Dossier sulle riflessioni critiche di Noi Siamo Chiesa e di altri sulla canonizzazione di Giovanni Paolo II
Considerazioni di Noi Siamo Chiesa sul pontificato di Giovanni Paolo II, 9 aprile 2005
Senza pretendere di dare un giudizio articolato e complessivo sul pontificato di Giovanni Paolo II, uno dei più lunghi della storia, ci limitiamo a valutare alcuni tra i più rilevanti aspetti della sua gestione, partendo dal rapporto di questo pontificato con il Vaticano II. Del resto, lo stesso Karol Wojtyla ha più volte affermato che l’attuazione del Concilio doveva essere l’aspetto caratterizzante del suo compito papale.
n Dialogo inter-religioso
L’indicazione conciliare, espressa soprattutto dalla dichiarazione Nostra aetate, ha avuto sotto Wojtyla sviluppi inattesi e importanti. Sul versante del dialogo con i non cristiani, rimangono nella memoria le giornate di preghiera per la pace, ad Assisi, convocate dal papa nel 1986 e nel 2002, presenti i rappresentanti delle maggiori religioni del mondo. Mai il papato aveva immaginato “vertici” del genere. Per quanto riguarda specificatamente gli ebrei, ricordiamo la sua visita alla sinagoga di Roma (1986) e al Muro del pianto di Gerusalemme (2000). E, per i musulmani, la visita in Marocco (1985), alla spianata delle moschee di Gerusalemme (2000) e alla moschea omayyade di Damasco (2001).
Spettacolare sul piano dei gesti il dialogo inter-religioso voluto da Wojtyla che ha mostrato, però, irrisolte contraddizioni sul piano teologico.Difficilmente la Chiesa di Roma poteva dialogare “alla pari” con altri mentre riteneva la propria religione obiettivamente superiore alle altre, essendo il papa “vicario di Cristo”, unico Salvatore del mondo. Nel 2000, la dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede Dominus Iesus, che riaffermava la centralità di Cristo e della Chiesa romana nel piano divino della salvezza, metteva a nudo questa contraddizione. E l’emarginazione, o la punizione, decisa da Roma, di Tissa Balasuriya o di Jacques Dupuis – teologi che avevano tentato nuove strade per impostare il rapporto Chiesa cattolica/Religioni non cristiane – ha dimostrato la difficoltà della Curia vaticana di saldare posizioni antinomiche.
n Dialogo ecumenico
Giovanni Paolo II ha affermato più volte che la vocazione ecumenica della Chiesa cattolica romana è «irrevocabile e irrinunciabile». Moltissimi sono stati i suoi incontri con leaders delle Chiese non cristiane. A livello teologico, in campo ecumenico si sono registrati progressi ma anche retromarce. Un progresso importante – ad esempio – è stata la dichiarazione comune cattolica-luterana (1999) sulla giustificazione, il problema che nel secolo XVI divise irrimediabilmente le Chiese in Occidente. Ma nessuna conseguenza ecclesiologica Wojtyla ha tratto da questo Accordo, e con durezza ha rifiutato la “ospitalità eucaristica” tra cattolici ed evangelici.
Il Giubileo del Duemila è stato gestito come se la fine del secondo millennio fosse questione esclusivamente di interesse del centro romano della Chiesa cattolica.
Al di là degli abbracci, non si è registrato alcun progresso con gli ortodossi, in particolare a causa del problema degli “uniati” (cattolici di rito orientale) – “ponte” di dialogo con gli ortodossi, per Roma; tentativo di distruggere l’Ortodossia, per gli ortodossi.
Dopo il 1989 non ha fatto che crescere la polemica tra Roma e Mosca anche a causa di talune imprese “missionarie” cattoliche di tipo proselitistico. Dolorosamente sorprendente, poi, in proposito, la decisione vaticana di elevare a diocesi le amministrazioni apostoliche della Russia, quando a Roma si sapeva che ciò avrebbe ferito la sensibilità del patriarca di Mosca Aleksij II e del Santo Sinodo. Il mancato viaggio del papa in Russia – molto desiderato dal papa slavo – è la prova evidente del fallimento su questo versante.
Nessun passo ha mai fatto Wojtyla per “perdere” la sovranità dello Stato della Città del Vaticano. Una “regalità” che obiettivamente impedisce alla Chiesa di Roma di dialogare alla pari con le altre Chiese. E che le permette di avere uno “status” giuridico – e dunque un peso politico – negato al Consiglio ecumenico delle Chiese, alle altre Chiese e alle altre religioni nel consesso delle Nazioni Unite.
n Unità senza diversità
Sullo sfondo di tali difficoltà vi è il problema, storico e teologico, del papato romano, che lo stesso Wojtyla ha ammesso essere di fatto il più pesante ostacolo alla riunificazione delle Chiese cristiane. Perciò nell’enciclica Ut unum sint (1995) il pontefice si è detto disposto a cambiare le “forme” storiche del papato, lasciando immutata la sostanza del servizio petrino.
In realtà da allora, come del resto era stato negli anni precedenti, le “forme” del papato sono rimaste immutate. Anzi, unanime è la sensazione che Wojtyla, e con lui la Curia, abbiano progressivamente assunto un potere esorbitante rispetto all’episcopato mondiale, ed abbiano attuato una centralizzazione ostinata e onnivora.
Un modo per facilitare un equilibrio tra “Chiesa universale” e “Chiese locali” sarebbe stato quello di dare attuazione concreta al principio della collegialità episcopale riaffermato dal Vaticano II. Ma anche in questo campo i segnali sono stati opposti a quelli del Concilio: i Sinodi dei vescovi, che avevano la funzione di coinvolgere i vescovi nella gestione della Chiesa, sono stati un mero esercizio comunicativo, senza alcun valore “deliberante”, e lasciando di fatto il potere di decisione tutto in mano al papa, e cioè alla Curia. Infatti l’agenda dei problemi, la selezione dei partecipanti, il metodo di lavoro delle commissioni, la segretezza degli incontri e le stesse conclusioni di ogni Assemblea sinodale esprimevano chiaramente un disegno autoritario, anche se mascherato da formule pseudodemocratiche.
Un pur comprensibile desiderio di dare una unità dottrinale alla Chiesa ha portato Giovanni Paolo II a scrivere encicliche, lettere apostoliche e documenti vari relativi a problemi biomedici o sociali; a emanare un voluminoso Catechismo per la Chiesa cattolica e un Codice di Diritto Canonico aventi un valore obbligante e indiscutibile per tutta la Chiesa, anche in assenza di un esplicito consenso dell’Episcopato. Molti di questi documenti sono stati oggetto di numerose e, spesso, clamorose critiche all’interno della Chiesa, in quanto troppo distanti dallo spirito del Vaticano II. L’assenso “assoluto” richiesto dalla Curia ha trasformato i vescovi in comunicatori degli insegnamenti del papa, di fatto unico Maestro. Al fine di assicurare una totale sincronizzazione interna, nel 1988 il papa ha imposto ai vescovi un giuramento di fedeltà che, mentre sottolineava il necessario vincolo di comunione di ogni vescovo con quello di Roma, nei fatti oscurava però l’autorità dei vescovi locali.
Più volte il papa ha sostenuto che «la Chiesa non è una democrazia». Gli episcopati dell’Austria, Germania, Olanda e Stati Uniti e di altri paesi, ogni volta che hanno intrapreso Sinodi e Assemblee ecclesiali su temi contesi (il celibato ecclesiastico, la donna-prete, i contraccettivi, l’omosessualità, il rapporto ministeri ecclesiali/comunità) sono stati pubblicamente redarguiti o invitati ad abbandonare problematiche considerate di esclusiva pertinenza pontificia.
La nomina dei vescovi è stata influenzata principalmente dal criterio dell’adesione dei candidati ai “desiderata” pontifici sui temi appena indicati. Per la prima volta nella storia della Chiesa romana si è verificato che la gran maggioranza dei suoi attuali 4000 vescovi siano stati scelti da un solo papa, quasi “clonati” a sua immagine e somiglianza.
Inoltre la Curia romana è intervenuta per controllare gli ordini religiosi non allineati (come il “commissariamento della Compagnia di Gesù” nel 1981).
n Esclusione delle nuove teologie
Sulla scia del dibattito a tutto campo favorito dal Vaticano II, nei diversi continenti sono germogliate, a partire dagli anni Settanta, esperienze pastorali e correnti teologiche estremamente innovative, come quella femminista, asiatica, africana, indigena, negra, ed ecologista. Nessuna di esse ha trovato accoglienza nei documenti o nei discorsi del papa. I cultori di tali dottrine non hanno mai trovato un posto nelle commissioni teologiche pontificie. Alcuni di loro sono stati pubblicamente condannati e costretti a ritrattazioni.
Per fronteggiare la libertà di ricerca invocata dai teologi e osteggiata dal papa, quest’ultimo ha provveduto a esigere da tutti i professori di teologia il seguente giuramento: ”Aderisco con religioso ossequio della volontà e dell’intelletto agli insegnamenti che il romano pontefice o il collegio episcopale propongono quando esercitano il loro magistero autentico, sebbene non intendano proclamarli con atto definitivo” (1988). E perciò ha proibito, ad esempio, ogni discussione che mettesse in dubbio il no papale all’ordinazione sacerdotale delle donne (1994).
Esperienze innovative hanno trovato raramente accoglienza nella Curia papale. Alcuni esempi: bocciati, tra l’altro, i tentativi di revisione delle traduzioni della Bibbia secondo il linguaggio inclusivo (USA); l’autonomia delle università cattoliche (USA); l’uso frequente della confessione comunitaria (Australia); la gestione dei consultori per l’aborto (Germania).
Più nota e sistematica è stata la tenace opposizione ingaggiata dal papato nei confronti della Teologia della Liberazione (TL). Nata nel continente latinoamericano, si era contraddistinta non tanto per i suoi contenuti biblici (in particolare l’Esodo), quanto per l’approccio sociologico-ermeneutico, dato che si considerava l’identificazione con i poveri come la conditio sine qua non per interpretare la Buona Notizia di Gesù e svolgere la missione evangelizzatrice. Il primato era posto nell’ortoprassi, non più nell’ortodossia. La TL ha subito una pubblica condanna tramite una Istruzione emessa dal Cardinal Ratzinger, praticamente copiata dalla rivista colombiana Tierra Nueva, fondata dal card. Trujillo. Accusati di ascendenze marxisto-comuniste, tutti i maggiori teologi della liberazione sono stati puniti in vario modo o emarginati. Vescovi, seminari, congregazioni religiose, movimenti ecclesiali con simpatie “liberazioniste” sono stati accuratamente indagati e/o rimossi. Salvo rare eccezioni, i vescovi latino-americani nominati da Wojtyla erano avversari della Teologia della liberazione.
Il Consiglio episcopale latinoamericano (Celam) – che a Medellin, Colombia (1968), nella sua seconda Conferenza generale, aveva assunto posizioni profetiche nella denuncia delle “strutture di peccato” che opprimevano il continente, e ammesso responsabilità della Chiesa per tale situazione – via via è stato “normalizzato” dal Vaticano, prima nella Conferenza di Puebla, Messico (1979), e soprattutto in quella di Santo Domingo (1992). Una “normalizzazione” che obiettivamente andava incontro ai desiderata del governo statunitense, timoroso degli sviluppi di una teologia contraria agli interessi di una potenza imperiale.
n Laicità
Wojtyla ha continuamente proclamato che la Chiesa nutre il massimo rispetto per le istituzioni civili e per l’autonomia dei governi e dei rappresentanti delle realtà secolari. Allo stesso tempo, forte del principio secondo cui – a suo parere – il mondo laico non può dire una parola autorevole in fatto di etica, e tanto meno fondare etiche responsabili, ha premuto perché le leggi statali sul divorzio e, in particolare, sull’interruzione della gravidanza, si adeguassero alle leggi ecclesiastiche, definendo “tirannici” quei parlamenti che avessero legalizzato l’aborto. Coerentemente ha insistito che nella Costituzione europea fossero esplicitamente citate le “radici cristiane” del Continente ed ha
spesso agito in modo che i rapporti Stato e Chiesa cattolica, fondati su Concordati o patti similari, garantissero non solo diritti legittimi ma anche privilegi in contraddizione con quanto affermato dal Concilio (Gaudium et Spes,76).
I laici cattolici, che nel Concilio Vaticano II avevano riacquisito la dignità di “popolo sacerdotale, profetico e regale”, sono stati degradati a “sudditi” nel Codice di Diritto Canonico emanato da Wojtyla (1983). Essi sono indegni di leggere il Vangelo e commentarlo nelle celebrazioni eucaristiche. Buoni, come diceva Yves Congar, per le tre P: “pregare, pagare, piegare”, inginocchiandosi davanti all’autorità gerarchica. Coerentemente il papa ha finito per privilegiare quei settori del laicato cattolico che hanno mostrato una assoluta sudditanza verso la sua Cattedra, mentre non ha mancato di far sentire la propria contrarietà verso quelli (Azione Cattolica, Comunità di base, associazioni biblico-teologico-missionarie) che in vario modo hanno rivendicato una propria autonomia. Lo stesso «Appello dal popolo di Dio» promosso dall’ IMWAC (International Movement We Are Church) nel 1995-‘96 sottoscritto da due milioni e mezzo di cattolici che chiedevano una riforma della Chiesa, è stato disapprovato.
E, sempre a proposito di proclamato rispetto per la dignità e indipendenza di ogni Stato, molti osservatori hanno denunciato il fatto che la Santa Sede, adducendo il principio della exstraterritorialità”, ha impedito alle competenti autorità italiane di accertare le responsabilità di mons. Paul Marcinkus, allora presidente dello Ior (la banca vaticana), nel clamoroso crack del Banco Ambrosiano (anni 80).
La donna
Per la prima volta nella storia, papa Wojtyla ha proceduto ad una parziale rilettura critica dei testi neotestamentari relativi alle donne, elogiando il “genio femminile” e dedicando ad esse una lettera apostolica sulla “dignità della donna” (Mulieris dignitatem, 1988). Il documento è stato osteggiato dalla maggioranza delle teologhe cattoliche e dei movimenti femministi, che hanno denunciato le gravi carenze teologiche, bibliche e antropologiche del testo e le sue contraddizioni. Del resto, come hanno rilevato le teologhe cattoliche, e come tutti hanno potuto constatare, l’intero organigramma ecclesiastico è rimasto, sotto Wojtyla, più che mai androcentrico. Tutti i posti-chiave della Curia romana sono rimasti saldamente in mano ai maschi. Negli anni 80 una originale e pluriennale esperienza di ascolto reciproco tra le cattoliche statunitensi e i rispettivi vescovi aveva cominciato a produrre una bozza di documento assai interessante ed aperto, ma la Curia papale interveniva per esigere che non si parlasse di «uguaglianza nella condivisione e responsabilità», ma di «complementarietà», che si esplicitasse la condanna della contraccezione e che si escludesse dalla discussione ogni riferimento al tema dell’ordinazione sacerdotale della donna. A causa di tale interferenza sia le donne che i vescovi nordamericani compresero che era inutile continuare il dialogo.
Del disagio delle donne si è fatta interprete, a nome di un milione circa di suore, l’Unione Internazionale Superiore generali (Uisg), che fece pervenire al Sinodo dei vescovi sulla vita religiosa un ferma sollecitazione “per porre fine alla dicotomia spesso marcata tra le dichiarazioni della Chiesa ufficiale circa la dignità della donna e la pratica attuale di discriminazione, nonché per includere più completamente le donne competenti nei processi di riflessione e nei ministeri ecclesiali, ivi comprese le posizioni chiave nei dicasteri della Curia” (1994). Questa saggia e rispettosa petizione non ha trovato alcun ascolto in Vaticano.
n La sessualità
Wojtyla ha ribadito con forza le normative papali esistenti in materia, dal “si” alla vita e alla “legge naturale”; al «no» alla contraccezione e al divieto alle nuove nozze in chiesa dei divorziati cattolici risposati/e, al «no» all’esercizio della sessualità nelle coppie di omosessuali, al «no» all’uso del preservativo in qualsiasi situazione, anche per prevenire il contagio dell’AIDS. Masturbazione e rapporti prematrimoniali sono stati considerati dal Catechismo del 1983 “peccati mortali”.
Su tutti questi punti Sinodi nazionali, vescovi, teologi e teologhe hanno espresso riserve di ogni ordine, anche perché la prassi pastorale dimostrava ogni giorno di più che le decisioni relative all’etica sessuale, anche di papi precedenti, erano contrarie al sensus fidelium. La conseguenza – rilevata dagli osservatori religiosi – è che tra il papa e la maggioranza dell’episcopato, del clero e dei fedeli si è prodotto il più profondo e silenzioso scisma della storia della Chiesa, con grave danno per lo stesso Magistero papale.
Analogo discorso vale per il rapporto clero-sessualità. Wojtyla ha respinto ogni ragionevole proposta di ridiscutere la fondatezza teologica e la validità pratica della legge del celibato obbligatorio per i preti della Chiesa latina, nonostante fosse noto che questi ultimi, in una percentuale alta – soprattutto in certe regioni – non osservavano il voto o la promessa del celibato. A fronte dell’esodo massiccio di sacerdoti negli ultimi 30 anni (80.000 circa hanno abbandonato il ministero), al crescente invecchiamento del clero e alla carenza di ministri consacrati nei paesi del terzo mondo, numerosi episcopati hanno ripetutamente chiesto al papa di consentire l’esercizio del ministero a ex preti, a uomini sposati, e persino a donne, specialmente religiose. Nessuna delle richieste è stata esaudita.
Tre scandali relativi alla vita sessuale del clero hanno scosso il pontificato di Wojtyla, andando sulle pagine e TV di tutto il mondo.
Il primo è venuto alla luce a seguito di documentate rivelazioni da parte di religiose, stanche di subire violenze sessuali, non esenti da ricatti, da parte di sacerdoti, soprattutto in Africa. Su questo problema nessun intervento significativo è stato fatto da Wojtyla.
Il secondo è scoppiato negli USA, attizzato dalle richieste di indennizzi miliardari da parte di migliaia di fedeli che erano stati violentati nella loro adolescenza da sacerdoti pedofili. Di fronte al clamore mediatico il papa si è visto obbligato a richiamare a Roma vescovi e cardinali nordamericani, alcuni dei quali sono finiti sotto inchiesta da parte della magistratura per aver deliberatamente coperto, nel corso di decenni, gli abusi sessuali compiuti da centinaia di ecclesiastici.
Il terzo scandalo ha fatto seguito al precedente: da anni si sapeva che molti appartenenti al clero erano persone omosessuali e che la struttura dei seminari costituiva un richiamo per esse. Questo problema, reale ma nascosto, è esploso alla luce del sole sotto il pontificato di Wojtyla. In tale contesto, nel 2002 la Congregazione per il culto divino ha emanato una normativa – giudicata “discriminatoria” dai gruppi di omosessuali cristiani – in cui si definisce “sconsigliabile”, “imprudente” e “rischiosa” l’ordinazione sacerdotale di omosessuali.
n Diritti umani
La figura di Giovanni Paolo II è indubbiamente associata alla difesa dei diritti della persona umana nelle varie dimensioni sociali, economiche e politiche. Sono assai numerose le occasioni in cui egli ha preso posizione nei confronti dei poveri, degli emigranti, dei soggetti sfruttati e mal pagati, soprattutto se bambini e donne, comunque sottoposti a leggi o governati che violavano la dignità umana.
Questi generosi appelli all’ottemperanza dei diritti fondamentali nella società non hanno trovato però corrispondenza all’interno della Chiesa romana, in cui vigono due opposti principi: uno valido ad extra, per cui la società secolare deve concedere alla Chiesa il diritto alla libertà religiosa; ed uno valido solo ad intra, per cui nella Chiesa “non si può fare appello a questi diritti dell’uomo per opporsi agli interventi del magistero” (Istruzione sulla vocazione del teologo, 1990).
Questa contraddizione spiega la situazione della Santa Sede, che si è venuta a trovare nell’imbarazzante primato negativo riservato ai paesi segnati da dittature, avendo sottoscritto solo 10 dei 103 accordi internazionali sui diritti umani (Human Rights Law Journal). In particolare il papato romano non ha ancora ratificato nessuna delle Convenzioni sulla soppressione delle discriminazioni basate sul sesso, la libertà d’insegnamento, il giusto processo. Contrario ai diritti umani è il meccanismo giudiziario, specialmente dell’ex Sant’Offizio, che non prevede né una netta distinzione tra giudice e accusatore, né una chiara e pubblica “lista delle accuse”, né una reale possibilità di appello.
La Santa Sede non ha mai acconsentito a eliminare dal proprio ordinamento canonico quella discriminazione, denunciata dal Concilio, che impedisce alle donne cattoliche di accedere a qualsiasi responsabilità direttiva nella Curia. Il Vaticano è peraltro restio a riconoscere i normali diritti “sindacali” ai propri lavoratori (sacerdoti o religiose), in caso di licenziamento o rimozione.
n I «mea culpa»Soprattutto nei suoi viaggi internazionali, Giovanni Paolo II ha espresso decine di «mea culpa» per comportamenti passati dei «figli della Chiesa»: le Crociate, l’antisemitismo, l’Inquisizione, le guerre di religione, l’invasione dell’America nel nome della «vera religione», le guerre in nome di Dio, lo schiavismo, l’oppressione di interi popoli.
Il 12 marzo 2000 Wojtyla, con cardinali ed alti dirigenti delle Curia romana, ha celebrato la “giornata del perdono”, con l’ammissione di sette «confessioni di colpe» commesse dai “figli della Chiesa”; nel servizio della verità; nei rapporti con Israele; nei comportamenti contro l’amore, la pace, i diritti dei popoli, il rispetto delle culture e delle religioni; in atti che hanno ferito la dignità della donna e l’unità del genere umano; con peccati nel campo dei diritti fondamentali della persona.
Questo gesto non ha portato però l’intera Chiesa romana ad interrogarsi sulle ragioni di fondo di quei peccati che si sono protratti per secoli, senza che teologi, vescovi e papi li avessero riconosciuti come contrari sia ai diritti fondamentali della persona umana che al Vangelo.
Seppur contraddittorio il “mea culpa” di Wojtyla ha comunque sollecitato anche episcopati nazionali ad intraprendere la stessa strada.
n Santi e Beati
Desideroso di dare visibilità alla santità della Chiesa cattolica, macchiata da scandali, contraddizioni e lacerazioni, Wojtyla ha provveduto a proclamare più santi e beati (circa 1800) di quelli fatti nell’insieme da tutti i papi degli ultimi quattro secoli.
Tale politica “inflazionistica” ha lasciato perplessi molti, cattolici e non, data la procedura segreta, costosa e teologicamente ambigua del riconoscimento stesso della santità, quasi sempre legata ad uno stato non matrimoniale. In altri casi l’ambiguità è stata del tutto evidente, come quando il 3 settembre 2000 Giovanni Paolo II ha voluto beatificare insieme due papi, Pio IX e Giovanni XXIII: l’uno che definì “deliramento” il principio della libertà religiosa e l’altro che volle un Concilio perché proclamasse anche questo intangibile principio. Pio IX aveva poi oggettivamente sostenuto quelle violenze contro gli ebrei di cui pure Wojtyla aveva chiesto perdono solamente sei mesi prima.
Molti cattolici hanno criticato il papa per aver egli beatificato e canonizzato a tempo di record Josemaria Escrivá de Balaguer (morto nel 1975), fondatore dell’Opus Dei, istituzione ricca, potente e per molti aspetti segreta, e sostenitore del regime franchista; mentre nel contempo ha lasciato nel cassetto la causa di beatificazione di mons. Oscar Arnulfo Romero, l’arcivescovo di San Salvador, accanito difensore dei poveri e martire della giustizia, assassinato da una dittatura militare (1980).
Anche l’eccessiva enfasi posta da Wojtyla sul culto mariano, ha spesso incoraggiato – al di là delle intenzioni – gli aspetti meno evangelici della religiosità popolare e creato difficoltà nel cammino ecumenico.
n I viaggi
Papa Wojtyla ha compiuto 102 viaggi internazionali, toccando tutti i continenti. Questi viaggi hanno messo in evidenza, in modo paradigmatico, la sua audacia nel proporre il messaggio evangelico anche in paesi non cattolici e nell’affrontare grandi fatiche, soprattutto con il progredire dell’età e di vari malanni fisici. Ha certamente avuto modo di verificare e denunciare spesso l’entità della miseria e dell’ingiustizia di fronte a masse di poveri costretti a vivere in immense baraccopoli e senza servizi essenziali.
E tuttavia tali viaggi sono stati oggetto di malumori e critiche all’interno della Chiesa cattolica per molte ragioni: mentre il papa enfatizzava il suo ruolo di pellegrino in visita ad una comunità, di fatto era ricevuto (perché tale era) come capo di stato, con i dovuti onori militari. Il costo delle manifestazioni di massa ricadeva sulla Chiesa locale, o su ambigue collaborazioni con multinazionali. Il tempo e le occasioni per conoscere la realtà della Chiesa locale e per interloquire con i fedeli era ridotto praticamente a zero. Capi di stato hanno fatto a gara per averlo al loro fianco e apparire come devoti fedeli davanti ai propri concittadini, non sempre entusiasti per tale complicità. Scandalosa, in particolare, è apparsa l’intesa sorridente tra il papa e il generale golpista e assassino Augusto Pinochet dal balcone del palazzo presidenziale di Santiago del Cile (1987).
n I media
Wojtyla ha compreso l’importanza dei media per imporsi all’attenzione del mondo e diventare una specie di “star” internazionale. E’ innegabile che attraverso l’uso dei media, in particolare della TV, di facile comprensione per i settori meno istruiti, Giovanni Paolo II ha avuto la possibilità di sottolineare con forza valori universali, diffondere la Buona Novella e introdurre tante persone alla solennità di celebrazioni liturgiche, anche di massa.
Tuttavia, nel privilegiare l’uso quasi quotidiano della TV per ogni tipo di udienza, messe, rosari, pellegrinaggi, viaggi, incontri con capi di governo e diplomatici, non poteva non cadere nelle trappole strutturali dello star system, che ha un legame indissolubile, anche di tipo mercantile, con l’intrattenimento, non con l’evangelizzazione e la cultura. In sostanza il papa, affidandosi alla TV, non ha potuto evitare che la sua apparizione scivolasse nello “spettacolo”, finalizzato alla seduzione e all’applauso, non alla riflessione o al discernimento. Se lo “show” per sua natura illude e crea una realtà virtuale e affascinante, anche lo spettacolo di moltitudini oranti o plaudenti finiva per diventare ingannevole, dando la sensazione illusoria che la Chiesa cattolica resisteva e superava la crisi imposta dalla secolarizzazione dominante.
Di conseguenza non meraviglia che nelle immagini televisive relative a Wojtyla, che quasi quotidianamente le emittenti di tutto il mondo hanno diffuso, siano scomparsi quasi completamente gli altri soggetti ecclesiali. Per 25 anni il papa “ha rubato la scena”, con vescovi e cardinali nel ruolo muto di semplici “comparse”. A miliardi di persone, di fatto, il papa ha mandato un messaggio sub-liminàle così sintetizzabile: io sono la Chiesa e la Chiesa è nulla senza di me.
Se lo star system ha favorito la papolatria, il suo rovescio è stato l’oscuramento del resto della Chiesa cattolica.
n Giustizia
Gli ammonimenti papali in difesa di poveri, emarginati, bambini ridotti in schiavitù, donne discriminate, anziani abbandonati potrebbero formare una enciclopedia. Giovanni Paolo II ha parlato contro una globalizzazione in atto, considerata “una forma di colonialismo” ed ha chiesto un “sussulto di moralità di fronte ai drammatici problemi economici, sanitari, sociali”. Ha definito “strutture di peccato” il libero mercato e la globalizzazione selvaggia. Ha invitato tutti a non rassegnarsi “a un mondo in cui altri esseri muoiono di fame, restano analfabeti, mancano di lavoro”. A Santo Domingo ha invitato l’assemblea dei vescovi latinoamericani a “rinnovare la scelta preferenziale dei poveri” e ad “evitare qualsiasi connivenza con i responsabili delle cause della povertà” (1992).
Mentre il papa parlava in tal modo, le statistiche indicavano impietosamente che i ricchi diventavano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri; che le 15 più grandi imprese avevano un reddito lordo che superava il PIL di 120 paesi; che il 75% della popolazione mondiale utilizzava solo il 15% dei farmaci (l’Africa appena l’1%); che ogni vacca europea godeva di un sussidio statale di 2 euro al giorno, pari alla somma con cui quotidianamente viveva ogni persona della massa dei due miliardi di poveri della popolazione mondiale.
Se negli ultimi due decenni l’ingiustizia planetaria ha assunto un tono quasi tragico; se 86 paesi, nel 1996, stavano peggio di 10 anni prima, ciò ovviamente non poteva essere attribuito al papato romano, predicatore della giustizia. Resta il fatto che milioni di baraccati, di assetati, di affamati, di malati, di disoccupati non hanno trovato nel papa romano un referente da cui partissero – come era accaduto per questioni come l’aborto o il controllo demografico (Conferenze del Cairo e di Pechino) – concrete campagne religiose, seri interventi diplomatici, severe ammonizioni ai politici, tenaci pressioni sui vescovi, per analizzare le cause e ad impostare terapie atte a contenere l’ingiustizia devastante.
Poveri e animatori di organizzazioni sociali si sono chiesti come mai i telegiornali riferissero delle udienze che il papa riservava a capi di stato, campioni dello sport, ricchi epuloni; mostrando ben raramente il pontefice seduto attorno ad un tavolo con dirigenti delle organizzazioni contadine, con i sindacati di multinazionali schiaviste, con le vittime della repressione politica. Né il papa ha mai partecipato, e neanche ha mai espressamente incoraggiato i “forum” sociali mondiali o continentali nei quali, dal 2000 in poi, centinaia di migliaia di persone di buona volontà si sono incontrati pacificamente, convinti che “un altro mondo è possibile”.
n Pace e ordine internazionale
Wojtyla ha predicato instancabilmente la pace ed ha sempre difeso il ruolo insostituibile dell’Onu e la sua funzione “mediatrice” per risolvere con la diplomazia e la trattativa, evitando la guerra, eventuali conflitti tra nazioni. Egli ha certamente favorito la caduta incruenta e pacifica del comunismo nei paesi est-europei attraverso vari viaggi “missionari” nella nativa Polonia e aiutando, moralmente ed economicamente, il sindacato polacco Solidarnosc (anche attraverso finanziamenti concordati con il presidente USA, Ronald Reagan).
Negli anni Novanta la Santa Sede ha favorito la dissoluzione della ex Jugoslavia, approvando con straordinaria rapidità l’autoproclamazione d’indipendenza della Slovenia e della Croazia (1992), ma sottovalutando i rischi che i nazionalismi avrebbero innescato nei Balcani dopo lo sgretolamento selvaggio della Jugoslavia.
La voce di Wojtyla si è levata con puntualità e passione in occasione delle numerose guerre che hanno devastato diverse aree del globo, invocando talora – come nel Kosovo – l’intervento militare umanitario per superare i conflitti più intricati.
Inflessibile è stato il “no” di Wojtyla alle iniziative di guerra senza l’avallo ONU, come nel caso della guerra in Iraq (2003), quando contestò la legittimità morale della «guerra preventiva» anglo-americana. Nel marzo-aprile del 2003 – prima, e durante la guerra di George W. Bush contro l’Iraq – le parole di denuncia del papa hanno dato speranza a molti e molte impegnati per la pace.
Molto problematica risulta la valutazione dell’operato papale relativo al nuovo assetto conseguente alla caduta dell’impero sovietico, da lui patrocinata, senza che esistessero le premesse per un nuovo ordine internazionale libero da potenze dominanti. La politica papale, di fatto, e malgrado esplicite affermazioni verbali in contrario, ha lasciato campo libero all’egemonia statunitense in ogni settore, apparendo dunque in “contiguità di interessi” con i poteri forti legati alla Casa Bianca, e perciò con l’impero. Di fronte all’avanzata inarrestabile del capitalismo Wojtyla si è limitato a condannare gli “eccessi” di questo sistema, ma non la loro “radice”, senza impegnare adeguatamente la comunità cattolica nella riduzione delle abissali diseguaglianze sociali, soprattutto tra Nord/Sud, nel contenimento della violenza e nella salvaguardia del creato.
In questa obiettiva “convergenza” vi sono state delle variazioni importanti: il papa ha censurato espressamente le leggi relative alla contraccezione e all’aborto, varate dal governo americano del “progressista” Bill Clinton, ma ha evitato di condannare con la stessa chiarezza quello “conservatore” di George W. Bush, nonostante questi abbia dichiarato di voler “agire senza l’accordo di organismi internazionali”, e di considerare come propria missione quella di “liberare il mondo dal male” e “la guerra non come un pericolo ma come una opportunità per portare ovunque la libertà, il diritto e la giustizia”.
Seppure qualche volta Wojtyla ha levato la voce contro la “corsa agli armamenti”, questa protesta in realtà è stata flebile e non è mai giunta ad una opposizione esplicita del complesso finanziario-industrial-militare, la cui enorme potenza impedisce di giungere ad un nuovo ordine mondiale senza eserciti “nazionali”, e, conseguentemente, di dirottare le risorse finanziarie verso i bisogni primari di miliardi di indigenti.
Un papato più “di parte” che “d’insieme”
Pur consapevoli delle difficoltà di un giudizio globale in tempi così ravvicinati, la somma dei fatti e degli scritti di Giovanni Paolo II ci inducono, comunque, ad affermare che il suo pontificato sia stato più “romano” che “cattolico”.
A noi sembra infatti che, al di là delle virtù personali e della retta intenzione, la tendenza complessiva del magistero e dell’azione di papa Wojtyla sia stata quella di privilegiare “la parte” piuttosto che “l’insieme”.
La filosofia e la teologia di Giovanni Paolo II si sono saldamente basate sulla sua tradizione polacca (una “parte” degna di tutto rispetto), ma non hanno potuto integrare “l’insieme” delle correnti innovative: di qui il conflitto con il pensiero laico, le religioni non cristiane, le Chiese non cattoliche e le teologie non tradizionaliste.
Sul piano etico il papa ha posto l’accento sull’importanza della legge naturale, sottovalutando, però, il fatto che ogni giudizio etico non può prescindere né dalla storicizzazione di tale “legge”, che per molti aspetti è legata alle cangianti culture dei popoli, né dal giudizio ultimo della coscienza personale.
In politica Wojtyla è stato fiero avversario del comunismo e, in parte, del capitalismo. Ma questo sforzo di “equilibrio” non ha retto alla prova dei fatti perché, caduto l’impero sovietico, “l’insieme” mondiale si è sbilanciato completamente verso “la parte” capitalista – altrettanto inumana ed atea – a tal punto che la Casa Bianca ha deciso di iniziare una guerra “infinita” senza chiedere il permesso a nessuno.
Ma dove risulta ancor più macroscopico l’accecamento per “la parte” a detrimento de “l’insieme” è nella gestione ecclesiale: qui è risultata pressoché assente l’integrazione tra il centralismo papale e la collegialità episcopale; tra Gerarchia e popolo di Dio; tra la ricchezza celibataria e quella matrimoniale; tra la specificità maschile e quella femminile.
Anche leader religiosi non cattolici e molte persone nel mondo riconoscono in Giovanni Paolo II il rappresentante di una religione ammirevole per molti aspetti, ma che si è presentata nei fatti più esclusiva che inclusiva, più monarchica che democratica, più occidentale che universale, più romana che cattolica.
Noi Siamo Chiesa- Italia
(aderente all’International Movement We Are Church-IMWAC)
Roma, 9 aprile 2005
“Noi Siamo Chiesa”
Internet : www.we-are-church.org/it
Email :vi.bel@iol.it
Tel. 0039022664753
Cell. 3331309765
La beatificazione di Giovanni Paolo II: appello alla chiarezza.
Per l’Ufficio di postulazione della causa, Vicariato di Roma
L’apertura ufficiale, il 28 giugno 2005, della causa di beatificazione di Giovanni Paolo II, sollecita tutti i cattolici, uomini e donne, che si sentono partecipi e responsabili della vita della loro Chiesa, ad inviare le loro testimonianze sulle opere del Romano pontefice scomparso il 2 aprile.
Come è stato correttamente annunziato, possono essere inviate, all’ufficio competente del Vicariato di Roma, sia testimonianze a favore che testimonianze contrarie alla glorificazione di Karol Wojtyla, purché tutte siano fondate su dati obiettivi.
Tenendo peraltro conto della sovraesposizione mediatica che si è verificata, non sempre per motivi spirituali, durante gli ultimi giorni della malattia del papa e in occasione del suo decesso, ci sembra opportuno proporre dei riferimenti a quelle donne e uomini cattolici che – senza voler ignorare naturalmente gli aspetti positivi del suo pontificato, come l’impegno per la pace o il tentativo di ammettere le colpe storiche dei figli e figlie della Chiesa nel passato; senza negare aspetti virtuosi della sua persona; e senza volerne giudicare l’intima coscienza – danno però una valutazione per molti aspetti negativa del suo operato come papa. Perciò, con questo appello invitiamo tali persone a superare la ritrosia e la timidezza, e ad esprimere formalmente, con libertà evangelica, fatti che, secondo le loro conoscenze e i loro convincimenti, dovrebbero essere d’ostacolo alla beatificazione.
Le/i firmatari del presente appello ritengono che, rispetto al pontificato di Giovanni Paolo II, si debbano criticamente valutare, in particolare, i seguenti punti:
1° – La repressione e l’emarginazione esercitate su teologi, teologhe, religiose e religiosi, mediante interventi autoritari della Congregazione per la dottrina della fede.
2° – La tenace opposizione a riconsiderare – alla luce dell’Evangelo, delle scienze e della storia – alcune normative di etica sessuale che, durante un pontificato di oltre 26 anni, hanno manifestato tutta la loro contraddittorietà, limitatezza e insostenibilità.
3° – La dura riconferma della disciplina del celibato ecclesiastico obbligatorio nella Chiesa latina, ignorando il diffondersi del concubinato fra il clero di molte regioni e celando, fino a che non è esplosa pubblicamente, la devastante piaga dell’abuso di ecclesiastici su minori.
4° – Il mancato controllo su manovre torbide compiute in campo finanziario da istituzioni della Santa Sede, e l’impedimento a che le Autorità italiane potessero fare piena luce sulle oscure implicazioni dell’Istituto per le opere di Religione (Ior, la banca vaticana) con il crack del Banco Ambrosiano.
5° – La riaffermata indisponibilità del pontefice, e della Curia da lui guidata, ad aprire un serio e reale dibattito sulla condizione della donna nella Chiesa cattolica romana.
6° – Il rinvio continuo dell’attuazione dei princìpi di collegialità nel governo della Chiesa romana, pur così solennemente enunciati dal Concilio Vaticano II.
7° – L’isolamento ecclesiale e fattuale in cui la diplomazia pontificia e la Santa Sede hanno tenuto mons. Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador, e l’improvvida politica di debolezza verso governi – dal Salvador all’Argentina, dal Guatemala al Cile – che in America latina hanno perseguitato, emarginato e fatto morire laici, uomini e donne, religiose e religiosi, sacerdoti e vescovi che coraggiosamente denunciavano le «strutture di peccato» dei regimi politici dominanti e dei poteri economici loro alleati.
Con spirito ecclesiale,
Jaume Botey, teologo e storico, Barcellona; José María Castillo, teologo, San Salvador; Giancarla Codrignani, saggista, Bologna; Rosa Cursach, teologa, Palma de Mallorca; Casiano Floristán, teologo, Salamanca; Giovanni Franzoni, teologo, Roma; Filippo Gentiloni, giornalista e scrittore, Roma; Giulio Girardi, teologo, Roma; Martha Heizer, teologa, Innsbruck; Casimir Martí, teologo e storico, Barcellona; Ramon Maria Nogués, teologo, Barcellona; José Ramos Regidor, teologo, Roma; Juan José Tamayo, teologo, Madrid, Adriana Zarri, teologa, Ivrea, Vittorio Bellavite (per “Noi Siamo Chiesa”) Roma.
Roma, 6 dicembre 2006
Deposizione di Giovanni Franzoni nella causa di
beatificazione di Giovanni Paolo II davanti al Vicariato di Roma
L’apertura ufficiale, il 28 giugno 2005, della causa di beatificazione di Giovanni Paolo II, ha sollecitato tutti i cattolici, uomini e donne, che si sentono partecipi e responsabili della vita della loro Chiesa, ad inviare le loro testimonianze sulle opere del romano pontefice scomparso il 2 aprile precedente.
Come era stato correttamente annunziato, potevano essere inviate, all’ufficio competente del Vicariato di Roma, sia testimonianze a favore che testimonianze contrarie alla glorificazione di Karol Wojtyla, purché tutte fondate su dati obiettivi.
Valutando, in tutta scienza e coscienza, il pontificato di Giovanni Paolo II, un gruppo di cattolici (teologi, teologhe, storici), al quale mi sono unito, ritenne che le dichiarazioni pubbliche sul pontefice scomparso, e le iniziative suscitate per favorire la sua causa di beatificazione, fossero spesso caratterizzate da una valutazione superficiale ed acritica del suo operato. E perciò, nel rispetto – ovviamente – di altri e differenti pareri, lo stesso gruppo a dicembre 2005 pubblicò un appello, confermato e firmato anche da altri esattamente un anno dopo e quindi inviato al Vicariato di Roma, nel quale metteva brevemente in luce quelli che, a parere dei sottoscrittori, erano dei pesanti limiti del pontificato. Limiti così grandi da ostare alla beatificazione.
Quell’Appello [due paginette!: cf. Adista n.? del???] si limitava ad indicare alcuni punti critici del pontificato. I firmatari, comunque, confidavano, e confidano, che l’apposito Tribunale del Vicariato approfondirà adeguatamente le piste segnalate per fare maggior chiarezza.
E’ naturale che, un pontificato durato quasi 27 anni, sia carico di eventi, variamente valutabili. Se, in quell’Appello, erano sottolineati quelli, a giudizio dei firmatari, “negativi”, non si presumeva certo, con questo, ignorare gli aspetti “positivi” del pontificato, e perciò, en passant, si ricordava in particolare l’impegno di Wojtyla contro la guerra.
Nello stesso spirito dell’Appello, e lasciandolo sullo sfondo, in questa deposizione, e come testimonianza personale, vorrei precisare le ragioni delle mie fondate riserve alla beatificazione di papa Wojtyla, il che naturalmente non mi fa dimenticare gli aspetti a mio parere luminosi dell’azione del pontefice (ad esempio, già a suo tempo lo lodai con una lettera pubblica per il suo impegno contro la guerra in Iraq nel 2003).
Ho detto “papa Wojtyla”: la mia attenzione, dunque, è rivolta unicamente e solamente a come questa persona ha vissuto il suo pontificato, e in essa ha operato. Nulla io so, direttamente, della sua vita precedente in Polonia, e su di essa nessun giudizio posso esprimere. Parlo, dunque, del pontefice eletto il 16 ottobre 1978, e deceduto il 2 aprile 2005.
Sempre in rapporto alla beatificazione, questa, a mio parere, è la questione previa che si pone: è possibile, in un papa, distinguere la persona dal suo ruolo, le virtù private dalle decisioni pubbliche?
E’ bene evidente che su questa terra nessuno può giudicare la coscienza dell’altro; solo il Signore può farlo. Dunque, sotto questo aspetto, nulla io avrei da dire su Giovanni Paolo II. Se intervengo è perché mi domando se alcune sue scelte – così come valutabili dall’esterno – siano state una trasparente e cristallina testimonianza di quello spirito evangelico, e di quelle virtù cardinali (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza) che debbono rifulgere in grado altissimo in un “candidato” alla gloria del Bernini.
+ Il caso Ior-Banco Ambrosiano
Sul pontificato di Giovanni Paolo II incombe un’ombra nera che, a mio parere, mostra come quel pontefice violò gravemente le virtù della prudenza e della fortezza: mi riferisco a come egli gestì la vicenda dell’Istituto per le opere di religione (Ior) in connessione con il crack del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Non è, questo, il luogo per esaminare in lungo e in largo la complessa vicenda; mi limito a rilevare che giudici italiani erano giunti alla conclusione che mons. Paul Marcinkus, presidente dello Ior, aveva avuto gravissime responsabilità per il crack dell’Ambrosiano e, dunque, dalla Città del Vaticano doveva essere estradato in Italia per essere arrestato e interrogato. Del resto, questa era anche la possibilità, per lui, di dimostrare limpidamente la sua innocenza e l’infondatezza delle accuse addebitategli.
La linea difensiva della Santa Sede, in tale vicenda, non fu quella di accertare se le accuse a Marcinkus fossero fondate, ma solamente quella di respingere, in quanto a suo parere contrastanti con i Patti Lateranensi, le richieste della magistratura italiana, perché queste avrebbero interferito in un àmbito, e in uno Stato (Vaticano) in cui l’Italia non poteva entrare. In effetti, dopo una lunga schermaglia giuridica e diplomatica, la stessa Corte di Cassazione nel luglio 1987 diede ragione alle tesi vaticane.
Senza entrare in questioni giuridiche, la domanda da porsi è la seguente: Giovanni Paolo II favorì l’accertamento della verità sul caso Ior? La risposta, mi pare, è negativa. Infatti, il papa decise, o lasciò che decidessero, di impedire, con pretesti giuridici, l’accertamento della verità. Infatti, ammesso e non concesso che i giudici italiani non avessero titolo a chiedere l’estradizione di Marcinkus, nessun processo pubblico si è tenuto nella Città del Vaticano per accertare i fatti. Wojtyla diede allora, e offre anche oggi, motivi fondatissimi per dubitare dell’innocenza di Marcinkus e, anche, della trasparenza della gestione economica della Santa Sede.
Pochi mesi dopo i fatti sopra citati (l’appello ai Patti lateranensi per evitare l’estradizione di mons. Marcinkus), Wojtyla, il 26 novembre 1982, così affermava alla conclusione di una plenaria del Collegio cardinalizio che aveva discusso anche dello Ior: “Desidero poi ringraziarvi in modo particolare per l’attenzione che avete dato alla questione dell’Istituto per le Opere di Religione. Una riunione di 15 Cardinali, com’è noto, ha previamente studiato la cosa prima che il Collegio Cardinalizio si radunasse qui, in questi giorni. Si tratta di questione delicata, complessa, che è stata soppesata in tutti i particolari: voi ne avete avuto una esposizione adeguata, e avete potuto rendervene conto per quei suggerimenti che siano necessari. La Santa Sede è disposta a compiere ancora tutti i passi che siano richiesti per un’intesa da entrambe le parti perché sia posta in luce l’intera verità. Anche in questo, essa vuole solo servire la causa dell’amore”.
Mai parole tanto impegnative (quelle che ho segnato in corsivo) sono state altrettanto contraddette: infatti, pubblicamente, nulla ha fatto Wojtyla per fare accertare la verità. E’ vero, ha poi riformato lo Ior e allontanato Marcinkus: ma la verità sui rapporti tra il prelato e Calvi, e il crack dell’Ambrosiano, non si è potuta sapere, da parte vaticana. E il fatto che la Santa Sede, pur dicendosi estranea al crack dell’Ambrosiano, abbia dato, a titolo di buona volontà, un sostanzioso contributo per aiutare chi da quel crack aveva subito ingenti danni economici, non risolve affatto, ma rende più aspro, il problema di fondo.
Beatificare un papa che, su tema tanto scottante, non ha fatto luce, mi sembrerebbe assai grave. L’impressione – dall’esterno – che molti hanno è che, al dunque, Wojtyla abbia sacrificato l’accertamento della verità per non compromettere l’istituzione ecclesiastica che avrebbe subito danni rilevantissimi se il mondo intero avesse scoperto trame incredibili e imbrogli economici inimmaginabili. Per non parlare dello sbigottimento di milioni di semplici fedeli cattolici nel mondo intero.
Dal punto di vista religioso, a me pare che, nel caso citato, Wojtyla sia venuto meno, in modo obiettivamente gravissimo, alle virtù della prudenza e della fortezza: la prudenza che avrebbe dovuto imporgli, come capo della Chiesa cattolica romana, di salvaguardare il buon nome di tale Chiesa, e dunque di fare ogni cosa per accertare la verità; la fortezza, che avrebbe dovuto spingerlo ad opporsi alle prevedibili resistenze dell’apparato ecclesiastico della Curia romana restìa a “scoprire gli altarini”. Quali che siano state le motivazioni soggettive per cui il papa agì come agì (motivazioni che io non so), il risultato pubblico di tale decisione è aver obiettivamente impedito l’accertamento della verità. Come persona il papa forse non ha fatto nulla di male o, soggettivamente, ha creduto di non farlo; ma come pontefice ha compiuto un gesto gravido di conseguenze.
+ La beatificazione di Pio IX
Quando, a fine 1999, fu annunciato che, di lì a pochi mesi (sarebbe effettivamente accaduto il 3 settembre del 2000), il papa avrebbe beatificato insieme Pio IX e Giovanni XXIII, da molte parti emersero fortissime perplessità. Perché? Non solo per l’”abbinamento” voluto da Wojtyla – dall’evidente significato di accontentare, da una parte, i “tradizionalisti”, e, dall’altra, i “progressisti” – ma per due motivi ben precisi, legati alla pena di morte e alla vicenda di Edgardo Mortara.
Mastai Ferretti, come re dello Stato pontificio, aveva rifiutato la grazia a due patrioti, Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, che avevano compiuto un attentato, e nel 1868 i due, a Roma, erano stati messi a morte.
Protetto da Pio IX, l’inquisitore di Bologna nel 1858 aveva fatto rapire alla famiglia Mortara – un’illustre famiglia ebraica – il piccolo Edgardo in quanto nascostamente battezzato da una domestica. Perché il piccolo, ormai cristiano, fosse educato nella “vera religione”, era inevitabile – secondo Pio IX – che esso fosse sottratto con la forza alla famiglia di origine: “I diritti del Padre celeste vengono prima di quelli del padre terreno”, sostenne sempre il pontefice per giustificare la sua decisione.
Mi si chiederà che cosa c’entri tutto questo con Wojtyla. C’entra, invece. In questione non è infatti l’intima coscienza di Pio IX, che fece le sue scelte – nel suo contesto storico e culturale – ritenendo di fare il meglio possibile. In questione è il fatto che un “beato”, molti anni o anche secoli dopo la sua morte, e dunque in un altro contesto storico, culturale ed ecclesiale, viene proposto a tutti i fedeli come esempio da imitare.
Ora, all’alba del Duemila, e quattro decenni dopo il Concilio Vaticano II, all’interno della Chiesa cattolica romana si era enormemente accresciuta la sensibilità (pastorale e teologica) su due temi: la pena di morte e il rapporto Chiesa/popolo d’Israele. Perciò, elevare agli onori degli altari un papa che aveva permesso esecuzioni capitali, e aveva fatto rapire un bambino ebreo battezzato era una provocazione impressionante. Infatti, la domanda non era, e non è, se Pio IX fosse in buona fede (lo diamo per accertato), ma quale significato assumesse oggi proclamare beato un papa che fece l’opposto di quanto oggi i buoni cattolici pensano.
Dopo i gesti coraggiosi (basti citare la sua visita alla grande Sinagoga di Roma, del 1986, e al Muro del pianto di Gerusalemme, nel marzo del 2000) da lui compiuti verso il popolo ebraico, l’annunciata beatificazione di Pio IX appariva contraddittoria ed incomprensibile.
In effetti, nei mesi precedenti l’annunciata beatificazione, personalmente ebbi modo di constatare l’amarezza e lo sconcerto della comunità ebraica romana per la decisione di Wojtyla. E analoghi furono i sentimenti in molti cattolici.
Non essendoci nessuna ragione cogente che obbligasse il papa a beatificare Pio IX, è necessario domandarsi perché egli così decise. La mia forte impressione è che, in realtà, Wojtyla volesse proclamare l’inattaccabilità e la supremazia del pontificato romano. E cioè: esaltare Pio IX, a prescindere dalle sue contraddizioni, era un passo necessario per esaltare l’istituzione ecclesiastica. A costo di smentire, indirettamente, il “nuovo corso” avviato dal Vaticano II.
Mi domando se, in questo caso, Wojtyla abbia osservato le virtù della prudenza e della temperanza (l’invito ad avere, nell’agire, il senso della misura).
+ I diritti umani violati
Il pontificato di Giovanni Paolo II è costellato di decisioni sue, o di organi ufficiali della Curia romana (in particolare della Congregazione per la dottrina della fede), che in sostanza hanno in vario modo punito la libertà di ricerca teologica: teologi, teologhe, studiosi non “in linea” sono stati allontanati dalle loro cattedre, o impediti di proseguire le loro ricerche. Non voglio qui fare il lungo elenco dei castigati: mi permetto di rinviare alla lista, non esaustivo, compilata dall’agenzia Adista [numero ?? del ??].
Nella maggior parte dei casi le procedure adottate da Roma per punire gli indiziati non soddisfano lo standard che nei Paesi occidentali si esige perché un processo sia considerato giusto, e comunque i provvedimenti punitivi non hanno dato all’imputato il modo di difendersi adeguatamente.
Questa situazione è particolarmente stridente in un papa che è andato pellegrino in tutto il mondo a proclamare le esigenze della giustizia e l’intangibilità dei diritti umani.
Eppure, la ricerca della giustizia – nella Chiesa, anzitutto! – è, appunto, una delle virtù cardinali che dovrebbero rifulgere in un “beato”. Tanto più se papa.
Aggiungo che, di norma, Wojtyla non volle mai ricevere pubblicamente in udienza i “dissenzienti” (ma, un “padre”, non dovrebbe infine avere un dialogo a quattr’occhi con il figlio che, a suo parere, sbaglia?), o compiere verso di essi un gesto di amicizia. Un tale atteggiamento era il corollario inevitabile dell’intransigente “difesa della verità”? Non necessariamente; e a smentire Giovanni Paolo II è stato lo stesso suo successore che, pochi mesi dopo la sua elezione, ricevette in udienza Hans Küng.
Quale che sia stato l’intimo convincimento della persona Wojtyla, è un fatto che le scelte del papa Wojtyla hanno mostrato alla Chiesa un comportamento che indicava come “nemici” quanti e quante avessero opinioni teologiche diverse dalle sue.
D’altra parte, la storia della Chiesa e delle Chiese dimostra che condanne affrettate hanno soffocato idee che, con il passare del tempo, si sono invece rivelate più giuste di quelle ufficiali. Anche per questo, mi pare, Wojtyla è stato assai imprudente.
+ L’emergenza della questione femminile
Risolvere d’autorità i problemi acuti ed aspri può, all’apparenza, sciogliere i nodi ma, in realtà, essi si aggrovigliano rendendo tutto più difficile. E’ quanto – a mio parere – è accaduto, sotto Wojtyla, con la “questione-donna”.
Le crescenti e diffuse richieste di piena partecipazione della donna alla vita della Chiesa sono state da Wojtyla soffocate. Senza entrare qui nelle problematiche teologiche dei ministeri femminili o della donna-prete, si deve rilevare che il pontefice ha accuratamente evitato di permettere, in proposito, un ampio dibattito, ad esempio in un Sinodo dei vescovi ad hoc, o ascoltando pubblicamente un’ampia e variegata rappresentanza delle donne.
Ma è prudente un pastore che deliberatamente evita di ascoltare che cosa dice l’”altra metà del cielo”? Pur avendo esaltato più volte il “genio femminile”, ed avendo dedicato alla “dignità della donna” una lettera apostolica (la Mulieris dignitatem, del 1988), in realtà Wojtyla non ha ascoltato le richieste delle donne; le ha solo interpretate a modo suo per conservare lo status quo dell’istituzione ecclesiastica.
Avendo negato, a livello istituzionale, un reale dibattito sulla “questione donna”, Wojtyla si è assunto la responsabilità di impedire che varie posizioni emergessero, si confrontassero, si arricchissero nel reciproco ascolto e nella comune ricerca della volontà di Dio.
+ La vicenda di Oscar Romero
E’ in atto il tentativo – così a me sembra, leggendo i più recenti libri su mons. Oscar Romero scritti da persone “sensibili” ai desiderata della Curia romana – di descrivere come idilliaci i rapporti tra l’arcivescovo di San Salvador e il papa. Credo che tale descrizione non corrisponda alla realtà, e che, al contrario, essa sottenda il forte desiderio di proporre, sulla vicenda, un Wojtyla “comprensivo” che non è esistito.
Varie testimonianze, tutte basate su affermazioni di mons. Romero, concordano nel dire che il papa accolse con freddezza Romero quando (1979) a Roma lo ricevette in udienza. In proposito posso portare anche un’esperienza personale.
Nel febbraio 1989 ho incontrato a Managua una religiosa – suor Vigil – che lavorava presso il Centro ecumenico Valdivieso. Essa mi confermò di aver incontrato a Madrid mons. Romero di ritorno da Roma (siamo sempre nella primavera del 1979) e di averlo trovato “costernato” per la freddezza con cui il papa, durante l’udienza, aveva valutato l’ampia documentazione, da lui stesso fatta pervenire in Vaticano, circa la violazione dei diritti umani e della vita di quanti si erano opposti, anche fra i suoi diretti collaboratori, all’oppressione esercitata dal governo salvadoregno sulla popolazione. Oscar Romero avrebbe ricevuto dal papa una secca esortazione ad andar “più d’accordo” con il governo.
A commento di quell’udienza – mi riferì ancora suor Vigil – Romero disse alla religiosa: “Non mi sono mai sentito così solo, come a Roma”.
Il “clima” di quella famosa udienza non appare nella sua drammaticità dal diario di Romero, che di essa pure fa cenno. Ma trarre da tale silenzio prova per smentire la successiva, e ben più realistica, “confessione” dall’arcivescovo, mi sembrerebbe un’operazione apologetica per salvare Wojtyla. E’ evidente, infatti, che nella difficilissima situazione in cui si trovava, Romero, “non poteva” condannarsi da solo, dicendo che il papa lo aveva rimproverato di “fare politica”. Tanto meno poteva dirlo dal pulpito della cattedrale del Salvador. E, tuttavia, perché la verità si sapesse, e quasi a futura memoria, agli amici più intimi raccontò quanto disse anche a suor Vigil.
Al di là della vicenda dell’udienza, è un fatto che Wojtyla non fece gesti pubblici e inequivocabili per mostrare di essere dalla parte di Romero, e di sostenerlo. Del resto, se avesse voluto dire al mondo, con un gesto riconoscibile anche dai più umili, di essere dalla parte di Romero, Wojtyla lo avrebbe pur potuto creare cardinale nel suo primo concistoro (giugno 1979). Il che non fece.
Del resto, in oltre 26 anni di pontificato – e, cioè, sia prima che dopo la caduta del muro di Berlino – Wojtyla ha mostrato, mi pare, un’incapacità radicale di cogliere la sensibilità di quei milioni di persone che vedevano in Romero un martire della giustizia, e la fondatezza pastorale ed evangelica di quei cristiani – religiose, preti, vescovi, laici, uomini e donne – che si ispiravano alla “Teologia della liberazione”. Una teologia dalla quale, agli inizi, lo stesso Romero riteneva di non essere in sintonia, e della quale poi finì per incarnarne in modo esemplare lo spirito.
Nessun vescovo dell’America latina apertamente schierato con la “Teologia della liberazione” è stato creato da Wojtyla cardinale: non che essi cercassero tale onore, ma, nell’attuale sistema ecclesiastico, sarebbe pur stato importante che il papa mostrasse apertamente la sua stima dando all’uno o all’altro la porpora. Non solo: ma Wojtyla ha portato nella Curia romana prelati latinoamericani apertamente ostili a Romero, accaniti avversari della “Teologia della liberazione” e, anche, talora, non troppo coperti amici di dittatori.
Se, in tutte queste vicende, Wojtyla si sia segnalato per la virtù della prudenza è tema che, ritengo, meriti approfondita riflessione. Molti dubbi, comunque, sono leciti. In particolare, non vi sono segni che egli si sia chinato per cercare di capire una “pastorale” e una “teologia” diversissime dalle sue.
+ Il concubinato del clero
Non intendo esaminare tutta l’ampia problematica del celibato sacerdotale, cioè l’insieme delle ragioni storiche, bibliche, ecclesiali che oggi ne consigliano, o meno, il mantenimento nella Chiesa latina. Voglio solo affrontare uno spicchio di tale realtà: il concubinato del clero. Con ciò non intendo affatto dire che tutto il clero sia oggi concubinario: assolutamente no! Tutti conosciamo preti lieti e fedeli al loro celibato, e carichi di umanità. Ma certo, per una parte, sia pure limitata, del clero, il problema esiste.
Ricordo un episodio: quando, come “padre” conciliare, ero al Vaticano II, avevo come vicino di banco un vescovo dell’America latina. Questi rimase molto male quando Paolo VI avocò a sé la questione della legge del celibato nella Chiesa latina, impedendo dunque al Concilio di discuterne liberamente. In tale situazione, mi disse: “Caro padre abate, e adesso come faccio, dato che nella mia diocesi tutti i preti sono concubinari? Ero venuto in Concilio proprio per favorire l’abolizione della legge del celibato!”.
Già incombente ai tempi di Paolo VI, la questione del celibato si è fatta ancor più grave sotto Giovanni Paolo II. A questo papa imputo come scelta assai temeraria quella di avere impedito, in proposito, un reale dibattito ai vari livelli della Chiesa.
Wojtyla ha talmente insistito sulla “saldatura” tra ministero presbiterale e celibato da rendere di serie B i sacerdoti delle Chiese cattoliche orientali, spesso sposati. Ma, soprattutto, la sua esasperata difesa della legge in atto ha dimenticato un particolare decisivo, che un pastore saggio in alcun modo potrebbe ignorare: il problema dei figli dei preti, e delle donne dei preti.
Obbligando i preti latini che, in relazioni clandestine, avessero avuto dei figli, ad assumersi apertamente le loro responsabilità, e dunque a sposarsi per essere – coram populo – padri amorosi dei loro figli, e sposi affettuosi di donne non più tenute nascoste, si compirebbe un gesto di giustizia. Ribadendo invece la legge del celibato, di fatto si esimono questi presbiteri dall’assumersi le loro responsabilità, e si permette loro di continuare a trattare le madri dei loro figli come persone senza diritti.
Sono migliaia e migliaia, nel mondo – dalla Germania, al Brasile al Congo – i figli dei preti che non hanno diritto di avere una normale famiglia, essendo il loro padre “inesistente”. Una tale situazione lede molti diritti umani, e stringe il cuore. E’ impressionante che Wojtyla non abbia mai voluto affrontare pubblicamente questo “tabù”, preferendo le certezze dell’istituzione alle dolorose conseguenze derivanti dall’addentrarsi con realismo nelle problematiche concrete della vita, spesso assai complicate.
Tema differente, ma sempre legato al clero, è quello delle violenze sessuali di preti contro minori. La sgradevole impressione che si ha, in proposito, è che Wojtyla abbia affrontato questa piaga tremenda solo quando essa esplose negli Stati Uniti d’America, sul finire degli anni Novanta.
+ Le dimissioni dal pontificato
Una delle conseguenze più corpose, perché più incidenti nella realtà, del Vaticano II è stata la norma, infine stabilita dal nuovo Codice di diritto canonico, che chiede ai vescovi che compiono 75 anni di presentare le loro dimissioni al papa, che valuterà caso per caso.
Non so se si sia riflettuto sino in fondo sulla “teologia” che sottostà a tale norma: una volta, infatti, si diceva che il vescovo è lo “sposo” della sua Chiesa, cioè della sua diocesi, e perciò l’ama fino alla fine, cioè – in linea di principio – ne resta titolare fino alla morte. Perché mai, infatti, uno sposo non sarebbe più tale quando è avanti con gli anni?
Ad ogni modo, ammesso il principio non solo della legittimità, ma anche dell’opportunità delle dimissioni dei vescovi diocesani a 75 anni, non si comprende perché a tale normativa si sottragga il vescovo di Roma. Anche se non giuridicamente, ma di sicuro moralmente, egli dovrebbe essere il primo ad applicare una tale legge. Perché è il re il primo servo delle leggi di tutti.
Invece, quando Wojtyla compì i 75 anni, e ancor più quando, più tardi, andò aggravandosi in modo irreversibile la sua malattia, impedendogli un reale controllo della Curia romana, a chi direttamente o indirettamente gli suggeriva di rassegnare le dimissioni, egli rispondeva che “Cristo non si dimise dalla croce”.
Vi è una contraddizione teologica grande nel ragionamento di Wojtyla: perché mai sarebbe normale che, a 75 anni, un vescovo (che magari sta ancora bene in salute) si dimetta dalla sua diocesi, e sarebbe inaudito invece che nella stessa situazione si dimettesse il vescovo di Roma?
A me pare che da tale ragionamento emerga un substrato che considera il papa un “super vescovo”: ma questo è del tutto contrario alla Lumen gentium. La mistica della sofferenza connessa con il papa che, in quanto tale, “non può” dimettersi senza tradire il Cristo sofferente, confligge con la decisione giuridica e pastorale adombrata dal Vaticano II che chiede al vescovo “normale” di… discendere dalla croce e lasciare in altre mani la diocesi.
A parte una tale questione di fondo, vi è poi un problema concreto: è stato prudente, Wojtyla, a voler rimanere in carica quando era evidente da tanti mesi la sua impossibilità di governare? Non ha forse, così facendo, favorito maneggi che permettevano all’una o all’altra “cordata” curiale di far prevalere la propria linea, e dunque imporre scelte, nomine, decisioni, tutte formalmente del pontefice, ma in effetti tutte forse non sue?
Se la “resistenza” di Wojtyla fino alla fine è, per alcuni, un segno di particolare fedeltà al proprio dovere, a me suscita invece molta perplessità, e mi induce appunto a domandarmi dove, in tale dolorosa vicenda, lui abbia dimostrato in modo forte le virtù dell’umiltà e delle prudenza.
+ Lasciamo Wojtyla nella sua complessità
Esaminando i pochi fatti elencati appare evidente come sia difficile, per non dire impossibile, distinguere tra le scelte dell’uomo Wojtyla e di Wojtyla papa. Ora, è vero che, qualora lo si proclamasse “beato”, si preciserebbe che ciò avverrebbe per aver accertato che egli visse le virtù in modo eroico, ma non si intenderebbe con questo “santificare” tutte le sue scelte come pontefice. In teoria, la distinzione corre; ed infatti – per rispondere in qualche modo alle critiche per sua incredibile decisione – la propose lo stesso Wojtyla nel discorso in cui spiegò perché beatificava Pio IX. Nei fatti, però, essa è zoppa, come dimostrò appunto la vicenda di Pio IX.
Immagino bene che la “macchina” del processo per la causa di beatificazione di Giovanni Paolo II procederà inarrestabilmente verso il traguardo atteso. Per parte mia, ritenevo mio dovere elencare i gravi dubbi che ho via via sollevato. Ho detto in altra sede, e ci tengo qui a ribadirlo, che le mie riflessioni non derivano da alcun interesse personale, o da alcun fazioso pre-giudizio, ma solo da un’onesta valutazione di fatti e circostanze che, secondo la mia scienza e coscienza, non si dovrebbero sottacere. Sono consapevole di essere solo una piccola voce, e naturalmente rispetto le molte voci di altro tono. Ho parlato, e parlo, per amore della nostra Chiesa romana. Mi rendo conto che, in un clima prevalentemente apologetico rispetto a Wojtyla, alcune mie affermazioni sembreranno quasi inaudite. Eppure, molte persone, soprattutto (ma non solo) in America latina, si ritroverebbero in esse.
Non ho potuto e voluto fare un’analisi esaustiva del pontificato di Wojtyla, delle sue (secondo me) luci e delle sue (secondo me) ombre. Ad altri l’arduo còmpito! Ma, ritengo, le pur poche cose dette potrebbero dare un aiuto per evitare sia critiche aprioristiche che applausi scontati al pontificato wojtyliano.
Se potessi esprimere un sogno, sarebbe questo: che Wojtyla sia lasciato al giudizio della storia, abbandonando dunque l’idea di elevarlo agli onori degli altari. Sono infatti così complesse, e contraddittorie, le scelte del suo pontificato, che è difficile separare luci e ombre, le personali convinzioni dell’uomo Wojtyla, la sua pietà privata, dalle sue decisioni pubbliche. Credo che, lasciare Wojtyla nella sua complessità, e come tale affidarlo alla storia, oltre che alla memoria della Chiesa, sarebbe la scelta migliore per onorarlo nella sua sfaccettata verità. L’insistenza e l’ansia con cui, molti ambienti, lavorano per la beatificazione di Wojtyla, a me pare un atteggiamento che poco sa di evangelico, e molto di voglia di esaltare il pontificato romano come istituzione.
Roma, 7 marzo 2007 Giovanni Franzoni
International Movement We Are Church – IMWAC
Movimiento internacional Somos-Iglesia
Movimento Internacional Nós somos Igreja
Movimento Internazionale Noi siamo Chiesa
Mouvement international Nous sommes Eglise
Internationale Bewegung Wir sind Kirche
www.we-are-church.org www.somos-iglesia.org
Rome / Lisbon, January 16, 2011
FOR IMMEDIATE RELEASE
We Are Church: Beatification of a controversial, contradictory Pope
Pope John Paul II, whose beatification will be celebrated on 1 May 2011, was a pope of great contradiction. His tragedy lies in the discrepancy between his commitment to reform and dialogue in the world and his return to authoritarianism within the church.
It was his penchant for spiritual authoritarianism that contributed to the greatest tragedy of his tenure as pope: the sexual abuse of thousands of children globally. By holding church hierarchy paramount above the needs of the people, John Paul II perpetuated a toxic environment in which priests were permitted, often repeatedly, to sexually abuse children as long as the criminal behaviour was kept secret, preserving the public image of untarnished leadership.
Perhaps one of the best reflections of this is seen in John Paul II’s strong relationship with the Legion of Christ and its founder Marcial Maciel. Maciel is accused of decades of serious abuse against women and youth, much of which was allowed to percolate due in part to the 1983 bylaws John Paul II approved for Maciel’s religious order that demanded secrecy and prohibited criticism of its founder.
It was John Paul II’s same need for hierarchical control that also lead to the constriction of theology with scarring impact on people’s lives. His attempt to discredit liberation theology left thousands working for liberation without the full theological and ecclesial support they deserved while suffering under brutal political regimes.
Spiritual authoritarianism was also seen in John Paul II’s attempt to suppress discourse on gender equality which, in turn, deprived the Catholic world of the gifts women would bring to church leadership. His stance against lesbian, gay, bisexual and transgender (LGBT) people places him in complicity with local churches and governments who continue to deny the civil and moral equality of LGBT persons. Additionally, his repeated denouncements of condom use complicated the moral choice of millions around the world attempting to prevent the spread of HIV/AIDS and promote sexual health.
The International Movement We Are Church believes that beatification and ultimately sainthood should not be measured by whether a “miracle” can be attributed to a particular person, but rather, whether someone’s life truly embodies the values of Christ who sought, not power, but the well being of God’s people.
Background Information:
The International Movement We Are Church, founded in Rome in 1996, is represented in more than twenty countries on all continents and is networking world-wide with similar-minded reform groups. We Are Church is an international movement within the Roman Catholic Church and aims at renewal on the basis of the Second Vatican Council (1962-1965). We Are Church was started in Austria in 1995 with a church referendum, answering the paedophile scandal of the former Cardinal of Vienna/Austria, Hans-Hermann Groer.
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Nella Chiesa permane il dissenso sulla beatificazione di Giovanni Paolo II. La posizione di “Noi Siamo Chiesa”
Il clamore ecclesiastico e mediatico di questi giorni attorno alla beatificazione di Giovanni Paolo II è tale da nascondere agli occhi del grande pubblico il fatto che nella Chiesa non c’è affatto unanimità. Il dissenso su questo avvenimento percorre in modo strisciante molte strutture del mondo cattolico nel mondo. Ciò è la conseguenza del fatto che – a nostro giudizio – il pontificato di Papa Wojtyla ha diviso la Chiesa scegliendo di essa un modello in contrasto con altri che noi riteniamo più vicini all’ispirazione del Concilio Vaticano II. A ciò si aggiunga il dissenso sia per la data scelta, ritenuta inopportuna per la sovrapposizione con la festa dei lavoratori, sia per i tempi abbreviati tra la morte e la beatificazione. Un pontificato, così lungo, complesso, e contradditorio, meritava i tempi necessari, 40 o 50 anni, per valutazioni più serene, condivise e meno emotive.
Si dice che la santità che la Chiesa proclama riguarda l’uomo di preghiera e di fede piuttosto che il papa. Giudicare delle sue virtù o della sua coscienza è difficile per la Chiesa, certamente non lo faremo noi, che, peraltro, apprezziamo la grande personalità dell’uomo e il suo evidente appassionato amore per la Chiesa.
Ma contestiamo che questa proclamazione riguardi soprattutto l’uomo; essa riguarda, e tale appare per come viene proposta e propagandata, il suo ruolo di Pontefice. Per assorbire le posizioni critiche, non si può, per “la contraddizion che nol consente”, santificare solo l’uomo di fede, a prescindere e magari in contrapposizione con il suo ruolo di guida della Chiesa.
Ciò premesso, elementi per una valutazione del pontificato di papa Wojtyla sono già stati ampiamente espressi da “Noi Siamo Chiesa” durante il suo pontificato e, in modo complessivo, alla sua morte (vedi testo allegato); abbiamo poi firmato l“Appello alla chiarezza” (vedi allegato) del 6 dicembre 2006, condividendo i punti critici in cui si articola, così come i due punti positivi, l’impegno per la pace e il riconoscimento dei peccati della Chiesa. nell’sin dal 2005.
L’Appello fu firmato da 15 teologi di differenti provenienze ed è stato condiviso da tanti altri. Le osservazioni di questo documento non sono state tenute in considerazione alcuna da chi ha gestito il processo canonico, almeno per quanto è di nostra conoscenza.
Ai punti dell’Appello dobbiamo aggiungere, perché venuti alla luce soprattutto in seguito, la passività nel perseguire, all’interno della Chiesa, i reati sessuali contro i minori da parte del clero e la protezione, durata decenni, nei confronti di Marcial Maciel Degollado, fondatore e padre-padrone della Congregazione dei Legionari di Cristo, di cui sono ben noti i comportamenti riprovevoli sotto tanti aspetti.
Dei sette punti dell’Appello vogliamo sottolineare soprattutto il settimo, che riguarda l’isolamento in cui fu tenuto Mons. Oscar Romero, voce dei senza voce in Salvador e nel mondo. La sua causa di beatificazione è congelata da tempo, mentre egli viene ormai considerato santo in un intero continente.
“Noi Siamo Chiesa” diffonde oggi, contemporaneamente con molti altri paesi, un testo (vedi allegato) in cui credenti di tutto il mondo, teologi e associazioni, affermano che il primo maggio pregheranno San Romero de America. Anche se non si fa alcun riferimento alla cerimonia in piazza S. Pietro, è però del tutto evidente che, in questo documento, ci troviamo di fronte ad un altro modo di concepire e di vivere la Chiesa, e che vi si prende atto che in Vaticano ci sono due pesi e due misure.
Nell’ambito di queste riflessioni “Noi Siamo Chiesa” infine vuole esprimere il suo netto dissenso sul significato profondo che ha questa beatificazione. Essa vuole “santificare” il Papato prima dell’uomo Wojtyla e proporre un modello di Chiesa non coerente con il ruolo del popolo di Dio, dei vescovi e del vescovo di Roma indicato dal Concilio. La riflessione critica su questa questione è cosa di ieri e di oggi. Lo scrive Giancarlo Zizola (su “La Repubblica” dello scorso 6 aprile), di cui facciamo nostre la parole e le citazioni. Egli ha scritto: “Bisogna contare le preoccupazioni manifestate fin dagli anni Ottanta dai gesuiti di “Civiltà Cattolica”, che dubitavano che le aureole che il Papato decretava su sé stesso potessero infine accentuare l’aura di trascendenza intorno al papa, conferendo al magistero e al governo del pontefice romano un riverbero quasi divino, come se il papa fosse “un’entità sovra ecclesiale e non avesse, piuttosto, ricevuta la missione di esercitare una missione nella Chiesa e per la Chiesa, e non al di fuori o al di sopra”. I contraccolpi temibili di questa deriva erano indicati alla tendenza all’accentramento, in una versione assolutista della sovranità, in un “piramidismo ecclesiastico che ha visto prolificare le esagerazioni della papolatria e del bizantinismo aulico”, con ripercussioni nefaste –conclude Zizola- sul processo ecumenico”.
Non condividiamo inoltre che questa “santificazione” sia stata decisa dall’immediato successore di Wojtyla, suo principale collaboratore e ispiratore. A noi pare che tutto ciò significhi, indirettamente, una specie di solenne suggello dell’opera, molto contestata, di Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede.
Lo ripetiamo come valutazione generale: questa beatificazione è la conseguenza di una decisione presa con insufficiente discernimento, poco sensus ecclesiae e nei tempi sbagliati. Su di essa permane un vasto dissenso anche se, in questi giorni, è intimorito e silenzioso.
Roma, 28 aprile 2011 NOI SIAMO CHIESA
Dovere di obiezione
lettera aperta di Giovanni Franzoni a papa Francesco sulla santificazione di Giovanni Paolo II dell’11 luglio 2013
A Papa Francesco, vescovo di Roma,
Chiesa cui dalle origini è attribuito il titolo di una principalità nella carità e nella predicazione dell’Evangelo.
Mosso dall’amore per la Chiesa e per la chiarezza della sua immagine nel mondo che non può essere offuscata da interessi umani, politici o di potere,
incoraggiato dalla manifestazione di disponibilità da Lei espressa nei confronti non solo di voci autorevoli per il loro ruolo gerarchico e istituzionale ma anche di voci provenienti dalla periferia e dalla base, avendo deposto presso il tribunale del Vicariato il 7 marzo 2007, nella fase processuale prevista per la beatificazione di Karol Wojtyla, romano pontefice col titolo di Giovanni Paolo II, come testimone a sfavore, sento il dovere di manifestare la mia obiezione alla prevista canonizzazione di Giovanni Paolo II, anche se le procedure canoniche a tal fine previste non prevedono ulteriori acquisizioni di testimonianze.
La mia testimonianza (poi fatta propria anche da teologi, teologhe e altre persone alle quali è cara la causa dell’immagine della Chiesa nel mondo moderno), benché fosse stata accolta con rispetto dal tribunale e annessa alla documentazione della causa, non ha avuto alcuna risposta né alcuna soddisfazione alle obiezioni opposte.
Ritengo, dunque, importante riproporre le stesse obiezioni, che allego, perché ritenute da me ancora del tutto valide. Nel frattempo sono costretto ad aggiungere un’altra obiezione: in questi ultimi anni non solo si è manifestata con crescente peso la piaga dell’abuso di minori da parte del clero, secolare o religioso, ma anche lo scandalo dell’occultamento di questi casi da parte di molti nella gerarchia ecclesiastica.
La pratica dell’occultamento – oggi superata con una sommaria definizione di “tolleranza zero”, ma eccessivamente indulgente verso le responsabilità dello stesso romano pontefice, Giovanni Paolo II, e della Congregazione per la Dottrina della Fede presieduta in quegli anni dal cardinal Joseph Ratzinger – pesa come responsabilità non solo su alcuni vescovi diocesani ma anche sui vertici della gerarchia stessa.
In modo particolare, nella pratica dell’occultamento delle responsabilità pare coinvolto il papa allora regnante soprattutto nel caso del cardinal Groër, fatto arcivescovo di Vienna nonostante perplessità ed opposizioni dell’episcopato austriaco.
Pur riconoscendo doti di generosità pastorale e di coraggio in Giovanni Paolo II, nel suo esercizio del ministero petrino, penso che non si possa spendere, per lui, l’aureola della santità, ma ci si debba limitare, con rigorosi criteri storici, ad una obiettiva valutazione del lungo percorso del suo pontificato.
La riabilitazione di teologhe e teologi emarginati o puniti per la loro ricerca e la denuncia della corresponsabilità di certi prelati nell’occultamento di casi di pedofilia del clero potrebbero rappresentare un più forte atto di coraggio della Chiesa romana per proporre un volto evangelico al mondo di oggi bisognoso di chiarezza ed onestà.
Devotissimo in Cristo,
Giovanni Franzoni
Roma, 11 luglio 2013, in Festo Sancti Benedicti
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Del tutto inascoltate dalle gerarchie della Chiesa le obiezioni alla canonizzazione di Giovanni Paolo II annunciata oggi da Francesco nel Concistoro
Dopo solo otto anni dalla morte, papa Wojtyla sarà proclamato santo il 27 aprile, come ha annunciato questa mattina papa Francesco nel corso del Concistoro. In nessuna considerazione sono state tenute le forti obiezioni alla canonizzazione che, dall’inizio, sono state fatte all’interno della Chiesa sia per quanto riguarda i tempi troppo ravvicinati sia per essere stato Giovanni Paolo II scarsamente impegnato nell’attuazione del Concilio Vaticano II e, per questo motivo, elemento di divisione tra i credenti.
Primo e più importante portavoce di queste riflessioni critiche è stato Giovanni Franzoni, già abate di S. Paolo fuori le mura e Padre conciliare. Egli fu promotore nel dicembre 2006 di un “Appello alla chiarezza” (vedi Allegato), che fu firmato da teologi ed esponenti di base della Chiesa in tutto il mondo e da movimenti ed associazioni (si allega quello dell’International Movement We Are Church). In esso si argomenta in senso contrario al processo di beatificazione ricordando in particolare :
1° – La repressione e l’emarginazione esercitate su teologi, teologhe, religiose e religiosi, mediante interventi autoritari della Congregazione per la dottrina della fede.
2° – La tenace opposizione a riconsiderare – alla luce dell’Evangelo, delle scienze e della storia – alcune normative di etica sessuale che, durante un pontificato di oltre 26 anni, hanno manifestato tutta la loro contraddittorietà, limitatezza e insostenibilità.
3° – La dura riconferma della disciplina del celibato ecclesiastico obbligatorio nella Chiesa latina, ignorando il diffondersi del concubinato fra il clero di molte regioni e celando, fino a che non è esplosa pubblicamente, la devastante piaga dell’abuso di ecclesiastici su minori.
4° – Il mancato controllo su manovre torbide compiute in campo finanziario da istituzioni della Santa Sede, e l’impedimento a che le Autorità italiane potessero fare piena luce sulle oscure implicazioni dell’Istituto per le opere di Religione (Ior, la banca vaticana) con il crack del Banco Ambrosiano.
5° – La riaffermata indisponibilità del pontefice, e della Curia da lui guidata, ad aprire un serio e reale dibattito sulla condizione della donna nella Chiesa.
6° – Il rinvio continuo dell’attuazione dei princìpi di collegialità nel governo della Chiesa romana, pur così solennemente enunciati dal Concilio Vaticano II.
7° – L’isolamento ecclesiale e fattuale in cui la diplomazia pontificia e la Santa Sede hanno tenuto mons. Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador, e l’improvvida politica di debolezza verso governi – dal Salvador all’Argentina, dal Guatemala al Cile, da Haiti al Brasile – che in America latina hanno perseguitato, emarginato e fatto morire laici, uomini e donne, religiose e religiosi, sacerdoti e vescovi che coraggiosamente denunciavano le «strutture di peccato» dei regimi politici dominanti e dei poteri economici loro alleati.
Queste obiezioni contenute nell’ “Appello alla chiarezza” non vogliono naturalmente negare gli aspetti positivi della sua personalità ed il suo impegno per la pace nel mondo e il coraggio di ammettere le colpe storiche dei figli e delle figlie della Chiesa nel passato.
Queste posizioni venivano formalizzate (vedi Allegato) da Giovanni Franzoni, a nome di tutti i firmatari dell’appello, il 7 marzo 2007 davanti al Tribunale competente del vicariato di Roma. Con il nuovo pontificato, ritenendo che la situazione si sarebbe potuta modificare, Giovanni Franzoni si rivolgeva direttamente l’11 luglio a papa Francesco con una lettera che è stata in seguito pubblicata dall’agenzia di stampa Adista (vedi Allegato). In essa egli aggiungeva alle argomentazioni precedenti, l’occultamento di casi di abuso di minori da parte del clero, la cui responsabilità ha pesato e pesa non solo su tanti vescovi diocesani o superiori di ordini religiosi ma, fatto ben più grave, su gli stessi vertici della gerarchia (sullo stesso romano pontefice e sulla Congregazione per la dottrina della fede). Questa lettera non ha avuto risposta.
I dubbi e le perplessità su questa decisione sono state aumentate dall’orientamento, che è ormai prevalso a Roma in questo caso e in passato, di voler cercare di canonizzare tutti, o quasi tutti, i papi, quasi a santificare il ruolo stesso del vescovo di Roma. E’ una posizione del tutto discutibile dal punto di vista teologico. Né vale sostenere che si santifica l’uomo, con la sua fede e la sua passione per la Chiesa. La moralità e la santità di un papa sono strettamente intrecciati con le caratteristiche del suo magistero o, almeno, così vengono sicuramente percepite da gran parte del popolo di Dio. Perlomeno sarebbe stato saggio lasciare scorrere il tempo per poi giudicare con maggiore serenità ecclesiale e storica. I fautori del “Santo subito!” sono riusciti a travolgere le più elementari obiezioni e lo stesso buon senso.
Roma, 30 settembre 2013 NOI SIAMO CHIESA
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Comunicato Stampa
Il movimento internazionale We Are Church (IMWAC) critica la canonizzazione di Giovanni Paolo II“
L’intero sistema delle canonizzazioni deve essere messo in discussione e radicalmente democratizzato” ha dichiarato Martha Heizer, Presidente dell’International Movement We are Church (IMWAC). “La riforma del metodo delle canonizzazioni dovrebbe essere ora aggiunto alle altre riforme di un sistema di governo della Chiesa fondato sulla trasparenza e la fiducia che papa Francesco sta perseguendo. Ciò è indispensabile affinché la Chiesa cattolica diventi veramente “Luce del mondo”.
Imwac ritiene inoltre che il sistema delle canonizzazioni sia sempre meno strumento della politica vaticana. La canonizzazione dei due papi, in particolare quelle dei papi morti da poco, glorifica la natura superiore e l’infallibilità del papato a spese del ruolo del Popolo di Dio.
La Chiesa ha la tradizione di celebrare le vite dei cristiani martiri o dalle grandi virtù e di aggiungere poi il loro nome nel calendario dei Santi. Ma in questa sua tradizione ha dato uno spazio sproporzionato alla canonizzazione dei preti, dei religiosi e delle religiose.
We Are Church ricorda, col Concilio Vaticano II, che la chiamata universale alla santità è di tutti quanti fanno parte del Popolo di Dio come afferma la Lumen Gentium: “ognuno nella sua condizione è chiamato dal Signore a quella perfetta santità della quale il Padre stesso è esempio nella sua perfezione”(cap.21).
Molte riserve su una frettolosa canonizzazione
Mentre gioiamo delle sante vite dei papi Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II l’indebita fretta nella canonizzazione del secondo ci sconcerta. IMWAC è convinto che le riforme del Vaticano II sono state quasi abbandonate durante il suo pontificato (si veda il documento del 16.1.2011 richiamato in calce).
La Costituzione Apostolica “Divinus Perfectionis Magister” di Giovanni Paolo II del 25 gennaio 1983 introduce dei cambiamenti nella procedura di canonizzazione che riducono la tradizionale distanza di tempo da cinquanta a cinque anni (o meno) tra la morte della persona e la sua dichiarazione di santità, ed aboliscono la figura del cosidetto “Avvocato del diavolo”.
Entrambe queste importanti modifiche hanno prodotto non solo un aumento delle canonizzazioni ma anche minore attenzione agli aspetti criticabili delle persone rapidamente canonizzate. Questi cambiamenti hanno permesso a Giovanni Paolo II di essere canonizzato in tempi da primato senza che l’Avvocato del diavolo potesse fare presente la sua assenza di intervento nei confronti degli abusi sessuali del clero e il suo sostegno a Fr. Maciel, fondatore dei Legionari di Cristo, responsabile di abusi sessuali e di altro.
Siamo forse nella situazione che quando un prete è eletto papa la santità diviene un corollario del suo ruolo? O forse che solo santi sono eletti al pontificato? Tutto ciò è in contraddizione con lo spirito del Vaticano II.
Dobbiamo continuare ad esaminare il rapporto tra la pietà popolare e il messaggio radicale del Vangelo di Gesù. La sfavillante e gloriosa pompa di una Chiesa cattolica medievale apparirà di nuovo in Piazza San Pietro domenica prossima e ciò sarà in contraddizione con le vite di quella parte del Popolo di Dio e di tanti altri che, nel mondo, vivono in povertà, marginalità ed abbandono. La proposta di una Chiesa dei poveri è condivisa da papa Francesco e noi gli offriamo il nostro appoggio mentre cerca di riformare questa Chiesa trionfalistica in una Chiesa della solidarietà coi poveri e che voglia ispirarsi al regno di Dio dove l’ultimo sarà il primo.
Roma, 24 aprile 2014 International Movement We Are Church (IMWAC)
Beatification of a controversial, contradictory Pope We Are Church press release, January 16, 2011
www.imwac.net/int/pdfs/11BeatifJPII/PR_20110116_Beatification_JP2_en.pdf
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