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Noi Siamo Chiesa

Sezione italiana del movimento internazionale “We Are Church” per la riforma della Chiesa cattolica

Domenico Rosati ragiona con spirito critico sui cattolici dopo le elezioni e il coordinatore di Noi Siamo Chiesa continua il suo ragionamento sostenendo che senza una autocritica radicale sul passato non si va da nessuna parte.

Cattolici post elezioni

2 luglio 2018 da www.setimananews.it

di: Domenico Rosati

L’impressione che si ricava guardando il mondo cattolico in questa fase post elettorale è quella di un esteso disorientamento accompagnato da un forte tasso di incertezza.

Il fatto non deve meravigliare, perché la situazione precedente al voto non era diversa. Mentre, in occasioni precedenti, si erano abbozzate operazioni di aggregazione o comunque di orientamento del voto cattolico, stavolta si è andati alle urne, sostanzialmente, in una condizione di vasta diaspora. O meglio – per dirla tutta – si è andati al voto con un appello alle coscienze dei credenti, affinché fossero coerenti con la domanda di bene comune che emerge dalla realtà delle cose non solo in Italia, ma in Europa e nel mondo.

Come valutare tale circostanza? Per farlo occorre riferirsi ad altre stagioni nelle quali ai cattolici veniva comunque impartita una direttiva. Quando, negli anni Cinquanta, vigeva l’obbligo di coscienza di votare uniti, talora con annessa sanzione canonica, il convogliamento avveniva attraverso la mobilitazione delle strutture ecclesiali a sostegno della Democrazia Cristiana.

Successivamente, tramontata la stella della Dc, si puntò sull’esaltazione di alcuni valori, proposti come “non negoziabili”, sui quali coagulare il consenso cattolico a fronte di tendenze libertarie in materia di diritti, giudicate non accettabili. Questa linea, affermatasi sotto il consolato del cardinale Ruini alla guida della CEI, affrontò varie prove ma non ebbe i risultati sperati.

 

L’operazione Todi

Si giunse così alla prova del 2013 quando, in modo informale ma effettivo, si tentò, con l’operazione Todi, di realizzare un certo coagulo cattolico attorno ai contenuti dell’“agenda Monti”, non si capì bene se in convergenza o in dissonanza rispetto al Pd. Certamente molti di quelli che si riconobbero nell’impresa avevano pensato alla resurrezione di una “presenza” ben configurata. L’esito, comunque, fu tale da sconsigliare ogni replica, fosse pure del solo vocabolario.

Nel frattempo, invece, si diffondeva il messaggio di papa Francesco, tradotto in italiano nel discorso ai vescovi e ai laici pronunciato al convegno ecclesiale di Firenze e dedicato all’esigenza di un nuovo umanesimo. E qui siamo ai giorni nostri.

Tutto si può dire del magistero di Francesco tranne che non sia chiaro negli orientamenti di fondo e nei contenuti. La riprova è nell’ostilità che verso di esso hanno manifestato fin dall’inizio gli ambienti più conservatori della politica e anche della cultura cattolica.

I giudizi severi sulla politica dell’indifferenza, come quella che non solo tollera ma favorisce la produzione di «scarti umani», comporta una critica severa anche alle ultime evoluzioni del capitalismo e di quello finanziario in particolare; il richiamo ad un’economia che metta al primo posto il lavoro e il contrasto alla povertà; il dovere dell’accoglienza verso coloro che sono costretti a migrare per eventi bellici o per fame: tutto questo ha costituito e costituisce uno spartiacque culturale che non può essere ignorato.

Come mai, allora, proprio i cattolici ai quali è, in primo luogo, rivolto il messaggio, sembrano ignorarlo o addirittura contraddirlo nei loro atteggiamenti pratici e nelle opzioni elettorali? Certo – come si è notato –, «Francesco non svolge mai espressamente il tema politico… Parla della Chiesa di Cristo e del modo di intenderla, con tutte le ricadute sulla coscienza dei fedeli cristiani». Ma non si può minimizzare il fatto che una massa ragguardevole di cattolici non mostra alcun turbamento di fronte all’affermarsi di posizioni decisamente opposte e, a quanto pare, se ne impadronisce talora con entusiasmo come se fossero le più coerenti con la visione cristiana della vita e della storia.

Cacciari, Riccardi e il card. Bassetti

Se si guarda bene, il punto focale della presente situazione è in questo radicale rovesciamento dei parametri di giudizio. Al punto da lasciar pensare che un bacio alla reliquia di san Gennaro (Di Maio) o l’esibizione ostentata di un rosario (Salvini) bastino a tacitare i dubbi delle coscienze, se non a trasformarli in acritiche adesioni.

In proposito, non si possono trascurare i rilievi di Massimo Cacciari, il quale, all’indomani delle elezioni del 4 marzo, si è chiesto quale influenza abbia oggi la Chiesa sulle scelte politiche dei cattolici: «Che influenza hanno il magistero e i discorsi di papa Francesco?… La gente va ad ascoltare il papa per fare una gita»? Ed è lo stesso Cacciari ad affermare che questo in casa cattolica «dovrebbe essere il tema su cui riflettere al di là delle contingenti vicende delle alleanze di governo».

Non meno severo – ed anzi più penetrante, perché proviene da un cattolico che pure si coinvolse nell’operazione Todi – il giudizio di Andrea Riccardi: «Quale messaggio – si chiede – ha veicolato la Chiesa in questi anni? Non un messaggio di paura; anzi un messaggio di speranza, di apertura agli stranieri, di maggior integrazione europea». E riflette: «Non dico che (i cattolici) abbiano votato contro la Chiesa, ma hanno dimostrato una diversità evidente e sentimenti di autodifesa diversi dai messaggi ecclesiali». Per cui si può parlare di «sconfitta della Chiesa».

Probabilmente a valutazioni di questo genere si riferiva il presidente della CEI card. Bassetti nel suo intervento al Consiglio permanente del marzo scorso quando parlava di «inverno sociale» che ha flagellato l’Italia e alimentato la rabbia, e assicurava «la presenza operosa della Chiesa» che «avverte la responsabilità di mantenere unito il paese portando avanti un lavoro educativo e formativo appassionato». Il discorso, poi ripreso nell’Assemblea di maggio, promette, su tale terreno, una continuità che deve però cimentarsi, senza eluderle, con le novità rivelate dal voto.

Anche su Avvenire si è aperto un dibattito dal quale, tuttavia, non sono finora emerse idee all’altezza delle sfide in atto. Le suggestioni rappresentate sembrano piuttosto rivolte a rilanciare formule e proposte già sperimentate in negativo che ad avventurarsi sui terreni da esplorare. C’è chi ha suggerito un rilancio del “diritto naturale” come chiave risolutiva della crisi etica; e c’è chi si è industriato ad illustrare i vantaggi di una nuova epifania delle “reti” esistenti nell’area cattolica come base di una ripresa da perseguire.

Un approccio critico e un atto di coraggio

Altri spunti si aggiungeranno. Ma per ora si deve osservare che, in campo, sembrano essere dislocate idee e progetti già collaudati in precedenti fasi della vicenda politica. Sul “diritto naturale” era basata, per non andare a tempi più recenti, la battaglia referendaria contro il divorzio, mentre il concetto di “Retinopera” era stato messo in lizza nella fase che precedette le operazioni di presenza nelle elezioni del 2013.

Il rischio è che si scambino per novità esperienze già consumate nel passato e quindi anacronistiche rispetto ai temi del presente. Che richiedono, invece, uno sforzo di ricerca e di invenzione in grado di corrispondere alle prospettive inedite che la realtà propone.

Ne nasce un duplice suggerimento, sul piano delle opzioni e su quello del metodo. Per un esame delle opzioni possibili, diventa necessario un approccio critico ai tentativi del passato, in modo che i loro risultati e i loro fallimenti siano tenuti presenti nel momento in cui ci si accinge a formulare nuovi progetti. L’analisi storica è non meno importante dell’analisi sociologica: questa fotografa il presente, quella proietta il film della successione degli eventi. In ogni caso si evita il rischio che un usato… insicuro venga accreditato come nuovo.

Sul piano del metodo l’idea migliore – a parere di chi scrive – è quella di riprodurre, con tutti gli accorgimenti necessari, un’esperienza come quella che, nel 1976, radunò tutte le componenti ecclesiali attorno al tema di “evangelizzazione e promozione umana”: un momento di dibattito libero e costruttivo di cui c’è ancora memoria nella comunità cristiana e che fu in grado di fornire, in un momento di crisi politica, le coordinate per guardare al futuro senza l’apprensione del presente. Fu anche, quello di “Evangelizzazione e promozione umana”, un atto di coraggio nei confronti di quelle retroguardie che non riuscivano ad immaginare un mondo nuovo che fosse diverso dall’antico.

Ma non sarebbe una ripetizione perché nuova e diversa sarebbe l’analisi e con essa il catalogo dei problemi da affrontare. In ogni caso, occorre un dibattito vero, spregiudicato, senza tabù e riverenze indebite; per parlarsi – come dicemmo nel 1976 –, «a Vangelo aperto». Non è detto che funzioni per via della nostra umana debolezza, ma bisogna provarci.

Commento online di Vittorio Bellavite, coordinatore di Noi Siamo Chiesa

Grazie a Domenico Rosati per l’analisi scritta senza reverenze. Il primo punto è proprio quello della verifica del passato. Che non è mai stata fatta. Chi mai ha denunciato apertis verbis e in alto loco il connubio coi governi di Berlusconi? e la storia dei “principi non negoziabili”? E la storia dei due incontri di Todi gestita col compiacimento di Bagnasco? Poi l’operazione Monti? E ancora il convegno della Chiesa italiana del novembre del 2015 a Firenze? un grande discorso di papa Francesco a cui corrispose un convegno, mastodontico ed ambizioso ma del tutto inutile. Vi partecipai, ne so qualcosa. Bisogna fermarsi, rivedere questa storia, ripartire da zero ma senza voler stare a metà strada pensando che la gestione recente di Renzi e dintorni non abbia contribuito alla fase attuale di disorientamento e di assenza . Grazie, Domenico, per avere messo i piedi nel piatto .

Vittorio Bellavite, coordinatore di Noi Siamo Chiesa


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