tardive,
che giungono quando ormai è evidente che Berlusconi non può
reggere a lungo, che la gente è esasperata (la crisi aiuta), che
corrono da tempo in internet richiami al ridimensionamento
auspicabile della ‘casta politica’, della ‘impunità della casta’.
Dubito che i cattolici non capiscano che ormai la Chiesa non
può aspettarsi molto da questo governo, dal suo leader, come
per il passato.
Meglio per il card. Bagnasco, meglio per la gerarchia cattolica
quindi prendere, a questo punto, le distanze. E rilanciare
l’idea di un partito unico dei cattolici. Questo, in linea con il ‘piano
culturale’ del cardinal Ruini. E poco importa, probabilmente,
da questo punto di vista, che la maggior parte dei cattolici non
sappia neppure della stessa esistenza di un ‘piano culturale’
del card. Ruini. Che non molti ne condividerebbero i risultati,
poco culturali, molto politici. Un progetto in cui si ha una concezione
angusta della Chiesa; una Chiesa sulla difensiva, che
nega dignità e spazio a chi non concorda con la propria concezione
della salute, della famiglia, della scuola, della morte. Che
cerca di imporre la propria visione a chi la pensa diversamente.
Una gerarchia ecclesiastica che, invece di aprire dialoghi e
confronti, preferisce erigere, nuovamente, mura dogmatiche.
Maria Immacolata Macioti è docente di Istituzioni di Sociologia
e di Sociologia della Religione presso la Facoltà di Sociologia
dell’Università di Roma “La Sapienza”
EDUCARE ALLA LEGALITÀ
. Esattamente 20 anni fa, il 4 ottobre 1991, vedeva la luce uno dei più densi documenti
pastorali che la Conferenza episcopale italiana abbia prodotto: Educare alla legalità.
Nei primi anni novanta si cominciava a percepire nel Paese l’aria malsana di fenomeni come la corruzione, la concussione,
i finanziamenti illeciti e non solo. La dirompenza di quel documento consisteva nella descrizione e nella esplicita denuncia
di una «eclissi di legalità» senza precedenti. Preannunciava, dunque, e faceva intravedere la stagione funesta di tangentopoli.
«Esprimiamo la viva preoccupazione – scrivevano i vescovi – per una situazione che rischia di inquinare profondamente
il nostro tessuto sociale se non viene affrontata con tempestività, energia e grande passione civile». E i vescovi, con
una inconsueta punta di autocritica, sollecitavano «a riflettere non tanto su come gli “altri” rispettano il principio di legalità,
quanto su come “noi” – cristiani e cittadini – lo viviamo, in ordine a sviluppare una rinnovata cultura della norma».
Tardivo ma coraggioso, quel documento. E, probabilmente per questo, messo in sordina fino ad una vera e propria
«eclissi». In quegli anni novanta, infatti, aveva inizio nella Chiesa italiana la gestione totale e autoritaria del card. Ruini,
concomitante con la nascente “cultura” berlusconiana che cominciava a diffondersi nel Paese.
L’attuale gestione politica del governo del Paese, sempre più imbarazzante per il Paese e per la Chiesa, sembra esattamente
descritta in quel documento – peraltro ampiamente citato nell’intervento di Sergio Tanzarella (v. pag. 4) – che merita
di essere riletto e meditato. Per ricordare il ventesimo anniversario della sua pubblicazione e per sottolinearne l’attualità,
proponiamo la lettura di alcuni stralci rimandando al testo integrale recuperabile sul sito internet della Cei. n
Commissione ecclesiale
“Giustizia e Pace” della Cei
L’ECLISSI DELLA LEGALITÀ
«La crisi della legalità si manifesta nel nostro Paese anzitutto
nell’esplosione della grande criminalità, anche se in questa
non si esaurisce. Sono preoccupanti, per esempio, l’aumento
della piccola criminalità e una facile assuefazione ad
essa, quasi fosse un male inevitabile. Avviene così che, non
solo cresce il numero dei delitti denunciati, che però rimangono
impuniti perché i loro autori restano ignoti, ma aumenta
sempre più il numero delle vittime dei crimini che non sporgono
denuncia, ritenendola del tutto inutile.
Ciò rivela una rassegnazione e una sfiducia che vanificano
il senso della legalità. Ancor più preoccupante è la presenza
di una forte criminalità organizzata, fornita di ingenti mezzi finanziari
e di collusive protezioni, che spadroneggia in varie zone
del Paese, impone la sua “legge” e il suo potere, attenta
alle libertà fondamentali dei cittadini, condiziona l’economia
del territorio e le libere iniziative dei singoli, fino a proporsi,
talvolta, come Stato di fatto alternativo a quello di diritto.
Non meno inquietante è poi la nuova criminalità così detta
dei “colletti bianchi”, che volge a illecito profitto la funzione di
autorità di cui è investita, impone tangenti a chi chiede anche
ciò che gli è dovuto, realizza collusioni con gruppi di potere occulti
e asserve la pubblica amministrazione a interessi di parte.
È vero che l’aumento del tasso di criminalità caratterizza
tutte le società industrializzate, anche se tra esse l’Italia non
è ancora arrivata ai livelli più alti. Tuttavia non può non turbare
profondamente il generalizzato senso di impotenza, di rassegnazione,
quasi di acquiescenza di fronte a questo fenomeno,
che si configura come dissolutore di una convivenza
pacifica e ordinata.
Le risposte istituzionali sembrano spesso troppo deboli e
confuse, talvolta meramente declamatorie, con il rischio di rendere
la coscienza civile sempre più opaca.
Manca quella mobilitazione delle coscienze che, insieme
ad un’efficace azione istituzionale, può frenare e ridurre il fenomeno
criminoso. Non vi è solo paura, ma spesso anche
omertà; non si dà solo disimpegno, ma anche collusione; non
sempre si subisce una concussione, ma spesso si trova comoda
la corruzione per ottenere ciò che altrimenti non si potrebbe
avere. Non sempre si è vittima del sopruso del potente
o del gruppo criminale, ma spesso si cercano più il favore
che il diritto, il “comparaggio” politico o criminale che il rispetto
della legge e della propria dignità.
Una lotta efficace alla criminalità esige certamente una migliore
attività di controllo e di repressione da parte di tutti gli
organi preposti all’ordine pubblico e all’attuazione della giustizia,
come pure la disponibilità dei necessari strumenti materiali
e processuali per poter svolgere adeguatamente il proprio
compito. Ma ciò non potrà mai bastare se contemporaneamente,
come hanno recentemente sottolineato i vescovi
italiani, non vi saranno anche una concreta attività promozionale
da parte dello Stato in certe zone del Paese e una mobilitazione
delle coscienze dei cittadini “perché sia recuperata,
assieme ai grandi valori dell’esistenza, la legalità, e sia superata
l’omertà che non è affatto attitudine cristian”a».
L’OBLIO DEL BENE COMUNE
«La crescita di una più viva coscienza della legalità esige
che la formulazione delle leggi obbedisca innanzitutto alla tutela
e alla promozione del bene comune, come è richiesto dal-
la natura stessa della legge. Ciò equivale a ricondurre l’azione
politica alla sua funzione originaria, che consiste nel servire il
bene di tutti i cittadini, con particolare attenzione ai più deboli.
Ma si deve rilevare, purtroppo, una sempre maggiore marginalizzazione
di un’autentica azione politica. Il progressivo
sviluppo della socialità e il tumultuoso svilupparsi delle soggettività
nel campo privato e pubblico hanno portato a coltivare
più l’interesse immediato dei particolarismi che il bene
comune, con una conseguente gestione riduttiva della politica.
Anziché un inserimento vivo e costruttivo delle formazioni
sociali intermedie nel complessivo contesto della vita pubblica
organizzata si è progressivamente realizzata una privatizzazione
del pubblico. Così, di fronte ad una società proliferante,
lo Stato è divenuto sempre più debole: affiora l’immagine
di un insorgente neofeudalesimo, in cui corporazioni e
lobbies manovrano la vita pubblica, influenzano il contenuto
stesso delle leggi, decise a ritagliare per il proprio tornaconto
un sempre maggiore spazio di privilegio».
AMNISTIE E CONDONI A SCADENZE FISSE
«Altri fatti che contribuiscono alla messa in crisi del senso
di legalità nel nostro Paese sono l’eccessiva produzione legislativa,
la sua scarsa chiarezza e la frequente impunità dei trasgressori.
A questo proposito i vescovi italiani hanno già richiamato
l’esigenza di una “legislazione efficace, non farraginosa,
non ambigua, non soggetta a svuotamenti arbitrari nella
fase di applicazione, adeguata a garantire gli onesti da qualsiasi
potere occulto, politico o non che esso sia”.
Invece, assistiamo spesso ad una produzione legislativa
pletorica e incoerente, che sviluppa una disciplina rigorosissima
su taluni aspetti minuti della vita quotidiana, mentre è
lacunosa, o tace del tutto, su altri settori di grande importanza
che riguardano la persona umana. Nel primo caso, il cittadino
si trova sommerso da una colluvie legislativa entro la quale
tante volte si smarrisce. Nel secondo caso, si trova di fronte
ad un vuoto legislativo, e quindi senza una norma, in settori
di grande responsabilità.
A tutto ciò va aggiunto il fatto che le violazioni della legge
non hanno spesso un’effettiva sanzione o perché sono carenti
le strutture di accertamento delle violazioni, o perché le sanzioni
arrivano in ritardo, rendendo in tal modo conveniente il
comportamento illecito.
Anche la classe politica, con il suo frequente ricorso alle
amnistie e ai condoni, a scadenze quasi fisse, annulla reati e
sanzioni e favorisce nei cittadini l’opinione che si può disobbedire
alle leggi dello Stato. Chi si è invece comportato in maniera
onesta può sentirsi giudicato poco accorto per non aver
fatto il proprio comodo come gli altri, che vedono impunita o
persino premiata la loro trasgressione della legge.
Tutto ciò può innestare una generale e pericolosa convinzione
che la furbizia viene sempre premiata, che il “fai da te”
contro le regole generali dello Stato può essere considerato
pienamente legittimo, che il “possesso” di un bene ottenuto
contro la legge è motivo sufficiente per continuare a tenerlo,
e che è logico e giusto ratificare il fatto compiuto, indipendentemente
dalla sua legale o illegale realizzazione».
GLI INTERESSI DI ALCUNI A DANNO DEGLI ALTRI
«Un secondo fattore, legato intimamente al senso della legalità,
è la ricerca del bene comune. Questo costituisce il fine dell’organizzazione
di ogni società. (…). Il bene comune si presenta
perciò come meta e impegno che unifica gli uomini al di là della
diversità dei loro interessi, e che esige la cura che ogni cittadino
deve avere per la legge, la cui finalità è precisamente di
proteggere e di promuovere il concreto bene di tutti. Si oppongono
perciò alla ricerca del bene comune, e quindi al senso della
legalità, non solo l’egoismo individuale, ma anche le situazioni
economico-sociali nelle quali si sono solidificate ingiustizie,
ossia le cosiddette strutture di peccato, che favoriscono gli
interessi solo di alcuni a danno degli altri. Inoltre, come difficoltà
particolare dei nostri tempi, si deve registrare anche il
grande pluralismo di idee e di convinzioni, che riguarda gli stessi
valori fondamentali della vita e che origina una società frammentata
da progetti sociali e politici profondamente diversi e
radicati in prospettive di valori assai differenti e contrastanti».
I CRISTIANI IMPEGNATI IN POLITICA
«In questo momento storico vogliamo ancora una volta rivolgere
la nostra attenzione particolare ai cristiani variamente
impegnati nella politica. Sono tra i primi responsabili della
crescita o del declino del senso della legalità nel nostro Paese.
Per questo vorremmo richiamare di nuovo alcuni orientamenti
che devono guidare la loro azione.
L’uomo, con i suoi bisogni materiali e spirituali, sia posto
sempre al centro della vita economica e sociale, e costituisca
la preoccupazione prima di tutta l’azione politica.
Nel riconoscimento della giusta autonomia delle realtà terrene,
siano costantemente affermati e chiaramente testimoniati
quei valori umani ed evangelici “che sono intimamente
connessi con l’attività politica stessa, come la libertà e la giustizia,
la solidarietà, la dedizione fedele e disinteressata al bene
di tutti, lo stile semplice di vita, l’amore preferenziale per
i poveri e per gli ultimi”.
L’impegno politico sia alimentato dallo spirito di servizio “che
solo, unitamente alla necessaria competenza ed efficienza, può
rendere trasparente o pulita l’attività degli uomini politici”.
Chi ha responsabilità politiche e amministrative abbia sommamente
a cuore alcune virtù, come il disinteresse personale,
la lealtà nei rapporti umani, il rispetto della dignità degli altri, il
senso della giustizia, il rifiuto della menzogna e della calunnia come
strumento di lotta contro gli avversari, e magari anche contro
chi si definisce impropriamente amico, la fortezza per non cedere
al ricatto del potente, la carità per assumere come proprie
le necessità del prossimo, con chiara predilezione per gli ultimi.
Non siano mai sacrificati i beni fondamentali della persona
o della collettività per ottenere consensi; l’azione politica
da strumento per la crescita della collettività non si degradi a
semplice gestione del potere, né per fini anche buoni ricorra
a mezzi inaccettabili. La politica non permetta che si incancreniscano
situazioni di ingiustizia per paura di contraddire le
posizioni forti. Si tagli l’iniquo legame tra politica e affari. Siano
facilitati gli strumenti di partecipazione diretta dei cittadini
alle scelte fondamentali della vita comunitaria».
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