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Noi Siamo Chiesa

Sezione italiana del movimento internazionale “We Are Church” per la riforma della Chiesa cattolica

A novanta anni è andata alla casa del Padre Nina Kaucisvili

In occasione della scomparsa di Nina Kaucisvili, avvenuta all’alba di lunedì 4 gennaio, pubblichiamo l’intervista realizzata da don Giuseppe Grampa,
per il numero di ottobre 2009
del mensile diocesano «Il Segno»


di don Giuseppe GRAMPA

Nina Kauchtschischvili ha da poco compiuto novant’anni. D’ora innanzi la chiameremo zia Nini, perché così la chiamano gli amici e anch’io, da trent’anni. Questa donna, probabilmente sconosciuta a moltissimi lettori, ha attraversato tutto il secolo scorso, segnata da eventi terribili come la rivoluzione sovietica e il nazismo. Ha avuto un ruolo significativo nello scoutismo femminile ed è stata studiosa e docente di valore internazionale di Lingua e letteratura russa nell’Università Cattolica di Milano, a Torino, a Bari e infine a Bergamo: proprio lei, che parlava questa lingua in famiglia, ma non l’aveva mai studiata!
Oggi, lucidissima, con una memoria che conosce poche incertezze, ci racconta la sua storia con l’aiuto prezioso di sua cognata Francesca (la zia Nini purtroppo è sorda, anche se quando andiamo alla Scala gusta e apprezza la musica).

Zia Nini, come ricordi la rivoluzione sovietica?
Solo attraverso le vicende dei miei genitori. Mio padre, Michail, era nato in Georgia, quando quel Paese era libero e sovrano. Studente al Politecnico di Pietroburgo, conobbe e sposò mia madre, che viveva lì. Diventato ingegnere chimico a Pietroburgo, il giorno dopo la presa del potere da parte di Lenin riuscì a prendere l’ultimo treno per la Georgia. Nel 1918 si recò a Berlino, incaricato dal governo georgiano di stipulare contratti a favore del suo Paese. Qui, il 20 agosto 1919, sono nata io. Rientrato in Georgia nel novembre del 1920 per riferire al suo governo i risultati della missione, nel febbraio 1921 mio padre venne sorpreso dall’occupazione sovietica della Georgia. Riuscì a imbarcarsi su un battello italiano che dal Mar Nero lo portò a Brindisi. Di qui a Berlino, dove si impiegò alla Siemens.

Com’era la Berlino della tua fanciullezza, la Berlino di Hitler?
Noi siamo cresciuti nell’ambiente degli emigranti georgiani, con pochi contatti con i tedeschi. Ricordo che un sabato, mentre tornavo a casa dopo una lezione di canto, vidi le strade occupate dalle SS in marcia: proprio quel giorno avevano preso il potere, ma io non lo sapevo. Non potendo usare mezzi pubblici, mi trovai a dover marciare a fianco di quelle formazioni naziste. Quando arrivai a casa, mio padre voleva strapparsi i capelli perché avevo marciato con le SS! Nel nostro quartiere c’era un piccolo gruppo di cattolici, molto valido e attivo. Col nostro parroco – che non era affatto favorevole al nazismo – organizzavamo letture della Bibbia: eravamo come una piccola Resistenza, era tutto quello che si poteva fare senza dare troppo nell’occhio. Così, dai quindici ai vent’anni, partecipai attivamente ai movimenti giovanili cattolici, fino a quando vennero soppressi.

Eri a Berlino nella Notte dei Cristalli…
Certamente, e il ricordo ancor oggi mi turba. Nella primavera del 1938 mi iscrissi all’Università di Berlino, al corso di Filologia romanza. All’Università non si parlava di questioni politiche: avevamo un professore nazista convinto, ma che aveva il pregio di non dire neppure una parola di politica durante le lezioni. Mio padre voleva che prendessi la patente, perché lui non guidava: allora mi recai alla scuola guida in pieno centro. Arrivai alla scuola e trovai un’atmosfera tesa. Mi raccontarono che la notte precedente – passata alla storia come la Notte dei Cristalli – i tedeschi erano andati a sfondate le vetrine dei negozi degli ebrei per portar via le merci. Andammo allora in una delle strade principali di Berlino, piena di negozi tenuti da ebrei, e vedemmo i tedeschi dentro i negozi con le vetrine sfondate, che portavano fuori tutto quanto potevano prendere. Un’immagine veramente terribile. In lontananza si vedevano le fiamme delle Sinagoghe incendiate. La mia famiglia non aveva partecipato alla devastazione dei negozi ebrei e per questo fummo denunciati da un vicino che apparteneva alle SS: pochi giorni dopo mio padre venne arrestato dalla Gestapo. Per fortuna la sua società si impegnò perché fosse liberato. Il 25 agosto 1939 mio padre partì per Milano e il 1° settembre Hitler invase la Polonia. Il resto della famiglia dovette aspettare fino al marzo del 1940 per trasferirsi in Italia. Così ho vissuto due volte la dichiarazione di guerra: il 1° settembre a Berlino e poi a Milano, in piazza Cavour, dove udii con le mie orecchie le parole di Mussolini. Verso la fine degli anni Quaranta facemmo domanda per avere la cittadinanza italiana. Mio fratello Giorgio – che aveva frequentato gli universitari cattolici della Fuci – si rivolse ad Andreotti in ragione della comune appartenenza fucina. Si trattava di garantire per noi, ma Andreotti si rifiutò. Invece Giuseppe Lazzati, deputato al Parlamento, si recò appositamente a Roma garantendo per noi e facendoci così ottenere la cittadinanza italiana, condizione perché mio fratello, medico, e io potessimo lavorare.

Dopo il nazismo in Germania, a Milano hai trovato il fascismo…
Grazie a mio fratello conobbi don Andrea Ghetti, assistente della Fuci, e collaborai con l’Oscar, l’organizzazione che aiutava gli ebrei a sfuggire alla deportazione. Non eravamo affatto eroi, davamo una mano… Ho partecipato alla fondazione delle Guide, il ramo femminile dello scoutismo: il 5 maggio 1945 tenemmo la prima riunione e il 14 ottobre facemmo la promessa. A Milano iniziò anche la mia carriera accademica. Grazie al professor Franceschini ottenni l’insegnamento di lingua russa alla Cattolica. Ma lo confesso: non ero affatto preparata. In casa nostra si parlava il russo, ma dovetti studiare la lingua e la letteratura per poterle insegnare. Ho poi insegnato Letteratura russa a Torino e a Bari. Nel 1969, grazie al professor Branca, fui chiamata a far parte del Comitato tecnico promotore di quella che poi divenne l’Università di Bergamo. Dal 1968 fino alla fine della mia carriera ho insegnato in quella Università, guidando come preside la Facoltà di Lingue e letterature straniere e fondando un Istituto di Slavistica di cui qualche settimana fa abbiamo festeggiato i 40 anni.

Nella tua intensissima vita anche il dialogo ecumenico…
La mia famiglia era cattolica di rito latino. Io non sapevo nulla del mondo ortodosso. È stato lo studio di Pavel Florenski che mi ha svelato questo mondo e così, in questi ultimi anni, mi sono dedicata al dialogo con l’ortodossia, in particolare studiando il monachesimo femminile. Mi sono adoperata per far conoscere la figura di Mat Maria, una donna che, dopo turbolente vicende familiari, fece una scelta religiosa, trovando nel mondo e nei poveri il suo monastero. Per la sua attività a favore degli ebrei durante l’occupazione tedesca di Parigi, dove viveva, venne arrestata e deportata in un campo di sterminio, dove trovò la morte nella camera a gas.

Gli anni di pensionamento ti hanno vista impegnata su un fronte nuovo, nel carcere di Opera…
Grazie a Silvana Ceruti – che nel carcere di Opera aveva aperto un laboratorio di scrittura poetica -, sono stata invitata a parlare dei poeti russi ai detenuti. Così è iniziata la mia stabile collaborazione, da cui ho imparato molto: attraverso la scrittura poetica i detenuti cercano un appiglio, un varco. Uno di loro mi ha scritto: «Le ore che passiamo nel Laboratorio di poesia sono come una luce». E poi, questo lavoro nel carcere, nel profondo della mia vecchiaia, è stata per me una cosa nuova. Dico sempre: non bisogna guardare indietro, ma avanti.

 


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