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Noi Siamo Chiesa

Sezione italiana del movimento internazionale “We Are Church” per la riforma della Chiesa cattolica

File con tutti i documenti sui tre incontri dei movimenti popolari con papa Francesco


I tre incontri dei movimenti popolari
in Vaticano e in Bolivia

In questi incontri, promossi da papa Francesco, i delegati dei movimenti che rappresentano gli “ultimi” sulla terra hanno discusso del sistema iniquo che regola nel mondo i rapporti tra i popoli e le classi sociali e su come cercare di organizzarsi

Presentazione
Sintesi degli incontri del 2014 e del 2015
Cronaca del terzo incontro del 2-5 novembre 2016
Discorso di papa Francesco ai delegati e agli italiani invitati
Documenti conclusivi del terzo incontro
Intervista a Joao Pedro Stédile dei Sem-Terra

L’incontro , censurato, tra Francesco e i movimenti sociali di tutto il mondo

Roma 2-5 novembre 2016

Una riflessione socio-politica sull’incontro tra movimenti sociali e papa Francesco.
Ho partecipato al III° incontro dei movimenti organizzato in Vaticano da papa Francesco; 180 attivisti sociali provenienti da tutto il mondo chiamati a discutere per quattro giorni sui temi del lavoro, della casa e della terra.
ll clima era quello dei Forum Sociali Mondiali, i manifesti e le bandiere appese alle pareti, sul palco i cartoneros di Buenos Aires, i popoli indigeni australiani a rivendicare i loro diritti al fianco di Joao Pedro Stedile, leader dei SEM Terra, di Vandana Shiva, di Ignacio Ramonet fondatore di Le Monde Diplomatique , di Pepe Mujica, già presidente dell’Uruguay, tutti seduti vicino al cardinale Turkson presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, a don Luigi Ciotti, presidente di Libera.
UN’IMPREVEDIBILE ALLEANZA
Quello che ho vissuto in quei quattro giorni era completamente impensabile, e non solo per me, fino a quando non ho visto ed udito quello che accadeva con i miei occhi e le mie orecchie.
Sabato 5 novembre, in Vaticano c’è stato l’incontro con Francesco aperto a migliaia di attivisti. Prima i rappresentanti dei movimenti di tutto il mondo hanno illustrato gli obiettivi emersi nei giorni precedenti; un gruppo musicale ha suonato anche una canzone dedicata ai partigiani curdi e un filmato inquadrava dei contadini che lavoravano i campi, mentre in sottofondo il Papa condannava chi sfrutta il loro lavoro e sullo schermo apparivano le immagini di Wall Street.
LA SOLIDARIETA’ E’ NECESSARIA MA NON SUFFICIENTE
Un discorso, preciso, netto, quello di Francesco, che non dà adito ad interpretazioni differenti. Non esistono religioni o popoli terroristi, esistono invece singoli gruppi che praticano il terrorismo; esiste poi il terrorismo di Stato che semina la paura con l’obiettivo di ridurre i diritti umani. Dobbiamo rifiutare ogni muro, praticare l’accoglienza, sapendo che vi sono cause strutturali che producono emigrazioni e non ha senso distinguere tra migranti economici e coloro che fuggono dalla guerra. E’ inaccettabile che quando una banca fallisce si trovi subito il denaro per salvarla, mentre non si trovano mai i soldi necessari per soccorrere e accogliere i migranti. Dobbiamo contrastare la speculazione finanziaria e il dio denaro che per molti è diventato l’unico motivo di vita. Non basta fare assistenza: è il sistema che va cambiato; anzi talvolta si finisce per garantire una sorta di credibilità ad un sistema marcio.
Un discorso che va ben oltre la dottrina sociale della Chiesa, fortemente in sintonia con la Teologia della Liberazione e con quanto i movimenti altermondialisti sostengono da 15 anni; Francesco non è un leader politico, né tantomeno è diventato il leader dei movimenti sociali, ma certamente sui temi sociali, della giustizia e dell’uguaglianza (su altri argomenti ovviamente permangono differenze anche significative) ne è diventato un rifermento etico imprescindibile. Francesco ha scelto di farsi carico dei destini dell’intera umanità, non solo della Chiesa; appare consapevole che il destino dell’umanità, in particolare quello dei miliardi di poveri, è messo sempre più a rischio
dall’attuale modello di sviluppo; la Madre Terra stessa è a rischio grazie ai cambiamenti climatici e alla devastazione del territorio. Francesco con le sue parole e con le sue azioni sembra affermare che non c’è futuro per la Chiesa se non dentro un percorso condiviso con tutti gli uomini e le donne di buona volontà, a prescindere dal credo religioso di ciascuno.
LA SOLITUDINE DI FRANCESCO
Oltre cinquant’anni fa Giovanni XXIII s’inseriva in una fase della Storia che preparava un grande risveglio democratico. Ora c’è Trump e la voce di Francesco si leva isolata tra i potenti della Terra, né lui cerca alcuna sponda tra coloro che dominano il mondo. Per cercare dei compagni di strada il suo sguardo è rivolto altrove.
Non è un caso che non sia molto amato nelle stanze del Vaticano e nei palazzi romani; non è un caso che i media italiani abbiano ignorato l’incontro; non è nemmeno un caso che le grandi associazioni cattoliche abbiano scelto di disertare l’udienza del 5 novembre: hanno evidentemente ritenuto che le parole con le quali Francesco aveva lanciato il suo appello non fossero per loro.
“ Questo sistema atrofizzato è in grado di fornire alcune “protesi” cosmetiche che non sono vero sviluppo: … finché non si risolveranno radicalmente i problemi dei poveri, rinunciando all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredendo le cause strutturali della iniquità, non si risolveranno i problemi del mondo e in definitiva nessun problema. L’iniquità è la radice dei mali sociali..”
Non è difficile immaginare il suono sgradevole che le parole di Francesco hanno prodotto nelle orecchie di chi si ostina a difendere, con la forza o con l’ignavia, l’attuale sistema.

Vittorio Agnoletto


La lotta dei movimenti fa bene all’umanità. Primo incontro dei movimenti popolari in Vaticano, ottobre 2014

Claudia Fanti ( da: Adista Notizie n° 39 del 08/11/2014)

È stato un momento storico quello che, dal 27 al 29 ottobre del 2014, ha visto protagonisti i più di 100 delegati di organizzazioni popolari di tutto il mondo, invitati a Roma per l’incontro organizzato dal Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, dalla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali e da esponenti dei movimenti stessi, con l’appoggio esplicito di papa Francesco: una sorta di Assemblea dei movimenti popolari, come quelle tenutesi durante i Forum Sociali Mondiali, ma nell’inedita e sorprendente cornice vaticana, convocata con il preciso obiettivo di individuare le cause strutturali dell’esclusione e i modi per combatterle, tracciando nuovi cammini di inclusione sociale a partire da tre grandi tematiche: Pane (lavoratori dell’economia informale, giovani precari e nuova problematica del mondo del lavoro); Terra (contadini, problematica ambientale e sovranità alimentare, agricoltura); Casa (insediamenti informali e problematica delle periferie urbane). Più alcune sessioni parallele su Ambiente e Cambiamenti Climatici e Movimenti per la Pace.
Un incontro inteso come una grande esperienza di dialogo, punto di partenza del processo di costruzione di una sorta di coordinamento delle organizzazioni popolari, con il sostegno della Chiesa, come ha affermato il card. Peter Turkson, presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, introducendo i lavori. Un incontro, ha spiegato il cardinale, che non può non richiamarsi all’insegnamento di Giovanni XXIII, il quale «voleva che la Chiesa tenesse le finestre spalancate sul mondo», nella convinzione che «nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco» nel cuore dei discepoli di Cristo. E, a distanza di quasi 50 anni dalla chiusura del Concilio, «è questo – ha evidenziato Turkson – il motivo principale per cui vi abbiamo invitato qui», rispondendo all’esortazione rivolta dal papa alla Chiesa e al mondo tutto ad ascoltare il grido dei poveri e degli esclusi, i quali devono essere, ha sottolineato il cardinale, «non semplici e passivi destinatari di elemosine altrui», ma artefici della propria vita, protagonisti della ricerca di una vita più dignitosa e di un diverso modello di sviluppo.
Vedere…
Un protagonismo di cui i rappresentanti dei movimenti presenti hanno dato senz’altro grande prova, raccontando le proprie esperienze di lotta e di liberazione, in base al programma del primo giorno dei lavori, quello destinato a mettere a fuoco la realtà di esclusione attraverso le testimonianze dei partecipanti, secondo il metodo, proprio della teologia latinoamericana, del vedere-giudicare-agire.
A prendere la parola sono stati quindi i/le rappresentanti del popolo degli esclusi, a cominciare dalla cilena Luz Francisca Rodriguez, di Via Campesina Internazionale, la quale ha espresso tutto l’orgoglio dell’identità contadina, della missione – la più nobile che vi sia – di garantire alimenti sani per tutta l’umanità, proteggendo al contempo la Madre Terra. Ma anche denunciando l’avanzata senza freni del capitale sulle campagne; la mancanza di adeguate politiche agrarie da parte dei governi; il disprezzo nei confronti delle conoscenze e delle culture contadine; il ruolo di una scienza al servizio del capitale, disposta persino a mettere a repentaglio la vita, attraverso per esempio l’imposizione delle colture transgeniche.
E non si poteva parlare di Terra, di Pane e di Casa, senza affrontare il nodo dell’emergenza ambientale e climatica, «un problema – ha sottolineato l’esperto di cambiamenti climatici Veerabhadran Ramanathan – che si trasformerà ben presto in un disastro». Per risolverlo, secondo Ramanathan, occorre operare profondi cambiamenti nel nostro atteggiamento nei confronti della natura e degli altri, in una mobilitazione che non può fare a meno dell’aiuto dei leader religiosi. È un problema, peraltro, che chiama in causa la giustizia, dal momento che, ha evidenziato, i tre miliardi di poveri che contribuiscono alle emissioni di gas ad effetto serra per meno del 5% sono anche quelli che pagheranno maggiormente le conseguenze del riscaldamento globale.
E a indicare i veri colpevoli ci ha pensato Silvia Ribeiro dell’Etc Group, ricordando come l’1% più ricco dell’umanità controlli quasi il 50% della ricchezza globale e come al 70% della popolazione mondiale resti meno del 3% delle ricchezze. «Gli esperti chiamano Antropocene l’attuale fase planetaria, per sottolineare l’impatto dell’umanità sulla vita della Terra. Non sono d’accordo», ha concluso: «Quella attuale è l’era della plutocrazia, quella in cui 85 miliardari, da soli, consumano risorse quanto la metà della popolazione mondiale».
… giudicare…
Dedicata alla riflessione sulle questioni di emarginazione sociale alla luce dell’insegnamento di papa Francesco, la seconda giornata dei lavori ha avuto il suo culmine proprio nell’incontro con il papa, il quale ha esordito riconoscendo il protagonismo dei poveri, che non sono solo coloro che soffrono l’ingiustizia, ma anche coloro che lottano contro l’ingiustizia, che non aspettano passivamente gli aiuti degli organismi internazionali, che non attendono da altri soluzioni che non arriveranno mai.
Al principio, ha sottolineato il papa soffermandosi sul primo dei «diritti sacri» che devono essere garantiti a tutti – terra, casa, lavoro – Dio ha creato l’essere umano come custode del creato. Un compito tradito con l’accaparramento di terre, con la deforestazione, con l’appropriazione delle fonti d’acqua, con la trasformazione del cibo in merce. Contro tutto ciò, il papa ha dichiarato con forza che «la fame è un crimine», «l’alimentazione è un diritto inalienabile», «la riforma agraria è non solo una necessità politica, ma un obbligo morale».
Quanto alla casa, il secondo dei diritti sacri, ha ricordato che le città che conosciamo, nel momento stesso in cui offrono tutti i servizi possibili a una minoranza ricca, negano un tetto a migliaia di abitanti, chiamati elegantemente «persone di strada»: è incredibile – ha notato il papa – quanto proliferino gli eufemismi nel mondo dell’ingiustizia. E come, dietro a ogni eufemismo, si nasconda sempre un crimine. Basti pensare alle tristi immagini degli sgomberi forzati, così simili a «immagini di guerra».
Infine, il lavoro: «Non esiste peggiore povertà materiale di quella che impedisce alle persone di guadagnarsi il pane», come conseguenza di un sistema economico che pone gli interessi privati al di sopra della persona e dell’umanità, e come espressione di una cultura dello scarto che trasforma l’essere umano in un bene di consumo, in nome «di un sistema che mette al centro il dio Denaro». Un’aggressione a cui in tanti rispondono reinventandosi un’occupazione nell’ambito dell’economia popolare e del lavoro comunitario e questo, ha detto il papa, «non è solo lavoro, è poesia».
E, per terminare, un’esortazione ai movimenti popolari, perché continuino a organizzarsi, rivitalizzando le nostre democrazie, in maniera che non vi sia più nessun contadino senza terra, nessuna famiglia senza casa, nessun lavoratore senza diritti. «Voi avete i piedi nel fango, sapete di polvere di strada, di popolo, di lotta. Senza di voi – ha detto – tutti i buoni propositi dei discorsi ufficiali rimangono lettera morta»: «Continuate a lottare perché la vostra lotta è una benedizione per l’umanità».
E se una delle grandi sfide dei movimenti popolari è, come ha evidenziato Margaret Archer, presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, quella di tradursi in «forma legittima di governo», secondo il principio di «una democrazia partecipativa che trasmetta dal basso verso l’alto le esigenze dei poveri», nessuno era più indicato di Evo Morales, leader cocalero diventato presidente della Bolivia, per affrontare la questione.
Ed è con il suo racconto dell’esperienza di rifondazione della Bolivia che si è conclusa la seconda giornata dei lavori, evidenziando la necessità per i movimenti di passare dalla fase della resistenza a quella dell’appropriazione del potere politico, dalla lotta sociale alla lotta elettorale, in nome di una democrazia che rappresenti gli interessi del popolo e non del mercato e che sia dominata non dalla logica della maggioranza e della minoranza, ma da un processo decisionale fondato sul consenso.
Ma se apprezzatissimo è stato il discorso del papa, non sono comunque mancate critiche all’istituzione ecclesiastica: al ruolo da questa giocato nel passato, nei confronti per esempio dei popoli indigeni, e nel presente, riguardo, ad esempio, al sostegno prestato al colpo di Stato in Honduras, sulle cui conseguenze si è soffermata un’appassionata lettera consegnata a papa Francesco dal Copinh (Consejo civico de organizaciones populares e indigenas de Honduras) e letta in plenaria dalla dirigente Berta Caceres: «Vogliamo che in Honduras – si legge nella lettera – rinasca una Chiesa impegnata con i più impoveriti e le più impoverite, come auspicavano i nostri santi e i nostri martiri, da p. Guadalupe Carney a mons. Romero, non con cardinali che concedono la loro benedizione a colpi di Stato e a sistemi di potere che perseguitano quanti percorrono il cammino di liberazione all’interno della stessa Chiesa». Dove il riferimento è chiaramente al card. Rodriguez Maradiaga, ribattezzato dal suo popolo, all’epoca del colpo di Stato, “cardinale golpista” o “cardeMal”, per il suo aperto appoggio al regime golpista, e poi scelto da papa Francesco per presiedere il gruppo di cardinali incaricato di elaborare un progetto di riforma della Curia.
Agire!
L’ultimo giorno dei lavori è stato invece incentrato sull’elaborazione e la discussione dei documenti finali dell’incontro, quelli ad uso interno come pure la Dichiarazione finale dell’incontro dei movimenti popolari (che può essere letta sul sito www.movimientospopulares.org). Né è mancata una sintesi di tutto il dibattito svoltosi nell’ultimo giorno, affidata a João Pedro Stedile, leader del movimento dei Senza Terra, e a Paola Estrada, dell’Alba dei movimenti, e articolata attorno ai tre ambiti tematici della terra, del lavoro e della casa.
Così, rispetto alla Terra, il proclama «non vi sia nessun contadino senza terra» va affiancato a quello «nessun popolo senza il suo territorio»: i movimenti popolari sono chiamati a lottare per una Riforma Agraria Popolare, integrale, democratica, centrata sulla sovranità alimentare, sull’accesso universale all’acqua, sul controllo delle sementi, sull’agroecologia, sulla produzione di alimenti sani per tutto il popolo.
E poi, sviluppando il principio «non vi sia nessun lavoratore senza diritti», occorre lottare perché tutti abbiano diritto a un lavoro degno e a un reddito tale da garantire una vita dignitosa, perché a tutti vengano riconosciuti i diritti del lavoro e perché tutti possano trovare lavoro nei propri luoghi di vita, senza essere costretti ad emigrare. Ma i movimenti sono anche chiamati a lottare contro ogni forma di discriminazione e ogni forma di schiavitù e a denunciare la subordinazione di Stati, governi e sindacati agli interessi delle transnazionali.
In base quindi al principio «non vi sia nessuna famiglia senza una casa dignitosa», i movimenti si impegnano, tra l’altro, a trasformare le periferie degradate in spazi comunitari di solidarietà e buen vivir, a combattere la speculazione finanziaria e immobiliare, a promuovere processi di autogestione cooperativa, a lottare per il diritto al ritorno di tutte le popolazioni sfollate, a difendere occupazioni collettive di edifici e di terreni inutilizzati per risolvere il problema della casa.
Accanto a questi, altri impegni sono stati proposti dai rappresentanti dei movimenti, come la creazione di una rete di solidarietà che consenta di mobilitarsi contro ogni caso di ingiustizia e di persecuzione in qualsiasi Paese del mondo, la collaborazione con tutte le tradizioni religiose per coscientizzare il popolo sulla necessità dell’organizzazione, il ricorso all’insegnamento di papa Francesco per diffondere tra i popoli l’esigenza di lottare per i cambiamenti necessari nel mondo, la promozione di nuovi modi di consumo e di nuovi stili di vita, in maniera, ha evidenziato Stedile, che «nessun lavoratore insegua il sogno di diventare un piccolo borghese». Infine, l’accento dei delegati è stato posto sulla necessità di continuare a riunire i settori organizzati in lotta per la terra, il lavoro e la casa, di creare una piattaforma di comunicazione tra i partecipanti per la promozione di azioni comuni, di mantenere un dialogo continuo con papa Francesco in vista della creazione di un’istanza di collaborazione permanente.

Così non si può andare avanti. Il grido congiunto dei movimenti e della Chiesa. Secondo incontro dei movimenti popolari, Santa Cruz de la Sierra, Bolivia luglio 2015

Claudia Fanti ( da: Adista Notizie n° 26 del 18/07/2015)
38197 SANTA CRUZ DE LA SIERRA-ADISTA. In un pianeta ferito e sanguinante, la speranza ha il volto di chi ancora crede possibile costruire un mondo più umano e lotta per farlo diventare reale. Perché non vi sia più «nessun contadino senza terra, nessuna famiglia senza casa, nessun lavoratore senza lavoro». È nel segno di questa speranza che si è svolto, dal 7 al 9 luglio, a Santa Cruz de la Sierra, in Bolivia, il II Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari – dopo quello realizzato in Vaticano nell’ottobre del 2014 –, culminato il 9 luglio con il discorso di papa Francesco (v. notizia successiva). Un evento a cui hanno preso parte 1.500 rappresentanti di movimenti provenienti da 40 Paesi, in massima parte del Sud del mondo, impegnati ad approfondire gli stessi temi del precedente incontro, “Terra, Casa, Lavoro”, nella consapevolezza, evidenziata in apertura, che «avremo senza dubbio un lungo cammino da percorrere», ma che, grazie all’appoggio del papa, «potremo farlo con un migliore accompagnamento».
Un’alleanza, quella tra i movimenti e la Chiesa, su cui ha posto l’accento, durante la cerimonia di inaugurazione, anche il card. Peter Turkson, presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace: se il compito di realizzare un processo di cambiamento in difesa della Terra e della dignità delle persone, ha dichiarato il cardinale, «non è esclusivo dei leader religiosi, degli scienziati, dei politici o degli imprenditori», ma interessa tutta l’umanità, il clamore e le pressioni dei poveri «sono di vitale importanza perché i potenti del mondo comprendano che così non si può andare avanti». E il compito della Chiesa è «ascoltare questo grido e unirsi ad esso», sostenendo i processi di organizzazione con cui i poveri resistono «all’esclusione sociale, a una scandalosa disuguaglianza e alla devastazione dell’ambiente», cercando di risolvere da sé «i problemi di accesso alla Casa, alla Terra e al Lavoro a cui né gli Stati né il Mercato danno risposta». Allo stesso modo, ha proseguito Turkson, la Chiesa è chiamata a riconoscere e promuovere le forme, proprie dei poveri, dei contadini e dei popoli indigeni, e alternative a quelle egemoniche, di «fare politica (organizzazione comunitaria), di sviluppare l’economia (economia popolare) e di custodire la natura (ecologia popolare)», lottando contro il saccheggio delle risorse naturali: i movimenti, ha sottolineato Turkson, «non vogliono che si privatizzi l’acqua, né il sottosuolo, né il mare. Non vogliono che le transnazionali abusino della terra praticando, per esempio, un’attività mineraria inquinante o l’estrazione di idrocarburi con la tecnica della fratturazione idraulica (fracking), né che si usino i transgenici per sfruttare i contadini o concentrare la terra in poche mani, né che si distrugga la pesca artigianale attraverso una devastante industria ittica». E la Chiesa deve accompagnare le loro preoccupazioni e le loro lotte «per i doni della creazione». Così, è nel quadro di tale accompagnamento che, secondo Turkson, si è inscritto questo II Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari, al fine di perpetuare «nel tempo la comunicazione, la cooperazione e il coordinamento tra gli stessi movimenti di base e tra questi e la Chiesa a tutti i suoi livelli».
Un dialogo che, rispetto all’incontro in Vaticano del 2014 (dove i relatori erano essenzialmente esponenti di movimenti popolari), si è tradotto anche in una maggiore presenza di vescovi tra i relatori delle plenarie: mons. Luis Infanti de la Mora, vescovo di Aysén, nella Patagonia cilena, nella sessione dedicata alla Terra; Raúl Vera López, vescovo di Saltillo, in Messico, in quella dedicata al Lavoro; Guilherme Antônio Werlang, vescovo di Ipameri, in Brasile, in quella dedicata alla Casa. Ma se la cooperazione con la Chiesa cattolica si rafforza, rimane tuttavia il nodo di cosa fare con le altre tradizioni religiose dell’umanità, per evitare che la grande articolazione internazionale di movimenti popolari che si punta a costruire resti ancorata appena al Vaticano.
Svoltasi alternativamente in plenaria e in gruppi di lavoro, la riflessione – a cui ha preso parte, durante la cerimonia di inaugurazione, lo stesso presidente Evo Morales, il quale, come già avvenuto durante l’incontro in Vaticano, non ha perso occasione di magnificare i risultati raggiunti dal suo governo – è ruotata attorno alle tre “T”, Tierra, Trabajo e Techo, a cominciare dalla questione della sovranità alimentare come programma dei popoli in opposizione all’agribusiness, nella consapevolezza che, come ha sottolineato João Pedro Stedile, il grido di Zapata “Terra a chi la lavora” non basta più, ma si rende necessaria una radicale trasformazione in campo agricolo, in maniera da garantire la democratizzazione non solo della terra ma anche dell’acqua, della biodiversità, dei semi (il cui mercato, ha denunciato Silvia Ribeiro dell’Etc Group, è controllato all’80% da appena 10 imprese) e da assicurare la produzione di alimenti sani per tutto il popolo. L’accento è stato quindi posto sulle molteplici esperienze di lotta e sulle diverse forme di organizzazione attraverso cui la classe lavoratrice combatte l’esclusione prodotta dal sistema capitalista, come pure sulla sempre più necessaria costruzione di un’alleanza di tutti i lavoratori, compresi quelli del settore informale, e sulla situazione di milioni di esseri umani privati del diritto a una casa dignitosa (perché, come ha evidenziato Guilherme Werlang, «le case non sono costruite per chi ne ha bisogno, ma per chi le può pagare») e sulla necessità di recuperare la funzione sociale della proprietà per restituire la città ai lavoratori.
Una riflessione da cui sono scaturiti i 10 punti del documento finale consegnato al papa al termine dell’incontro, relativi alla necessità di portare avanti il processo di cambiamento «come risultato dell’azione dei popoli organizzati», di proteggere la Madre Terra promuovendo il modello del buen vivir proprio dei popoli indigeni, di difendere il lavoro come diritto umano, di elevare le condizioni dei quartieri popolari garantendo il diritto a una casa dignitosa, di assicurare la sovranità alimentare, di costruire una società pacifica alimentando una cultura dell’incontro, di combattere la discriminazione, di preservare la libertà di espressione, di porre la scienza e la tecnologia al servizio dei popoli, di contrastare il consumismo opponendo alla cultura dello scarto la solidarietà come progetto di vita.

I popoli, costruttori del cambiamento. Iniziati i lavori del III Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari, Vaticano 2 novembre 2016

Claudia Fanti ( da Adista 4 novembre 2016)
E’ nel segno del dialogo, della speranza e della lotta che si è aperto il 2 novembre, presso il Pontificio Collegio Mater Ecclesiae a Roma, il Terzo Incontro dei Movimenti Popolari, un passo oltre nel processo avviato nel 2014 per iniziativa di papa Francesco, allo scopo di creare uno spazio di incontro e di auto-organizzazione per quell’ampio ventaglio di movimenti, grandi e piccoli, attraverso cui tutti coloro che sono stati da sempre relegati ai margini, anziché rassegnarsi all’ingiustizia, scelgono di resistere e di lottare, diventando, secondo le parole pronunciate dal card. Turkson nella plenaria di apertura dell’incontro, «costruttori di cambiamento». Un cambiamento di strutture di potere, di stili di vita, di modelli di produzione e di consumo, nel segno di quell’ecologia integrale su cui ha messo con tanta forza l’accento papa Francesco nella Laudato si’, evidenziando come l’umanità si trovi di fronte non a due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì a «una sola e complessa crisi socio-ambientale»: una sola minaccia, ha spiegato Turkson, con due diverse facce, quanto mai evidenti nel dramma degli sfollati, di coloro, cioè, che perdono la loro terra e la loro casa in conseguenza non solo delle guerre e dell’emarginazione sociale, ma anche delle attività minerarie, dell’agrobusiness, delle catastrofi legate ai cambiamenti climatici. Ed è a loro, a tutti gli esclusi, al grande povero che è il nostro pianeta saccheggiato e ferito che rivolgerà la sua attenzione il nuovo “Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale” istituito da papa Francesco, in cui, dal primo gennaio 2017, confluiranno quattro Pontifici Consigli (Giustizia e Pace, Cor Unum, Pastorale migranti e Operatori Sanitari), con l’obiettivo, ha spiegato Turkson, il prefetto del nuovo organismo, «di favorire la creazione di un’economia al servizio della persona, di riunire tutti i popoli nel segno della giustizia e della pace e di proteggere la nostra sorella Madre Terra».
E quanto sia necessario che la riflessione iniziata a Roma nel 2014 e proseguita a Santa Cruz de la Sierra nel 2015 attorno alle tre parole chiave Terra, Casa e Lavoro – un percorso ricostruito dalla spagnola Xaro Castelló, del Movimento Mondiale di Lavoratori Cristiani – non solo venga portata avanti, ma si traduca concretamente in proposte alternative, lo ha evidenziato chiaramente João Pedro Stédile del Movimento dei Lavoratori Senza Terra (MST) e di Via Campesina, sottolineando come l’umanità si trovi a vivere «un tempo di crisi profonde»: la crisi del modo di produzione capitalista, ormai del tutto incapace di offrire futuro, esprimendo oggi nient’altro che «arretratezza, discriminazione ed esclusione»; la crisi ecologica, che vede il pianeta violentemente aggredito dal capitale, il quale si è appropriato dei beni della natura, minacciando la vita di tutte le specie; la crisi sociale, vissuta in ogni parte del mondo da tutti coloro che si vedono negare il diritto al lavoro, alla terra, alla casa; la crisi politica, che, ben al di là dei casi di corruzione, investe la sostanza stessa della politica, che è «corrotta in quanto sequestrata dal capitale», il quale «finanzia ed elegge chi vuole», svuotando radicalmente di senso quella «democrazia borghese nata dalla Rivoluzione francese» e oggi ormai priva di legittimità; e infine la crisi etica, che mette a repentaglio, in tutto il pianeta, i tre principi fondamentali della solidarietà, dell’uguaglianza e della giustizia, contro cui il capitale «predica esattamente il contrario: il consumismo, l’individualismo e l’egoismo», centrati sull’esaltazione del consumo come ideale di cittadinanza e su una salvezza individuale legata ai propri meriti, come se fosse possibile salvarsi da soli, liberarsi da soli.
E se Jockin Arputham, della Federazione Nazionale degli Abitanti degli Slum dell’India-Slum Dwellers International, ha invitato tutti a «parlare di meno e fare di più», non senza esortare la Chiesa a cedere almeno un parte della grande quantità di immobili di cui dispone, l’argentino Juan Grabois, del Movimento dei Lavoratori Esclusi e della Confederazione di Lavoratori dell’Economia Popolare, ha posto l’accento sulla necessità, in questo terzo incontro, di concentrarsi su «concrete proposte di cambiamento», invitando i movimenti a perseguire l’unità, quella difficile ricerca di un minimo comune denominatore nella lealtà e nel rispetto degli altri, e quattro altri principi fondamentali: organizzazione, coscienza, spirito elevato e cuore puro, azione”.
Portatori di speranza
Se, come ha sottolineato Stédile, l’umanità attraversa «un tempo di crisi profonde», è il tema della crisi della politica che ha dominato la riflessione della prima plenaria, quella su “Popolo e Democrazia”. Un tema di grande rilevanza, se è vero che mai come oggi la democrazia appare in difficoltà un po’ in tutto il mondo, al punto che, come ha evidenziato l’ugandese John Mark Mwanika dell’ATGWU (Amalgamated Transport and General Workers Union), persino i movimenti popolari e i sindacati, quelle realtà, cioè, che dovrebbero presentarsi come «campioni di democrazia», mostrano segnali di cedimento alle lusinghe di «un sistema politico sequestrato da un’élite che ha tutti i tratti di un club di golf». E se quella ugandese è, secondo Mwanika, una democrazia fittizia che esclude i cittadini da ogni vera partecipazione – «a causa del sistema di finanziamento, nell’agone politico entra solo chi ha i soldi» – e persino dal voto – «quando mia madre e mia sorella sono andate a votare alle elezioni dello scorso febbraio, si sono sentite dire che qualcuno aveva già votato al posto loro», non va molto meglio nei Paesi dell’America Latina, esposti a un’offensiva neoliberista che, come ha spiegato la brasiliana Beatriz Cerqueira, del Sindacato dei Lavoratori dell’Educazione (SindUTE), non esita a ricorrere a nuove modalità di golpe: colpi di Stato di nuova generazione, di natura parlamentare anziché militare, del genere di quelli di quelli verificatisi in Honduras contro Manuel Zelaya, in Paraguay contro Fernando Lugo e, ultimo della serie, in Brasile contro Dilma Rousseff.
Aprendo il suo intervento nel ricordo di Bertha Caceres, la dirigente indigena del popolo lenca (nonché una delle protagoniste del primo incontro dei movimenti popolari in Vaticano) uccisa in Honduras lo scorso marzo; delle 19 vittime del cedimento di due dighe di contenimento dei rifiuti tossici della società mineraria Samarco, avvenuto nel novembre del 2015 nel comune di Mariana, in Minas Gerais; dei 43 studenti della scuola Normale Rurale di Ayotzinapa, nello Stato messicano di Guerrero, scomparsi nel settembre 2014; e di tutte le donne violentate, uccise, massacrate ovunque nel mondo («la questione del femminicidio deve essere presente in ogni riflessione», ha affermato richiamandosi alla campagna “Ni una a menos”) – tutti e tutte loro vittime di un sistema politico che non è al servizio della vita e del popolo – Beatriz Cerqueira si è soffermata sul colpo di Stato che si è consumato in Brasile, frutto di un’alleanza tra potere legislativo, potere giudiziario e mass media che, mirando al controllo di tutte le risorse naturali, ha già lanciato la sua feroce offensiva contro i diritti dei lavoratori. Che il capitalismo non abbia bisogno della democrazia, del resto, è ampiamente dimostrato dall’aggressione di cui è oggetto la politica «ogniqualvolta non si pone al servizio del capitale», come hanno potuto sperimentare – ha concluso Cerqueira mostrando un cartello con la scritta “Fora Temer”, il grido diventato parola d’ordine in tutto il Brasile – tutti i governi che hanno tentato la via di politiche di ridistribuzione del reddito.
Se il quadro è tutt’altro che incoraggiante, ci pensano tuttavia i poveri e i discriminati – ha evidenziato don Luigi Ciotti di Libera – a indicarci «la via del futuro e della speranza», quella speranza che non può essere costruita senza partire da chi è stato escluso, perché «la speranza o è di tutti o non è». Se la democrazia nasce per affermare la libertà e la dignità della persona – «non concetti astratti ma valori fondati sulla giustizia sociale» – «non basta che i diritti siano scritti sulla carta, ma devono diventare vita», comportare responsabilità, vale a dire la tutela dei diritti degli altri, che è poi è la maniera migliore di «difendere anche i nostri diritti». E se oggi – ha concluso Ciotti – abbiamo una democrazia di facciata, una politica senza voce che «va a rimorchio delle forze economiche e finanziarie», un «infiacchimento delle coscienze» – «dove sono le voci che si alzano contro la povertà, la disoccupazione, la disuguaglianza, i respingimenti?» – è necessario, affinché la democrazia torni a essere il potere del popolo, che si ponga nuovamente al servizio del bene comune, che riprenda le redini dell’economia, che impedisca l’appropriazione dei beni comuni da parte del capitale».

Per fare ritorno alla casa comune. – La riflessione del III Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari su “Territorio e Natura”, Vaticano, 3 novembre 2016

Claudia Fanti (Adista)
Con un toccante omaggio a Bertha Cáceres – la dirigente indigena ed ecologista del popolo lenca uccisa in Honduras lo scorso marzo – e a tutti i militanti minacciati, perseguitati, incarcerati e assassinati per la loro lotta a favore della giustizia e dei diritti dei poveri e della Madre Terra, è iniziata, sulle note di uno struggente canto africano di addio a quanti non ci sono più, la plenaria su Territorio e Natura con cui si è aperto il secondo giorno dei lavori del Terzo Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari.
È stata Vandana Shiva, la celebre attivista e ambientalista indiana che ha dedicato «gli ultimi 30 anni» della sua vita alla difesa dell’«integrità del creato», a introdurre la riflessione, ricordando, da un lato, come le culture di tutto il mondo condividano la convinzione che «gli esseri umani non sono i padroni, bensì i custodi della natura», e ponendo l’accento, dall’altro, sulla grande contraddizione che l’umanità sta oggi vivendo: quella per cui «coloro che sono impegnati a proteggere la Terra sono trattati come criminali, mentre i veri criminali governano». E proprio come “bande criminali” si presentano, secondo Vandana Shiva, i colossi transnazionali che controllano il settore agroalimentare, calpestando le leggi di ogni Paese e facendo scempio della biodiversità del nostro pianeta: attribuire alla Monsanto, leader mondiale nella produzione di Ogm, «un ruolo nel processo della creazione – ha evidenziato l’attivista indiana – non può che essere definita un’oscenità». Come pure è osceno brevettare le sementi, «il primo degli atti di violenza nei confronti del creato», ed è oscena la pirateria con cui «ci viene rubata la nostra conoscenza della biodiversità».
Ma dove ha avuto origine questa follia? Tutto è cominciato, secondo Vandana Shiva, nel momento in cui si è iniziato a considerare la Terra non più come una madre da onorare e proteggere, ma come materia inerte e passiva, un mero deposito di oggetti da sfruttare e da vendere, dimenticando come la nostra vita sia inscindibilmente legata alla qualità del suolo e degli ecosistemi. Non a caso, ha ricordato Vandana Shiva, umano viene da humus, che significa suolo fertile: noi stessi siamo suolo, siamo terra, «siamo il cibo che mangiamo, siamo il sole e l’acqua» e, se ne abbiamo perso la consapevolezza, è solo perché il capitale ci ha alienato dalla nostra casa comune, condannandoci alla «separazione dalla terra», a un’«ecoapartheid». Dall’esilio in cui ci troviamo, siamo chiamati allora a fare «ritorno a casa, al nostro meraviglioso pianeta», riscoprendo i principi della protezione e della cura e assumendo nuovamente la consapevolezza che tutte le specie viventi – quelle specie che, grazie al nostro intervento, «stanno scomparendo a un ritmo 10 volte superiore a quello normale» – hanno un valore in sé, come ben ha ricordato papa Francesco nella Laudato si’, affermando che «Dio ci ha unito tanto strettamente al mondo che ci circonda che la desertificazione del suolo è come una malattia per ciascuno, e possiamo lamentare l’estinzione di una specie come fosse una mutilazione».
Del resto, prendersi cura della terra significa anche proteggere i nostri corpi e la nostra salute: non a caso, «il 75% delle malattie di cui soffriamo è legato all’alimentazione industriale», a quel cibo spazzatura che vorrebbe imporci il settore agroindustriale, lo stesso settore responsabile del 50% circa delle emissioni di gas a effetto serra. Per questo, ha concluso Vandana Shiva, non senza risparmiare una stoccata a quei «preti che bevono Coca Cola e mangiano patatine fritte», «non dobbiamo né produrre né mangiare questi cibi avvelenati».
L’invito a lottare perché la Terra non venga ridotta a una merce è venuto anche da Rosalina Tuyuc, del Coordinamento nazionale delle vedove del Guatemala: «l’acqua, l’aria, la terra, le sementi, i boschi sono -ha affermato – elementi di vita e, come tali, non possono finire sul mercato». E allora, se la vita in pienezza è minacciata dalle imprese transnazionali, dalle grandi dighe, dall’estrazione mineraria, dalle sterminate monocolture, «i figli e le figlie della Terra devono assumersi la responsabilità collettiva di lottare in unità per proteggerla e preservarla». Ed è proprio di questa lotta che hanno parlato Te Ao Pritchard, del movimento delle “Pantere del Pacifico”, di cui fanno parte popolazioni native e migranti della Nuova Zelanda, tutte accomunate dal medesimo di compito di difendere la creazione, e la cartonera argentina Mónica Crespo, rappresentante di quei riciclatori informali di rifiuti che, lottando e resistendo alla persecuzione, hanno infine ottenuto il riconoscimento dello Stato, svolgendo il duplice compito di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori del riciclo e di provvedere alla cura della Terra. Ed è su questa lotta, infine, che si sono confrontati i partecipanti all’incontro nei gruppi di lavoro, interrogandosi sulle strategie e i piani di azione, oltre che sull’imprescindibile sfida dell’educazione all’ecologia, della coscientizzazione e della comunicazione alternativa, attraverso cui rispondere alla feroce offensiva del capitale contro i beni comuni dell’umanità.

Dalla parte delle vittime della “cultura dello scarto”. Il dramma dei migranti al centro della terza giornata dell’Incontro dei movimenti popolari, 4 novembre 2016

Claudia Fanti (Adista)
Con il pensiero rivolto all’impressionante numero di vite spezzate nel tentativo di assicurare per sé e per i propri cari un futuro migliore – alle innumerevoli volte in cui, dalle coste del Mediterraneo al deserto dell’Arizona, è rimasto senza risposta il grido rivolto a Caino «Che hai fatto di tuo fratello?» – si è aperta, nel terzo giorno di lavori dell’Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari, la plenaria sull’ultimo dei tre grandi temi al centro della riflessione dei delegati e delle delegate: quello dei rifugiati e degli sfollati.
Un dramma che, come ha evidenziato il messicano Carlos Marentes, del Progetto dei Lavoratori Agricoli di Frontiera, non è altro che il frutto più tragico del sistema di morte capitalista in tutti i suoi molteplici aspetti: quelli dei conflitti armati, della criminalità organizzata, delle catastrofi climatiche, dell’ingiustizia economica, delle discriminazioni sociali. E per quanto i numeri siano spaventosi – 100mila gli sfollati in appena 8 giorni, tra ottobre e novembre, in seguito ai bombardamenti in Siria; 200mila i messicani costretti a fuggire in conseguenza della guerra al narcotraffico voluta dagli Usa; 100mila i rifugiati climatici appena negli Stati Uniti, solo per fare alcuni esempi – le cifre non potranno mai, da sole, rendere l’esatta portata di questa tragedia. Una tragedia espressa dalle innumerevoli storie di speranze tradite e di dolore, le storie di «milioni di persone espulse dalle loro case e dalle loro terre che cercano – molte volte morendo in questo tentativo – di entrare in Paesi che non le vogliono». Che sono poi – ha sottolineato Marentes – gli stessi Paesi responsabili del fenomeno della migrazione forzata: «È attraverso la lente del colonialismo che bisogna leggere il fenomeno migratorio», risultato degli interminabili abusi commessi dai conquistatori e dai loro eredi, contro cui i popoli resistono e lottano da 524 anni. Una lotta di cui un simbolo straordinario è quello della battaglia del popolo sioux in Nord Dakota contro l’oleodotto che dovrebbe attraversare la sua riserva, su cui «la Chiesa statunitense sta mantenendo uno sconcertante silenzio». E se l’enorme debito sociale generato dal brutale saccheggio dei colonialisti di ieri e di oggi non è mai stato risarcito, è come una forma di riscossione di tale debito che, secondo Marentes, va interpretato il fenomeno migratorio, a cui dunque bisogna guardare come a «una forma di resistenza contro il destino a cui il capitale ha condannato le persone migranti, una lotta per non scomparire in un sistema in cui è negato loro un posto».
È tutto questo che hanno espresso le storie al centro della sessione dedicata a un fenomeno, quello appunto dei rifugiati e degli sfollati, che può essere compreso appieno solo da chi lo ha vissuto sulla propria pelle, come ha sottolineato monsignor Silvano Tomasi, del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, che proprio per questo ha voluto attraversare il confine tra Tijuana e San Diego con alcuni migranti senza documenti, sfidando insieme a loro la polizia di frontiera.
La storia, per esempio, di quei contadini del Sud del Messico che, mandati in rovina dalle pratiche delle multinazionali e dai Trattati di libero commercio, salgono al Nord per vendere le proprie braccia alla filiera agroalimentare statunitense, finendo per subire abusi di ogni tipo dai loro datori di lavoro, dallo Stato e dalla polizia di frontiera. E tutto – ha affermato ancora Marentes – nell’indifferenza di una società che non si chiede cosa ci sia dietro gli alimenti che consuma, come se il cibo non fosse «l’elemento più sacro della vita»: poiché infatti «è attraverso gli alimenti e la produzione di alimenti che passa la nostra vera relazione con la natura, nel momento in cui produciamo cibo dobbiamo prenderci cura del pianeta, dell’integrità della natura, del benessere di nostra sorella Madre Terra».
O, ancora, la storia di Ndao Moustapha, venditore di strada a Barcellona, giunto in Europa per migliorare le proprie condizioni di vita e scontratosi con l’incubo quotidiano della vita di un migrante in Europa: «Fuggiamo da un’Africa – ha affermato nel suo intervento – in cui le cose non fanno che cambiare in peggio, in cui la povertà non fa che acuirsi, in cui governi totalmente corrotti voltano le spalle ai loro popoli, per ritrovarci qui in Europa» ad affrontare governi ostili, polizie violente – «Ti spezzano un braccio, ti rompono una gamba? Non succede niente» -, apparati di giustizia razzisti, leggi disumane che arrivano a negare a chi non ha documenti persino l’assistenza sanitaria («A un mio amico senza documenti, morto di tubercolosi a Palma di Maiorca, un medico ha detto che non poteva neppure visitarlo»). «La vita è dura in Africa. La vita è dura qui. Alla popolazione africana – ha concluso Moustapha – voglio mandare un messaggo: non venite in Europa!».
Le migrazioni forzate in Medio Oriente
Se una sessione dedicata al dramma dei rifugiati e degli sfollati non poteva non affrontare il caso dei popoli curdo e palestinese, ha lasciato sicuramente il segno l’intervento di Nursel Kilic, del Movimento delle Donne Curde, che, a poche ore dall’arresto in piena notte di undici parlamentari curdi del Partito democratico dei popoli (Hdp), tra cui i due principali leader, Selahattin Demirtas e Figen Yuksekdag, accompagnato per di più dall’oscuramento dei social network, ha denunciato quello che, dopo il mancato colpo di Stato in Turchia del 15 luglio scorso, si configura sempre più apertamente come un golpe civile da parte del governo di Erdogan, il quale può disporre oltretutto di una potente arma di ricatto nei confronti dei governi occidentali: «quella di milioni di rifugiati siriani che egli minaccia di spedire in Europa, oltretutto utilizzando parti consistenti dei fondi europei per portare avanti il genocidio del popolo curdo». Alla persecuzione, agli arresti arbitrari, agli assassinii, alle brutali violenze, il popolo curdo, con le donne in prima fila, risponde però, ha spiegato Kilic, con «una proposta rivoluzionaria», guardando non a uno Stato-nazione che ricomprenda i territori attualmente divisi tra Turchia, Iran, Iraq e Siria – avendo quest’ultimo, in quanto ossatura portante del capitalismo moderno, un carattere strutturalmente violento – ma a «una democrazia senza Stato» espressa nella forma del confederalismo democratico, in vista della costruzione di una società libera dall’autoritarismo, dal patriarcalismo, dal militarismo, dal centralismo: un sistema partecipativo che non solo riconosce e applica concretamente la parità di genere, ma abbraccia anche tutte le confessioni religiose e le etnie.
Dal dramma curdo a quello palestinese, Sahar Francis, dell’Unione dei Lavoratori Agricoli della Palestina, ha ripercorso la vicenda del suo popolo a partire dalla fondazione dello Stato di Israele e dalla guerra del 1948, con la conseguente distruzione di oltre 400 villaggi palestinesi e l’espulsione di oltre 700mila persone, costrette a cercare rifugio in Giordania e in Libano. Da allora, ha spiegato, «la popolazione palestinese è stata oggetto del maggior numero di risoluzioni delle Nazioni Unite – compresa quella che, nel 1994, garantiva il ritorno delle persone espulse nei loro territori – tutte rimaste completamente sulla carta: il 97% della terra palestinese è ancora saldamente nelle mani degli israeliani», i quali, dal muro dell’apartheid che attraversa la Cisgiordania agli insediamenti ebraici nei Territori Occupati fino al blocco della Striscia di Gaza, si sono resi responsabili di ogni possibile abuso nei confronti della popolazione palestinese.
Dipendenti dalla solidarietà
Preceduto dalla discussione dei delegati e delle delegate sulle proposte di azione che confluiranno nel documento finale che sarà consegnato a papa Francesco nel pomeriggio di sabato 5 novembre, è stato l’intervento di José “Pepe” Mujica – ex presidente dell’Uruguay e ancor prima dirigente del movimento guerrigliero Tupamaro, catturato dal regime e lasciato in prigione, in totale isolamento e in condizioni disumane, per oltre dodici anni (un paio dei quali passati in fondo a un pozzo, praticamente sepolto vivo) – a concludere la terza giornata di lavoro dell’incontro. Celebrato a livello mondiale per la sua onestà e la sua austerità personale, come pure per i successi del suo governo – aumento dei salari e delle pensioni, riduzione del tasso di disoccupazione, diminuzione dell’indice di povertà, più una serie di leggi all’avanguardia in materia di diversità sessuale (matrimonio omosessuale), riproduzione (legalizzazione dell’aborto) e droghe (legalizzazione della marijuana) -, ma anche oggetto delle critiche di una parte della sinistra, che gli ha rimproverato l’azzeramento del conflitto sociale mediante un discorso di conciliazione tra le classi, la rinuncia a realizzare riforme strutturali (ma garantendo programmi assistenziali a favore delle fasce più deboli e adottando provvedimenti nel campo dei diritti sociali e lavorativi) e il sostegno al modello estrattivista, attraverso l’espansione dell’industria forestale, della monocoltura della soia (maggioritariamente transgenica) e dell’attività mineraria, Mujica ha centrato il suo intervento sul valore dell’uguaglianza, affermato dalla Rivoluzione Francese ma presto messo da parte e dimenticato, come indica fin troppo chiaramente la realtà un mondo dominato da un processo mai così accentuato e rapido di concentrazione della ricchezza in poche mani. Un processo che, ha spiegato l’ex presidente, «finisce per diventare concentrazione di potere politico, in una sorta di circolo vizioso segnato da connessioni diaboliche», con conseguente perdita di credibilità della democrazia rappresentativa, espressione sempre più chiara di «una politica che ha smesso di essere passione per trasformarsi in un mestiere». E che, in questo modo, è venuta meno al compito di gestire i conflitti sociali, «imprescindibili come le rughe e i capelli bianchi», inchinandosi al capitale e al suo imperativo di «comprare, comprare e ancora comprare». È in questo quadro che si pone, secondo Mujica, la sfida di chi ha scelto la via della lotta, quella di «mettere la propria esistenza al servizio dell’esistenza degli altri», opponendo alla «dipendenza» dall’accumulo di ricchezze, quella dalla solidarietà nei confronti del prossimo e delle generazioni che verranno, la dipendenza da quell’utopia dell’uguaglianza che «deve guidarci nel divenire storico del genere umano, che sale di un gradino, ne scende due, e poi ancora risale, senza mai ottenere un trionfo definitivo», ma senza neppure lasciarsi mai paralizzare dai fallimenti: «Credo – ha concluso – nella capacità della specie umana di imparare dal dolore, di trarre più lezioni dagli errori che dai successi e di ottenere alla fine risultati importanti».

“Il futuro dell’umanità è nelle mani dei popoli”. Le parole del papa in chiusura del III Incontro dei Movimenti Popolari, 5 novembre 2016
Claudia Fanti ( Adista)
È una nuova pagina di un’alleanza ormai consolidata quella che papa Francesco e le organizzazioni popolari hanno scritto nel pomeriggio del 5 novembre nell’Aula Paolo VI, evento conclusivo del III Incontro dei Movimenti Popolari a cui sono stati invitati a prendere parte, insieme ai circa 200 delegati e delegate ufficiali, altri 3.300 rappresentati di un’ampia gamma di movimenti e associazioni del nostro Paese. È a tutti questi che, nel suo applauditissimo discorso, si è rivolto il papa, evidenziando il loro ruolo di «seminatori di cambiamento», «promotori di un processo in cui convergono milioni di piccole e grandi azioni concatenate in modo creativo, come in una poesia», e quindi a buon diritto definibili «poeti sociali». E ricordando i «compiti imprescindibili» sulla via della costruzione di «un’alternativa umana di fronte alla globalizzazione dell’indifferenza», già individuati nel II Incontro di Santa Cruz: «mettere l’economia al servizio dei popoli, costruire la pace e la giustizia, difendere la Madre Terra». Un progetto di vita che si oppone al consumismo e si riassume nella «felicità del “vivere bene”», quella «vita buona» alternativa all’«ideale egoista che ingannevolmente inverte le parole e propone la “bella vita”».
Sottolineando come le soluzioni concrete ai mali che affliggono l’umanità «non verranno fuori da una, tre o mille conferenze», ma saranno il «frutto di un discernimento collettivo che maturi nei territori», il papa ha esaltato la creatività e la speranza racchiuse nella voce dei movimenti, i quali, malgrado avrebbero forse «più motivi per lamentarsi» e per «cadere nella tentazione del negativo», continuano a guardare avanti, a discutere, a proporre e ad agire. E si è detto convinto che i loro sforzi stiano «mettendo radici», nonostante «la velocità di un meccanismo distruttivo», quello del «Denaro divinizzato» che opera in senso contrario: «C’è – ha detto il papa – un terrorismo di base che deriva dal controllo globale del denaro sulla Terra e minaccia l’intera umanità» ed è di questo che si alimentano i «terrorismi derivati», compresi quelli definiti erroneamente etnici o religiosi»: non sono infatti i popoli a essere terroristi, né le religioni, ma questo sistema fondato sul Denaro, una tirannia costituzionalmente terroristica, in quanto «nessuna tirannia si sostiene senza sfruttare le nostre paure». Paure a causa delle quali a cui i cittadini «che conservano alcuni diritti sono tentati dalla falsa sicurezza dei muri fisici o sociali»: «cittadini murati, terrorizzati, da un lato; esclusi, esiliati, ancora più terrorizzati, dall’altro».
Richiamandosi poi al nuovo Dicastero sullo Sviluppo Umano Integrale – uno sviluppo, cioè, che nulla ha a che vedere con la crescita economica o con una maggiore efficienza nella produzione di «cose che si comprano, si usano e si buttano inglobandoci tutti in una vertiginosa dinamica dello scarto» – il papa ha ricordato la sua decisione di riservare a sé la responsabilità della sezione relativa ai migranti, ai rifugiati e agli sfollati, «perché – ha detto – questa è una situazione obbrobriosa, che posso solo descrivere con una parola che mi venne fuori spontaneamente a Lampedusa: vergogna». La vergogna di folle esiliate «a causa di un sistema socio-economico ingiusto e di guerre» che non sono loro ad aver creato, quanto «piuttosto molti di coloro che si rifiutano» di accoglierle: «Nessuno dovrebbe vedersi costretto a fuggire dalla propria patria. Ma il male è doppio quando, davanti a quelle terribili circostanze, il migrante si vede gettato nelle grinfie dei trafficanti di persone per attraversare le frontiere, ed è triplo se, arrivando nella terra in cui si pensava di trovare un futuro migliore, si viene disprezzati, sfruttati, addirittura schiavizzati».
Quanto a un altro dei grandi temi affrontati nel III Incontro, quello del rapporto tra popolo e democrazia, il papa, dopo aver evidenziato come il divario tra i popoli e le nostre attuali forme di democrazia» si allarghi sempre più «come conseguenza dell’enorme potere dei gruppi economici e mediatici che sembrano dominarle», ha preferito mettere l’accento sui due rischi che corrono i movimenti nel loro rapporto con la politica: il «rischio di lasciarsi corrompere», a cui rispondere vivendo «la vocazione di servire con un forte senso di austerità e di umiltà», e «il rischio di lasciarsi incasellare». «Finché – ha spiegato il papa – vi mantenete nella casella delle “politiche sociali”, finché non mettete in discussione la politica economica o la politica con la maiuscola, vi si tollera». È quando i movimenti voltano le spalle all’«idea delle politiche sociali concepite come una politica verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri e tanto meno inserita in un progetto che riunisca i popoli»; è quando rifuggono alla tentazione di ridursi «ad attori secondari o, peggio, a meri amministratori della miseria esistente» e pretendono di entrare «sul terreno delle grandi decisioni che alcuni pretendono di monopolizzare in piccole caste», è allora che diventano intollerabili e cominciano a essere perseguitati. Eppure, ha concluso papa Francesco, il futuro dell’umanità «non è solo nelle mani dei grandi leader, delle grandi potenze e delle élite. È soprattutto nelle mani dei popoli; nella loro capacità di organizzarsi ed anche nelle loro mani che irrigano, con umiltà e convinzione, questo processo di cambiamento».
Le proposte dei movimenti
Se il discorso di papa Francesco è stato il culmine di quella festa di chiusura che è stato l’evento del 5 novembre, tra i momenti che l’hanno preceduto vi è stata anche – oltre alla consegna nelle mani del papa del documento di sintesi dei lavori di gruppo – la lettura del documento approvato dai delegati del III Incontro sulle Proposte di azione trasformatrice assunte dai movimenti popolari del mondo – in realtà più simili a delle dichiarazioni di principio, a conferma delle difficoltà che sempre insorgono al momento di passare realmente all’azione -: dalla lotta contro la privatizzazione dell’acqua alla difesa della sovranità alimentare, dall’introduzione di un salario sociale universale alla garanzia dell’inviolabilità della casa familiare (contro gli sgomberi che lasciano le famiglie senza un tetto) fino allo smantellamento dei muri dell’esclusione e della xenofobia.
Prima ancora, erano stati alcuni delegati e rappresentanti italiani ad alternarsi nella presentazione di brevi interventi (due per ognuno dei temi affrontati nell’incontro), senza tuttavia dissipare la sensazione di una sorta di occasione mancata: quella di permettere ai militanti delle organizzazioni italiane presenti – in fondo ridotti al ruolo di spettatori – di avviare un confronto, per quanto preliminare, con i delegati che hanno dato vita al III Incontro e di consentire a questi ultimi di illustrare i frutti della loro riflessione al di là della lettura delle “Proposte di azione trasformatrice”.

Il racconto di chi c’era all’incontro del papa coi movimenti sociali, sabato 5 novembre
Io c’ero all’incontro finale con il Papa del pomeriggio 05 novembre in Sala Nervi: ed è stata un’esperienza indimenticabile, che ho raccontato un po’ in diretta ad amici della Contina e scout usando i messaggi whatsapp.
Il discorso del Papa è stato potentissimo, pur se letto in castigliano con una voce pacata e forse un poco stanca. Ma anche gli interventi prima sono stati potentissimi: il rappresentante dei Ricicladores di Managua ha salutato all’inizio e alla fine i convenuti con un “Companheros y Comanheras che ha raccolto scroscianti applausi, anche dai vescovi presenti !
Porto Alegre è arrivato finalmente in Vaticano scrivevo agli amici: ci ha impiegato quasi 20 anni e c’è voluto un Vescovo di Roma venuto dalla fine del mondo !
Il suo discorso mi è sembrato arrivare dalla Selva Lacandona tra le montagne del Sudest Messicano: l’ho ascoltato come se fossi seduto lungo il lago di Tiberiade !
E mentre lo pronunciava il palco in cui sedevano i rappresentanti dei Movimenti Popolari – ad ognuna/o dei quali, per inciso, Francesco ha stretto la mano appena entrato in Sala Nervi – mi è sembrato che si popolasse delle figure che per la mia piccola esperienza di Chiesa hanno preparato, tenuto vivo e fatto avanzare il sogno del Vaticano II: da Lorenzo Milani a Papa Giovanni, da Ernesto Balducci a Davide Maria Turoldo, da Giorgio La Pira a Primo Mazzolari con Umberto Vivarelli, da Camillo De Piaz ad Abramo Levi, da Enzo Mazzi a Giulio Girardi, da Tonino Bello a Helder Camara, da Oscar Romero con Rutilio Grande a Ignacio Ellacuria e gli altri gesuiti dell’UCA e le loro inservienti con loro decapitati, da Marianella Garcia a Chico Mendes, da Carlo Maria Martini a Giacomo Lercaro, da Evaristo Arns con Aloisio Lorcheider a Mario Zanetta da Borgomanero (già Vescovo di Paulo Afonso, nell’interno dello Stato di Bahia, Brasile) a Camillo Torres, da Pino Puglisi a Beppe Diana… e migliaia di contadini, pescatori, operai, raccoglitori e riciclatori, ragazze madri, disoccupati, senza dimora, puttane, ladri per fame, … il meglio dell’umanità e il sogno della Chiesa annunciata dal Discorso alla Luna e dalla rivoluzione finalmente riconosciuta del Vaticano II
Un’esperienza indimenticabile ! Giovanni Gaiera

Discorso di papa Francesco al terzo incontro dei movimenti popolari Roma 5 novembre 2016

Fratelli e sorelle buon pomeriggio!
In questo nostro terzo incontro esprimiamo la stessa sete, la sete di giustizia, lo stesso grido: terra, casa e lavoro per tutti.
Ringrazio i delegati che sono venuti dalle periferie urbane, rurali e industriali dei cinque continenti, più di 60 Paesi, che sono venuti per discutere ancora una volta su come difendere questi diritti che radunano. Grazie ai Vescovi che sono venuti ad accompagnarvi. Grazie alle migliaia di italiani ed europei che si sono uniti oggi al termine di questo incontro. Grazie agli osservatori e ai giovani impegnati nella vita pubblica che sono venuti con umiltà ad ascoltare ed imparare. Quanta speranza ho nei giovani! Ringrazio anche Lei, Cardinale Turkson, per il lavoro che avete fatto nel Dicastero; e vorrei anche ricordare il contributo dell’ex Presidente uruguaiano José Mujica che è presente.Nel nostro ultimo incontro, in Bolivia, con maggioranza di latinoamericani, abbiamo parlato della necessità di un cambiamento perché la vita sia degna, un cambiamento di strutture; inoltre di come voi, i movimenti popolari, siete seminatori di cambiamento, promotori di un processo in cui convergono milioni di piccole e grandi azioni concatenate in modo creativo, come in una poesia; per questo ho voluto chiamarvi “poeti sociali”; e abbiamo anche elencato alcuni compiti imprescindibili per camminare verso un’alternativa umana di fronte alla globalizzazione dell’indifferenza: 1. mettere l’economia al servizio dei popoli; 2. costruire la pace e la giustizia; 3. difendere la Madre Terra.
Quel giorno, con la voce di una “cartonera” e di un contadino, vennero letti, alla conclusione, i dieci punti di Santa Cruz de la Sierra, dove la parola cambiamento era carica di gran contenuto, era legata alle cose fondamentali che voi rivendicate: lavoro dignitoso per quanti sono esclusi dal mercato del lavoro; terra per i contadini e le popolazioni indigene; abitazioni per le famiglie senza tetto; integrazione urbana per i quartieri popolari; eliminazione della discriminazione, della violenza contro le donne e delle nuove forme di schiavitù; la fine di tutte le guerre, del crimine organizzato e della repressione; libertà di espressione e di comunicazione democratica; scienza e tecnologia al servizio dei popoli. Abbiamo ascoltato anche come vi siete impegnati ad abbracciare un progetto di vita che respinga il consumismo e recuperi la solidarietà, l’amore tra di noi e il rispetto per la natura come valori essenziali. È la felicità di “vivere bene” ciò che voi reclamate, la “vita buona”, e non quell’ideale egoista che ingannevolmente inverte le parole e propone la “bella vita”.
Noi che oggi siamo qui, di origini, credenze e idee diverse, potremmo non essere d’accordo su tutto, sicuramente la pensiamo diversamente su molte cose, ma certamente siamo d’accordo su questi punti.
Ho saputo anche di incontri e laboratori tenuti in diversi Paesi, dove si sono moltiplicati i dibattiti alla luce della realtà di ogni comunità. Questo è molto importante perché le soluzioni reali alle problematiche attuali non verranno fuori da una, tre o mille conferenze: devono essere frutto di un discernimento collettivo che maturi nei territori insieme con i fratelli, un discernimento che diventa azione trasformatrice “secondo i luoghi, i tempi e le persone”, come diceva sant’Ignazio. Altrimenti, corriamo il rischio delle astrazioni, di «certi nominalismi dichiarazionisti (slogans) che sono belle frasi ma che non riescono a sostenere la vita delle nostre comunità» (Lettera al Presidente della Pontificia Commissione per l’America Latina, 19 marzo 2016). Sono slogan! Il colonialismo ideologico globalizzante cerca di imporre ricette sovraculturali che non rispettano l’identità dei popoli. Voi andate su un’altra strada che è, allo stesso tempo, locale e universale. Una strada che mi ricorda come Gesù chiese di organizzare la folla in gruppi di cinquanta per distribuire il pane (cfr Omelia nella Solennità del Corpus Domini, Buenos Aires, 12 giugno 2004).
Poco fa abbiamo potuto vedere il video che avete presentato come conclusione di questo terzo incontro. Abbiamo visto i vostri volti nelle discussioni su come affrontare “la disuguaglianza che genera violenza”. Tante proposte, tanta creatività, tanta speranza nella vostra voce che forse avrebbe più motivi per lamentarsi, rimanere bloccata nei conflitti, cadere nella tentazione del negativo. Eppure guardate avanti, pensate, discutete, proponete e agite. Mi congratulo con voi, vi accompagno e vi chiedo di continuare ad aprire strade e a lottare. Questo mi dà forza, questo ci dà forza. Credo che questo nostro dialogo, che si aggiunge agli sforzi di tanti milioni di persone che lavorano quotidianamente per la giustizia in tutto il mondo, sta mettendo radici.
Vorrei toccare alcuni temi più specifici, che sono quelli che ho ricevuto da voi e che mi hanno fatto riflettere e che ora vi riporto, in questo momento.
1. Il terrore e i muri
Tuttavia, questa germinazione, che è lenta – quella alla quale mi riferivo -, che ha i suoi tempi come tutte le gestazioni, è minacciata dalla velocità di un meccanismo distruttivo che opera in senso contrario. Ci sono forze potenti che possono neutralizzare questo processo di maturazione di un cambiamento che sia in grado di spostare il primato del denaro e mettere nuovamente al centro l’essere umano, l’uomo e la donna. Quel “filo invisibile” di cui abbiamo parlato in Bolivia, quella struttura ingiusta che collega tutte le esclusioni che voi soffrite, può consolidarsi e trasformarsi in una frusta, una frusta esistenziale che, come nell’Egitto dell’Antico Testamento, rende schiavi, ruba la libertà, colpisce senza misericordia alcuni e minaccia costantemente altri, per abbattere tutti come bestiame fin dove vuole il denaro divinizzato.
Chi governa allora? Il denaro. Come governa? Con la frusta della paura, della disuguaglianza, della violenza economica, sociale, culturale e militare che genera sempre più violenza in una spirale discendente che sembra non finire mai. Quanto dolore e quanta paura! C’è – l’ho detto di recente – c’è un terrorismo di base che deriva dal controllo globale del denaro sulla terra e minaccia l’intera umanità. Di questo terrorismo di base si alimentano i terrorismi derivati come il narco-terrorismo, il terrorismo di stato e quello che alcuni erroneamente chiamano terrorismo etnico o religioso. Ma nessun popolo, nessuna religione è terrorista! È vero, ci sono piccoli gruppi fondamentalisti da ogni parte. Ma il terrorismo inizia quando «hai cacciato via la meraviglia del creato, l’uomo e la donna, e hai messo lì il denaro» (Conferenza stampa nel volo di ritorno del Viaggio Apostolico in Polonia, 31 luglio 2016). Tale sistema è terroristico.
Quasi cent’anni fa, Pio XI prevedeva l’affermarsi di una dittatura economica globale che chiamò «imperialismo internazionale del denaro» (Lett. enc. Quadragesimo anno, 15 maggio 1931, 109). Sto parlando dell’anno 1931! L’aula in cui ora ci troviamo si chiama “Paolo VI”, e fu Paolo VI che denunciò quasi cinquant’anni fa, la «nuova forma abusiva di dominio economico sul piano sociale, culturale e anche politico» (Lett. ap. Octogesima adveniens, 14 maggio 1971, 44). Anno 1971. Sono parole dure ma giuste dei miei predecessori che scrutarono il futuro. La Chiesa e i profeti dicono, da millenni, quello che tanto scandalizza che lo ripeta il Papa in questo tempo in cui tutto ciò raggiunge espressioni inedite. Tutta la dottrina sociale della Chiesa e il magistero dei miei predecessori si ribella contro l’idolo denaro che regna invece di servire, tiranneggia e terrorizza l’umanità.
Nessuna tirannia si sostiene senza sfruttare le nostre paure. Questo è una chiave! Da qui il fatto che ogni tirannia sia terroristica. E quando questo terrore, che è stato seminato nelle periferie con massacri, saccheggi, oppressione e ingiustizia, esplode nei centri con diverse forme di violenza, persino con attentati odiosi e vili, i cittadini che ancora conservano alcuni diritti sono tentati dalla falsa sicurezza dei muri fisici o sociali. Muri che rinchiudono alcuni ed esiliano altri. Cittadini murati, terrorizzati, da un lato; esclusi, esiliati, ancora più terrorizzati, dall’altro. È questa la vita che Dio nostro Padre vuole per i suoi figli?
La paura viene alimentata, manipolata… Perché la paura, oltre ad essere un buon affare per i mercanti di armi e di morte, ci indebolisce, ci destabilizza, distrugge le nostre difese psicologiche e spirituali, ci anestetizza di fronte alla sofferenza degli altri e alla fine ci rende crudeli. Quando sentiamo che si festeggia la morte di un giovane che forse ha sbagliato strada, quando vediamo che si preferisce la guerra alla pace, quando vediamo che si diffonde la xenofobia, quando constatiamo che guadagnano terreno le proposte intolleranti; dietro questa crudeltà che sembra massificarsi c’è il freddo soffio della paura. Vi chiedo di pregare per tutti coloro che hanno paura, preghiamo che Dio dia loro coraggio e che in questo anno della misericordia possa ammorbidire i nostri cuori. La misericordia non è facile, non è facile… richiede coraggio. Per questo Gesù ci dice: «Non abbiate paura» (Mt 14,27), perché la misericordia è il miglior antidoto contro la paura. E’ molto meglio degli antidepressivi e degli ansiolitici. Molto più efficace dei muri, delle inferriate, degli allarmi e delle armi. Ed è gratis: è un dono di Dio.
Cari fratelli e sorelle, tutti i muri cadono. Tutti. Non lasciamoci ingannare. Come avete detto voi: «Continuiamo a lavorare per costruire ponti tra i popoli, ponti che ci permettano di abbattere i muri dell’esclusione e dello sfruttamento» (Documento Conclusivo del II Incontro mondiale dei movimenti popolari, 11 luglio 2015, Santa Cruz de la Sierra, Bolivia). Affrontiamo il terrore con l’amore.
Il secondo punto che voglio toccare è: l’Amore e i ponti.
Un giorno come questo, un sabato, Gesù fece due cose che, ci dice il Vangelo, affrettarono il complotto per ucciderlo. Passava con i suoi discepoli per un campo da semina. I discepoli avevano fame e mangiarono le spighe. Niente si dice del “padrone” di quel campo… soggiacente è la destinazione universale dei beni. Quello che è certo è che, di fronte alla fame, Gesù ha dato priorità alla dignità dei figli di Dio su un’interpretazione formalistica, accomodante e interessata dalla norma. Quando i dottori della legge lamentarono con indignazione ipocrita, Gesù ricordò loro che Dio vuole amore e non sacrifici, e spiegò che il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato (cfr Mc 2,27). Affrontò il pensiero ipocrita e presuntuoso con l’intelligenza umile del cuore (cfr Omelia, I Congreso de Evangelización de la Cultura, Buenos Aires, 3 novembre 2006), che dà sempre la priorità all’uomo e non accetta che determinate logiche impediscano la sua libertà di vivere, amare e servire il prossimo.
E dopo, in quello stesso giorno, Gesù fece qualcosa di “peggiore”, qualcosa che irritò ancora di più gli ipocriti e i superbi che lo stavano osservando perché cercavano una scusa per catturarlo. Guarì la mano atrofizzata di un uomo. La mano, questo segno tanto forte dell’operare, del lavoro. Gesù restituì a quell’uomo la capacità di lavorare e con questo gli restituì la dignità. Quante mani atrofizzate, quante persone private della dignità del lavoro! Perché gli ipocriti, per difendere sistemi ingiusti, si oppongono a che siano guariti. A volte penso che quando voi, i poveri organizzati, vi inventate il vostro lavoro, creando una cooperativa, recuperando una fabbrica fallita, riciclando gli scarti della società dei consumi, affrontando l’inclemenza del tempo per vendere in una piazza, rivendicando un pezzetto di terra da coltivare per nutrire chi ha fame, quando fate questo state imitando Gesù, perché cercate di risanare, anche se solo un pochino, anche se precariamente, questa atrofia del sistema socio-economico imperante che è la disoccupazione. Non mi stupisce che anche voi a volte siate sorvegliati o perseguitati, né mi stupisce che ai superbi non interessi quello che voi dite.
Gesù che quel sabato rischiò la vita, perché, dopo che guarì quella mano, farisei ed erodiani (cfr Mc 3,6), due partiti opposti tra loro, che temevano il popolo e anche l’impero, fecero i loro calcoli e complottarono per ucciderlo. So che molti di voi rischiano la vita. So – e lo voglio ricordare, e la voglio ricordare – che alcuni non sono qui oggi perché si sono giocati la vita… Per questo non c’è amore più grande che dare la vita. Questo ci insegna Gesù.
Le 3-T, il vostro grido che faccio mio, ha qualcosa di quella intelligenza umile ma al tempo stesso forte e risanatrice. Un progetto-ponte dei popoli di fronte al progetto-muro del denaro. Un progetto che mira allo sviluppo umano integrale. Alcuni sanno che il nostro amico il Cardinale Turkson presiede adesso il Dicastero che porta questo nome: Sviluppo Umano Integrale. Il contrario dello sviluppo, si potrebbe dire, è l’atrofia, la paralisi. Dobbiamo aiutare a guarire il mondo dalla sua atrofia morale. Questo sistema atrofizzato è in grado di fornire alcune “protesi” cosmetiche che non sono vero sviluppo: crescita economica, progressi tecnologici, maggiore “efficienza” per produrre cose che si comprano, si usano e si buttano inglobandoci tutti in una vertiginosa dinamica dello scarto… Ma questo mondo non consente lo sviluppo dell’essere umano nella sua integralità, lo sviluppo che non si riduce al consumo, che non si riduce al benessere di pochi, che include tutti i popoli e le persone nella pienezza della loro dignità, godendo fraternamente la meraviglia del creato. Questo è lo sviluppo di cui abbiamo bisogno: umano, integrale, rispettoso del creato, di questa casa comune.
Un altro punto è: Bancarotta e salvataggio.
Cari fratelli, voglio condividere con voi alcune riflessioni su altri due temi che, insieme alle “3-T” e all’ecologia integrale, sono stati al centro dei vostri dibattiti degli ultimi giorni e sono centrali in questo periodo storico.
So che avete dedicato una giornata al dramma dei migranti, dei rifugiati e degli sfollati. Cosa fare di fronte a questa tragedia? Nel Dicastero di cui è responsabile il Cardinale Turkson c’è una sezione che si occupa di queste situazioni. Ho deciso che, almeno per un certo tempo, quella sezione dipenda direttamente dal Pontefice, perché questa è una situazione obbrobriosa, che posso solo descrivere con una parola che mi venne fuori spontaneamente a Lampedusa: vergogna.
Lì, come anche a Lesbo, ho potuto ascoltare da vicino la sofferenza di tante famiglie espulse dalla loro terra per motivi economici o violenze di ogni genere, folle esiliate – l’ho detto di fronte alle autorità di tutto il mondo – a causa di un sistema socio-economico ingiusto e delle guerre che non hanno cercato, che non hanno creato coloro che oggi soffrono il doloroso sradicamento dalla loro patria, ma piuttosto molti di coloro che si rifiutano di riceverli.
Faccio mie le parole di mio fratello l’Arcivescovo Hieronymos di Grecia: «Chi vede gli occhi dei bambini che incontriamo nei campi profughi è in grado di riconoscere immediatamente, nella sua interezza, la “bancarotta” dell’umanità» (Discorso nel Campo profughi di Moria, Lesbos, 16 aprile 2016). Cosa succede al mondo di oggi che, quando avviene la bancarotta di una banca, immediatamente appaiono somme scandalose per salvarla, ma quando avviene questa bancarotta dell’umanità non c’è quasi una millesima parte per salvare quei fratelli che soffrono tanto? E così il Mediterraneo è diventato un cimitero, e non solo il Mediterraneo… molti cimiteri vicino ai muri, muri macchiati di sangue innocente. Nei giorni di questo incontro – lo dite nel video – quanti sono i morti nel Mediterraneo?
La paura indurisce il cuore e si trasforma in crudeltà cieca che si rifiuta di vedere il sangue, il dolore, il volto dell’altro. Lo ha detto il mio fratello il Patriarca Bartolomeo: «Chi ha paura di voi non vi ha guardato negli occhi. Chi ha paura di voi non ha visto i vostri volti. Chi ha paura non vede i vostri figli. Dimentica che la dignità e la libertà trascendono la paura e trascendono la divisione. Dimentica che la migrazione non è un problema del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale, dell’Europa e della Grecia. È un problema del mondo» (Discorso nel Campo profughi di Moria, Lesbos, 16 aprile 2016).
E’, veramente, un problema del mondo. Nessuno dovrebbe vedersi costretto a fuggire dalla propria patria. Ma il male è doppio quando, davanti a quelle terribili circostanze, il migrante si vede gettato nelle grinfie dei trafficanti di persone per attraversare le frontiere, ed è triplo se arrivando nella terra in cui si pensava di trovare un futuro migliore, si viene disprezzati, sfruttati, addirittura schiavizzati. Questo si può vedere in qualunque angolo di centinaia di città. O semplicemente non si lasciano entrare.
Chiedo a voi di fare tutto il possibile; di non dimenticare mai che anche Gesù, Maria e Giuseppe sperimentarono la condizione drammatica dei rifugiati. Vi chiedo di esercitare quella solidarietà così speciale che esiste tra coloro che hanno sofferto. Voi sapete recuperare fabbriche dai fallimenti, riciclare ciò che altri gettano, creare posti di lavoro, coltivare la terra, costruire abitazioni, integrare quartieri segregati e reclamare senza sosta come la vedova del Vangelo che chiede giustizia insistentemente (cfr Lc 18,1-8). Forse con il vostro esempio e la vostra insistenza, alcuni Stati e Organizzazioni internazionali apriranno gli occhi e adotteranno le misure adeguate per accogliere e integrare pienamente tutti coloro che, per un motivo o per un altro, cercano rifugio lontano da casa. E anche per affrontare le cause profonde per cui migliaia di uomini, donne e bambini vengono espulsi ogni giorno dalla loro terra natale.
Dare l’esempio e reclamare è un modo di fare politica, e questo mi porta al secondo tema che avete dibattuto nel vostro incontro: il rapporto tra popolo e democrazia. Un rapporto che dovrebbe essere naturale e fluido, ma che corre il pericolo di offuscarsi fino a diventare irriconoscibile. Il divario tra i popoli e le nostre attuali forme di democrazia si allarga sempre più come conseguenza dell’enorme potere dei gruppi economici e mediatici che sembrano dominarle. I movimenti popolari, lo so, non sono partiti politici e lasciate che vi dica che, in gran parte, qui sta la vostra ricchezza, perché esprimete una forma diversa, dinamica e vitale di partecipazione sociale alla vita pubblica. Ma non abbiate paura di entrare nelle grandi discussioni, nella Politica con la maiuscola, e cito di nuovo Paolo VI: «La politica è una maniera esigente – ma non è la sola – di vivere l’impegno cristiano al servizio degli altri» (Lett. ap. Octogesima adveniens, 14 maggio 1971, 46). O questa frase che ripeto tante volte, e sempre mi confondo, non so se è di Paolo VI o di Pio XII: “La politica è una delle forme più alte della carità, dell’amore”.
Vorrei sottolineare due rischi che ruotano attorno al rapporto tra i movimenti popolari e politica: il rischio di lasciarsi incasellare e il rischio di lasciarsi corrompere.
Primo rischio, non lasciarsi imbrigliare, perché alcuni dicono: la cooperativa, la mensa, l’orto agroecologico, le microimprese, il progetto dei piani assistenziali… fin qui tutto bene. Finché vi mantenete nella casella delle “politiche sociali”, finché non mettete in discussione la politica economica o la politica con la maiuscola, vi si tollera. Quell’idea delle politiche sociali concepite come una politica verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei i poveri e tanto meno inserita in un progetto che riunisca i popoli, mi sembra a volte una specie di carro mascherato per contenere gli scarti del sistema. Quando voi, dal vostro attaccamento al territorio, dalla vostra realtà quotidiana, dal quartiere, dal locale, dalla organizzazione del lavoro comunitario, dai rapporti da persona a persona, osate mettere in discussione le “macrorelazioni”, quando strillate, quando gridate, quando pretendete di indicare al potere una impostazione più integrale, allora non ci si tollera, non ci si tollera più tanto perché state uscendo dalla casella, vi state mettendo sul terreno delle grandi decisioni che alcuni pretendono di monopolizzare in piccole caste. Così la democrazia si atrofizza, diventa un nominalismo, una formalità, perde rappresentatività, va disincarnandosi perché lascia fuori il popolo nella sua lotta quotidiana per la dignità, nella costruzione del suo destino.
Voi, organizzazioni degli esclusi e tante organizzazioni di altri settori della società, siete chiamati a rivitalizzare, a rifondare le democrazie che stanno attraversando una vera crisi. Non cadete nella tentazione della casella che vi riduce ad attori secondari o, peggio, a meri amministratori della miseria esistente. In questi tempi di paralisi, disorientamento e proposte distruttive, la partecipazione da protagonisti dei popoli che cercano il bene comune può vincere, con l’aiuto di Dio, i falsi profeti che sfruttano la paura e la disperazione, che vendono formule magiche di odio e crudeltà o di un benessere egoistico e una sicurezza illusoria.
Sappiamo che «finché non si risolveranno radicalmente i problemi dei poveri, rinunciando all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredendo le cause strutturali della inequità, non si risolveranno i problemi del mondo e in definitiva nessun problema. L’inequità è la radice dei mali sociali» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 202). Per questo, l’ho detto e lo ripeto, «il futuro dell’umanità non è solo nelle mani dei grandi leader, delle grandi potenze e delle élite. E’ soprattutto nelle mani dei popoli; nella loro capacità di organizzarsi ed anche nelle loro mani che irrigano, con umiltà e convinzione, questo processo di cambiamento» (Discorso al II incontro mondiale dei movimenti popolari, Santa Cruz de la Sierra, 9 luglio 2015). Anche la Chiesa può e deve, senza pretendere di avere il monopolio della verità, pronunciarsi e agire specialmente davanti a «situazioni in cui si toccano le piaghe e le sofferenze drammatiche, e nelle quali sono coinvolti i valori, l’etica, le scienze sociali e la fede» (Intervento al vertice di giudici e magistrati contro il traffico di persone e il crimine organizzato, Vaticano, 3 giugno 2016). Questo è il primo rischio: il rischio di lasciarsi incasellare e l’invito a mettersi nella grande politica.
Il secondo rischio, vi dicevo, è lasciarsi corrompere. Come la politica non è una questione dei “politici”, la corruzione non è un vizio esclusivo della politica. C’è corruzione nella politica, c’è corruzione nelle imprese, c’è corruzione nei mezzi di comunicazione, c’è corruzione nelle chiese e c’è corruzione anche nelle organizzazioni sociali e nei movimenti popolari. E’ giusto dire che c’è una corruzione radicata in alcuni ambiti della vita economica, in particolare nell’attività finanziaria, e che fa meno notizia della corruzione direttamente legata all’ambito politico e sociale. E’ giusto dire che tante volte si utilizzano i casi corruzione con cattive intenzioni. Ma è anche giusto chiarire che quanti hanno scelto una vita di servizio hanno un obbligo ulteriore che si aggiunge all’onestà con cui qualunque persona deve agire nella vita. La misura è molto alta: bisogna vivere la vocazione di servire con un forte senso di austerità e di umiltà. Questo vale per i politici ma vale anche per i dirigenti sociali e per noi pastori. Ho detto “austerità” e vorrei chiarire a cosa mi riferisco con la parola austerità, perché può essere una parola equivoca. Intendo austerità morale, austerità nel modo di vivere, austerità nel modo in cui porto avanti la mia vita, la mia famiglia. Austerità morale e umana. Perché in campo più scientifico, scientifico-economico, se volete, o delle scienze del mercato, austerità è sinonimo di aggiustamento… Non mi riferisco a questo, non sto parlando di questo.
A qualsiasi persona che sia troppo attaccata alle cose materiali o allo specchio, a chi ama il denaro, i banchetti esuberanti, le case sontuose, gli abiti raffinati, le auto di lusso, consiglierei di capire che cosa sta succedendo nel suo cuore e di pregare Dio di liberarlo da questi lacci. Ma, parafrasando l’ex-presidente latinoamericano che si trova qui, colui che sia affezionato a tutte queste cose, per favore, che non si metta in politica, che non si metta in un’organizzazione sociale o in un movimento popolare, perché farebbe molto danno a sé stesso, al prossimo e sporcherebbe la nobile causa che ha intrapreso. E che neanche si metta nel seminario!
Davanti alla tentazione della corruzione, non c’è miglior rimedio dell’austerità, questa austerità morale, personale; e praticare l’austerità è, in più, predicare con l’esempio. Vi chiedo di non sottovalutare il valore dell’esempio perché ha più forza di mille parole, di mille volantini, di mille “mi piace”, di mille tweets, di mille video su youtube. L’esempio di una vita austera al servizio del prossimo è il modo migliore per promuovere il bene comune e il progetto-ponte delle “3-T”. Chiedo a voi dirigenti di non stancarvi di praticare questa austerità morale, personale, e chiedo a tutti di esigere dai dirigenti questa austerità, che – del resto – li farà essere molto felici.
Care sorelle e cari fratelli,
la corruzione, la superbia e l’esibizionismo dei dirigenti aumenta il discredito collettivo, la sensazione di abbandono e alimenta il meccanismo della paura che sostiene questo sistema iniquo.
Vorrei, per concludere, chiedervi di continuare a contrastare la paura con una vita di servizio, solidarietà e umiltà in favore dei popoli e specialmente di quelli che soffrono. Potrete sbagliare tante volte, tutti sbagliamo, ma se perseveriamo in questo cammino, presto o tardi, vedremo i frutti. E insisto: contro il terrore, il miglior rimedio è l’amore. L’amore guarisce tutto. Alcuni sanno che dopo il Sinodo sulla famiglia ho scritto un documento che ha per titolo “Amoris laetitia” – la “gioia dell’amore” – un documento sull’amore nelle singole famiglie, ma anche in quell’altra famiglia che è il quartiere, la comunità, il popolo, l’umanità. Uno di voi mi ha chiesto di distribuire un fascicolo che contiene un frammento del capitolo quarto di questo documento. Penso che ve lo consegneranno all’uscita. E quindi con la mia benedizione. Lì ci sono alcuni “consigli utili” per praticare il più importante dei comandamenti di Gesù.
In Amoris laetitia cito un compianto leader afroamericano, Martin Luther King, il quale sapeva sempre scegliere l’amore fraterno persino in mezzo alle peggiori persecuzioni e umiliazioni. Voglio ricordarlo oggi con voi; diceva: «Quando ti elevi al livello dell’amore, della sua grande bellezza e potere, l’unica cosa che cerchi di sconfiggere sono i sistemi maligni. Le persone che sono intrappolate da quel sistema le ami, però cerchi di sconfiggere quel sistema […] Odio per odio intensifica solo l’esistenza dell’odio e del male nell’universo. Se io ti colpisco e tu mi colpisci, e ti restituisco il colpo e tu mi restituisci il colpo, e così di seguito, è evidente che si continua all’infinito. Semplicemente non finisce mai. Da qualche parte, qualcuno deve avere un po’ di buon senso, e quella è la persona forte. La persona forte è la persona che è capace di spezzare la catena dell’odio, la catena del male» (n. 118; Sermone nella chiesa Battista di Dexter Avenue, Montgomery, Alabama, 17 novembre 1957). Questo lo ha detto nel 1957.
Vi ringrazio nuovamente per il vostro lavoro, per la vostra presenza. Desidero chiedere a Dio nostro Padre che vi accompagni e vi benedica, che vi riempia del suo amore e vi difenda nel cammino dandovi in abbondanza la forza che ci mantiene in piedi e ci dà il coraggio per rompere la catena dell’odio: quella forza è la speranza. Vi chiedo per favore di pregare per me, e quelli che non possono pregare, lo sapete, pensatemi bene e mandatemi una buona onda. Grazie.

Siti WEB

Sito web dei Movimenti Popolari : http://movimientospopulares.org
Sul sito del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace:
http://www.iustitiaetpax.va/content/giustiziaepace/it/eventi/convegni-realizzati/2014/convegno-mondiale-deimovimenti-popolari–roma–27-29-ottobre-20.html
I discorsi di Papa Francesco in occasione dei due incontri precedenti:
I incontro EMMP: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2015/july/documents/papafrancesco_
20150709_bolivia-movimenti-popolari.html
II Incontro EMMP: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2014/october/documents/papafrancesco_
20141028_incontro-mondiale-movimenti-popolari.html
Vittorio Agnoletto Libera Italy : https://youtu.be/1flAj74CIsc
Joao Pedro Stedile MST La Via Campesina Brasil: https://youtu.be/oQjRXQxEnbE
Rita Zanotto MST La Via Campesina Brasil : https://youtu.be/T5c1J_kidNY
Paul Nicholson La Via Campesina Ehne Basque Country : https://youtu.be/i3HPpoF9Spo
Bishop Micheal Czerny State of Vatican: https://youtu.be/WHc0KC7J098
Il video conclusivo dell’incontro dei movimenti popolari 2-5 novembre 2016: https://youtu.be/BfiGHKHcYpY

I documenti finali approvati al terzo incontro dei movimenti sociali con papa Francesco, Roma 2-5 novembre 2016
PROPOSTE DI AZIONE TRASFORMATRICE ASSUNTE DAI MOVIMENTI POPOLARI DEL MONDO IN DIALOGO CON PAPA FRANCESCO
Gli scartati del sistema, uomini e donne, riuniti in questo III Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari, individuano la causa comune e strutturale della crisi socio-ambientale nella tirannia del denaro, cioè nel sistema capitalista imperante e in un’ideologia che non rispetta la dignità umana.
Siamo creditori di un debito storico, sociale, economico, politico e ambientale che deve essere saldato. Per questo, abbiamo formulato collettivamente centinaia di proposte derivate dai dieci impegni assunti nell’Incontro di Santa Cruz de la Sierra, nel 2015. Sono tutte importanti, ma, in questa occasione, ci limitiamo a condividere le seguenti affermazioni:
1.Vogliamo ricordare Bertha Cáceres, portavoce del nostro primo Incontro, assassinata per la sua lotta a favore dei processi di cambiamento, ed esigiamo la fine della persecuzione di tutti i lottatori popolari. I nostri popoli difendono il diritto alla pace sulla base della giustizia sociale.
2. Nella prospettiva di una democrazia partecipativa e piena, proponiamo di dare impulso a meccanismi istituzionali che garantiscano l’accesso effettivo dei movimenti popolari, delle comunità originarie e del popolo al processo decisionale in ambito politico ed economico.
3. Nella prospettiva della destinazione universale dei beni della natura, respingiamo la privatizzazione dell’acqua, che esigiamo venga considerata come un bene di dominio pubblico, in linea con la Dichiarazione delle Nazioni Unite, affinché nessuna persona sia privata dell’accesso a questo diritto umano elementare.
4. Nella prospettiva di una riforma agraria integrale e popolare, proponiamo di proibire i brevetti e la manipolazione genetica di tutte le forme di vita, in particolare delle sementi. Ribadiamo il nostro impegno a difendere la sovranità alimentare e il diritto umano a una alimentazione sana, senza veleni agricoli, per porre fine ai gravi problemi di nutrizione di cui soffrono miliardi di persone.
5. Nella prospettiva di una riforma del lavoro nel segno della giustizia, che garantisca l’accesso pieno a un lavoro dignitoso, proponiamo l’introduzione di un salario sociale universale per tutti i lavoratori, che siano del settore pubblico, di quello privato o dell’economia popolare.
6. Nella prospettiva di una riforma urbana integrale che assicuri l’accesso a una casa dignitosa e all’habitat, proponiamo che venga dichiarata l’inviolabilità della dimora familiare, per mettere fine agli sfratti che lasciano le famiglie senza un tetto.
7. Nella prospettiva della costruzione di ponti tra i popoli, proponiamo di costruire una cittadinanza universale che, senza disconoscere le identità originarie, smantelli i muri dell’esclusione e della xenofobia, accogliendo degnamente quanti si vedono obbligati ad abbandonare le proprie case.
Intendiamo lavorare insieme a Francesco affinché tali proposte si trasformino in realtà concreta come diritti esigibili e rispettati a livello locale, nazionale e internazionale. Incoraggiamo le Chiese locali a trasformare in realtà i messaggi del Papa.

SINTESI DEI LAVORI DI GRUPPO. STRATEGIE COMUNI A TUTTE LE LINEE DI AZIONE

Rafforzare gli spazi di qualificazione, formazione e coscientizzazione dei nostri movimenti.
Creare spazi di comunicazione e interconnessione fluidi e costanti, attraverso dibattiti, scambi, agende di lavoro e la pagina web dei Movimenti Popolari.
Solidarietà e creazione di alleanze a livello internazionale tra di noi e con altre istanze, oltre alle agende di lavoro che possono essere messe a punto rispetto a ciascuna delle tre “T” (Tierra, Techo, Trabajo).
Appoggio della Chiesa ai processi formativi, con investimenti economici ma anche nel rapporto con i governi.
Articolare le organizzazioni popolari e istituzioni come la Chiesa attraverso spazi di dialogo che rendano possibili i dibattiti sulle problematiche dell’agenda internazionale.
Dar vita a campagne locali e globali sui problemi relativi a Casa, Lavoro, Terra, Popolo e Democrazia, Territorio e Natura e Rifugiati e Sfollati.
POPOLO E DEMOCRAZIA
Queste le conclusioni:
Intendiamo come democrazia partecipativa quella che incorpora meccanismi di partecipazione dei settori dei lavoratori, delle donne, degli indigeni, degli oppressi, della società civile in generale nel processo decisionale e nel controllo sociale della politica pubblica.
Ci troviamo in un contesto segnato da una trasformazione o mutazione sociale, in cui la logica capitalista si è estesa anche all’azione politica. L’individualismo e la centralità del profitto e della ricchezza si sono infiltrati nelle organizzazioni politiche, lasciando sempre meno spazio ai movimenti popolari e svincolando la pubblica amministrazione dagli interessi del bene comune.
Constatiamo con tristezza che le cosiddette democrazie rappresentative rappresentano sempre di più le élite economiche, il capitale, le banche e non sempre il popolo.
Assistiamo anche a una persecuzione politica delle lotte sociali in ogni angolo del pianeta, dinanzi a cui esprimiamo il nostro più energico rifiuto.
In alcuni Paesi, soprattutto latinoamericani, si viene producendo un attacco delle oligarchie locali ai governi insediatisi recentemente. Riteniamo che ciò dipenda dall’importanza geopolitica delle risorse naturali di cui dispone la regione e dal fatto che la loro amministrazione a beneficio della popolazione da parte di questi governi vada contro gli interessi delle minoranze e delle élite politico-economiche.
Tuttavia, abbiamo anche condiviso a partire dalla nostra esperienza quotidiana esperienze di trasformazione e cambiamento politico che hanno avuto luogo in varie regioni del mondo, come esempi di rafforzamento della democrazia attraverso consultazioni popolari, pianificazioni partecipative della gestione locale, audit sociali sulle politiche pubbliche, iniziative di legge a partire dalla società civile e a suo favore.
Celebriamo il fatto che molti dei sindacati e dei movimenti popolari sono autentici strumenti dell’esercizio della democrazia partecipativa, in grado di dimostrare solidarietà a partire dalla base. La strada, l’assemblea, la mobilitazione ci hanno educato alla cittadinanza; la strada continua a essere la nostra risorsa.
Proponiamo di:
1. Costruire in unità e sulla base della diversità e della pluralità delle nostre organizzazioni sociali una “AGENDA DEI MOVIMENTI SOCIALI”, e fare in modo che sia riconosciuta, assunta e messa in pratica dai governi.
2. Elaborare e delineare campagne di carattere politico, proposte cittadine e iniziative legislative che promuovano una democrazia partecipativa nella quale il popolo sia protagonista.
3. Promuovere spazi di dialogo con le istituzioni pubbliche, con distinte strutture dell’amministrazione pubblica degli Stati, come cammino effettivo per far giungere le nostre richieste.
4. Fare in modo che i leader dei nostri movimenti popolari integrino l’azione politica negli ambiti istituzionali, in rappresentanza del popolo, delle comunità di base e dei lavoratori, parlando la nostra stessa lingua, facendosi portavoce del sentire e delle rivendicazioni della società, traducendo le nostre proposte in politiche pubbliche a favore delle maggioranze popolari.
5. Esprimere lo scontento sociale, passando dalla rivendicazione settoriale a proposte sempre più integrate e strutturali, combinate, eventualmente, con campagne mondiali e mobilitazioni di massa a favore dei nostri diritti, affinché si tenga conto delle nostre proposte.
6. Creare reti e sinergie che vadano oltre la sfera locale. La solidarietà è fondamentale per promuovere e sostenere le nostre lotte.
7. Perseguire la democratizzazione dei mezzi di comunicazione, delle diagnosi e delle proposte dei movimenti popolari.
TERRITORIO E NATURA
Queste le nostre conclusioni:
Non possiamo parlare dei problemi della terra e del territorio senza parlare delle persone che vivono lì e dell’ecosistema che le abbraccia.
Non possiamo affrontare i problemi ambientali senza occuparci del diritto al lavoro e alla salute dei popoli, dei conflitti armati e degli interessi delle multinazionali che appartengono alla dimensione di ciò che Papa Francesco definisce come “ecologia integrale”.
Proponiamo di:
1. Lottare a favore della sovranità alimentare e contro le multinazionali e l’uso di veleni agricoli e dei transgenici sulla nostra terra. Vogliamo che venga riconosciuto il significato culturale della terra, dell’acqua e dei beni comuni, delle risorse condivise e dei diritti umani.
2. Predisporre azioni di contrasto alla privatizzazione dell’acqua e alle attività estrattive da parte delle multinazionali.
3. Esigere il rispetto della dichiarazione delle Nazioni Unite che dichiara l’acqua e i servizi igienico-sanitari di base come “diritti umani essenziali per il godimento pieno della vita e di tutti i diritti umani”.
4. Esercitare pressioni a favore della democratizzazione del suolo e della ristrutturazione della proprietà della terra, affinché sia ridistribuita tra quanti la lavorano.
5. Avanzare verso forme di proprietà collettiva, che evitino la mercificazione della terra e il suo uso a fini di profitto.
6. Perseguire il riconoscimento di nuove forme di territorialità, come i territori contadini agro-alimentari, i sistemi di protezione indigeni, i consigli comunitari, le zone di autogestione contadino-indigene.
7. Creare e rafforzare reti di lavoro globali per pianificare e coordinare azioni in difesa dell’ambiente, in rappresentanza dei 5 continenti, come la “Giornata mondiale dell’ambiente” (5 giugno) e la “Giornata mondiale per la difesa della sovranità alimentare” (16 ottobre).
8. Respingere e denunciare ogni forma di persecuzione, estorsione e criminalizzazione dei lottatori per la terra.
9. Diffondere lo slogan “Ridurre, Riutilizzare, Riciclare” per promuovere cambiamenti di condotta e ridurre i livelli di contaminazione dell’ambiente. Un compito a cui dovranno partecipare, in maniera particolare, i cartoneros e i riciclatori, essendo loro a svolgere quotidianamente questo servizio fondamentale per la cura dell’ambiente.
10. Lottare per il riconoscimento politico del settore contadino come soggetto sociale e favorirne la partecipazione reale al processo decisionale relativamente alle questioni che lo riguardano.
11. Esigere l’applicazione del diritto alla consultazione stabilito dalla Convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro per qualunque iniziativa che si sviluppi nei suoi territori.
12. Esercitare pressioni a favore della promulgazione di leggi che proibiscano lo sfruttamento dei beni naturali e le attività estrattive dannose per l’ambiente (come l’uso di veleni agricoli) che abbiano come fine ultimo il profitto delle transnazionali. Lo Stato deve operare affinché tali attività prevedano meccanismi di difesa della natura come bene comune e sanzioni a chi non li rispetta.
13. Rifiutare processi di produzione industriale e di coltivazione della terra inquinanti e dannosi per la biodiversità.
14. Invitare i settori accademici e scientifici a offrire le loro conoscenze tecnologiche a favore di processi di produzione alternativi che permettano la cura della madre terra preservando la fonte di lavoro per migliaia di famiglie.
15. Promuovere l’investimento pubblico nell’infrastruttura di base per facilitare l’accesso all’acqua potabile.
LAVORO
Queste le nostre conclusioni:
Il paradigma del lavoro come “impiego” si è esaurito. Tanto nei Paesi del Sud come in quelli del Nord i lavoratori hanno assistito a una perdita sistematica dei diritti lavorativi e sociali. Abbiamo bisogno di un modello di lavoro degno perché coloro che lavorano, uomini e donne, abbiano dignità in uguaglianza di diritti.
Stiamo vivendo situazioni di sfruttamento e di precarietà in ogni parte del mondo. Se un tempo il lavoro garantiva l’accesso ai diritti sociali elementari, oggi questo consenso si è rotto e noi militanti dei movimenti popolari abbiamo creato molte forme diverse di accesso a un lavoro dignitoso e di conquista dei diritti che ci spettano. Tuttavia, le nostre iniziative sono permanentemente minacciate dal capitale, dalle grandi imprese, dagli Stati che non prestano ascolto alle nostre richieste, dalla polizia che ci perseguita e ci maltratta mettendo costantemente a repentaglio la nostra fonte di lavoro.
Proponiamo di:
1. Introdurre un salario sociale complementare per i lavoratori dell’economia popolare e i lavoratori di base (reddito per la vita, reddito di responsabilità).
2. Ottenere il loro riconoscimento come lavoratori e lavoratrici per poter avanzare nella conquista dei diritti che spettano loro. Esiste una tensione attorno al concetto di “informalità”. Alcuni compagni e compagne respingono questo termine evidenziando come non si tratti di lavoratori informali ma di costruttori di un’“economia popolare”.
3. Iniziare un dialogo e una collaborazione con i sindacati, i quali storicamente sono stati il motore delle lotte del movimento operaio organizzato, giacché le nostre e le loro prospettive di futuro sono vincolate. Questo dialogo deve aver luogo a livello tanto locale quanto internazionale. In vari dei nostri Paesi abbiamo creato sindacati e forme di associazione dei lavoratori dell’economia popolare o informale.
4. Sviluppare azioni internazionali congiunte il primo maggio, giornata storica di lotta dei lavoratori. Attraverso tali azioni, intendiamo riaffermare la nostra lotta per il lavoro dignitoso in tutto il mondo, rivendicando l’unità della classe lavoratrice (oltre la frammentazione di cui siamo vittime).
5. Realizzare programmi di sostegno economico e qualificazione a favore delle cooperative e di altre forme di lavoro popolare e associativo che abbiamo creato.
6. Realizzare programmi di creazione di impiego e di accesso al lavoro.
CASA
Queste le nostre conclusioni:
Riteniamo che la casa svolga una funzione sociale e che in tal senso non debba essere oggetto di speculazione e di lucro, né essere ridotta a merce.
Vanno ridefinite le politiche di sradicamento di villas miseria, insediamenti, favelas e quartieri informali, avanzando verso la realizzazione di politiche di integrazione urbana e di urbanizzazione dei quartieri popolari.
Proponiamo di:
1. Avanzare nel disegno di leggi e di norme che garantiscano il diritto alla casa come diritto inviolabile.
2. Operare a favore dell’usufrutto delle case sfitte, a vantaggio del popolo. Laddove vi sono, dovrebbero essere tassate e bisognerebbe espropriare quelle che non svolgono una funzione sociale.
3. Ripensare il modello abitativo in funzione delle nostre culture e delle nostre tradizioni, creando spazi legati alle necessità e alle aspirazioni del nostro popolo.
4. Applicare il modello partecipativo per creare e consolidare il senso di comunità attraverso la costruzione di soluzioni collettive.
5. Esercitare pressioni a favore della pianificazione e della realizzazione di una politica di integrazione urbana che guardi alla casa come a un diritto umano di base, che regolarizzi il possesso della terra e garantisca l’accesso a un habitat sano.
6. Introdurre l’autogestione e il modello di auto-aiuto. Le soluzioni alternative al problema della casa promosse dalle organizzazioni sociali devono prevedere la proprietà collettiva del suolo e delle abitazioni e il diritto di usufrutto, garantendo l’accesso a una casa dignitosa.
7. Promuovere in ottobre il mese della “lotta mondiale per l’habitat” (il 10 ottobre l’ONU celebra la giornata mondiale dell’habitat) per sviluppare azioni collettive in difesa del diritto alla casa.
8. Avviare una campagna mondiale “zero sfratti” con il sostegno di Papa Francesco.
9. Facilitare l’accesso alle terre oziose della Chiesa per promuove la costruzione delle tre “T”.

TERRA
Queste le nostre conclusioni:
L’offensiva che subiamo da parte del capitale contro l’agricoltura contadina e indigena ha come conseguenza l’accaparramento e la concentrazione di terra, i brevetti sulle sementi e la mercificazione di beni comuni come la terra, l’acqua, i monti e i boschi.
Per i movimenti popolari l’agricoltura contadina, familiare, a piccola scala e comunitaria deve essere il modello per alimentare l’umanità e proteggere la natura. Dobbiamo respingere le politiche che non rispettano e avvelenano la terra e l’essere umano.
Proponiamo di:
1. Mettere a punto azioni dirette partecipando a iniziative legislative e a patti mondiali per la difesa dei beni comuni essenziali.
2. Lottare contro le espulsioni tanto dei contadini dalle loro terre quanto delle famiglie dalle loro case. In queste lotte rifiutiamo gli aiuti stranieri che non rispettino la conoscenza locale, le culture del popolo e i suoi stili di vita.
3. Sviluppare azioni contro il rilascio di brevetti sulle sementi. La sovranità alimentare dipende dalla libertà di accesso ai semi.
4. Autoorganizzare servizi sociali come quelli relativi alla salute che riconoscano la dignità delle persone, difendendo l’identità e rispettando le tradizioni contadine e indigene.
5. Lottare contro l’accaparramento delle terre e a favore di leggi internazionali che limitino l’accesso ai capitali stranieri e la concentrazione della terra. Deve esserci una proprietà collettiva della terra, garantendo il rispetto della sua funzione sociale, che è quella di alimentare e dare la vita al popolo.
6. Costruire una riforma agraria che favorisca l’impiego locale, lottando contro i veleni agricoli e in difesa della salute e della dignità dell’essere umano e del pianeta.
7. Promuovere una pedagogia di massa creando canali di partecipazione in sintonia con la cultura del popolo e in grado di coscientizzarlo nella difesa della sicurezza alimentare, come pure della sicurezza di quelle persone che subiscono rappresaglie per la loro lotta a favore della democratizzazione della terra, dei diritti umani e del bene collettivo e sostenibile dell’essere umano e del mondo che ci circonda e ci dà la vita.
MIGRAZIONI E RIFUGIATI
Queste le nostre conclusioni:
Il problema della migrazione comprende due dimensioni principali, quella economica e quella sociale.
Lo scenario di crisi globale che stiamo vivendo nel XXI secolo, come ha espresso Francesco, risponde all’obiettivo di massimizzare il profitto da parte delle multinazionali che governano il mondo e provocano il saccheggio e la spoliazione dei beni comuni.
Quanti si trovano nell’impossibilità di accedere alla terra, alla casa e al lavoro si vedono obbligati a emigrare, a rifugiarsi in altre terre, cercando un luogo in cui vivere una vita dignitosa.
La migrazione è un atto disumanizzante: gli sfollati a causa delle guerre e delle catastrofi ambientali o per motivi economici subiscono la persecuzione, la discriminazione e la criminalizzazione da parte delle autorità dei Paesi di destinazione. L’immigrazione porta con sé problemi come la tratta, la prostituzione e il narcotraffico, in cui i potenti abusano di chi è totalmente inerme.
Proponiamo di:
1. Esigere dagli Stati e dai governi l’applicazione del piano di azione del decennio internazionale degli afrodiscendenti 2015-2024 approvato dalle Nazioni Unite.
2. Rivendicare l’esistenza di una cittadinanza universale, che indebolisca le frontiere e stabilisca una politica migratoria inclusiva, sollecitando gli Stati ad assicurare nuovi luoghi di accoglienza che rispettino i diritti dei migranti e degli sfollati interni e a creare dei meccanismi di accesso alla casa, al lavoro, alla salute e all’educazione dei bambini.
3. Creare un osservatorio che consenta di classificare attori e caratteristiche dei fatti di violenza in tutte le regioni e i Paesi del mondo.
4. Creare tribunali internazionali di opinione in grado di imporre sanzioni di natura etica e simbolica per creare coscienza a livello internazionale.
5. Creare un fondo economico mondiale nel quadro delle Nazioni Unite che consenta un intervento immediato dinanzi a situazioni di rischio che possano provocare migrazioni e spostamenti di popolazione come terremoti, uragani, cicloni ed epidemie.
6. Riaffermare il diritto all’autodeterminazione dei popoli e delle nazioni perché vivano in pace nei loro territori.
7. Esigere il riconoscimento internazionale dei migranti e degli sfollati per ragioni economiche sotto lo status di “rifugiati”, esprimendo un profondo rifiuto nei confronti dei “campi profughi” come luoghi di profonda emarginazione e proponendo la costruzione di luoghi di integrazione, convivenza e dialogo, dove si rispetti la dignità delle persone, promuovendo la cultura dell’incontro.

Le nuove sfide dei movimenti popolari. Intervista a João Pedro Stédile dei Sem-Terra, terzo Incontro dei movimenti popolari , Roma novembre 2016

Claudia Fanti (Adista)

1. Quali sono i principali frutti di questo percorso di dialogo tra il papa e i movimenti popolari? Quali novità introduce rispetto al processo del Forum Sociale Mondiale?

A partire dalla sua elezione nel 2013, papa Francesco, tramite le sue amicizie all’interno dei movimenti popolari argentini, ha espresso il desiderio di costruire un percorso di dialogo permanente con le organizzazioni degli esclusi di tutto il mondo. Ed è dal 2014, dal primo Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari in Vaticano, che noi stiamo costruendo questo percorso. Per quanto riguarda il papa, io penso che vi sia da parte sua la volontà di promuovere il protagonismo dei movimenti popolari, soprattutto a partire dalla necessità di organizzazione dei lavoratori nella lotta per la terra, la casa e il lavoro. E, per quanto riguarda i nostri movimenti, abbiamo sempre guardato con interesse a un dialogo con il papa, come forma di riflessione collettiva sui problemi che la classe lavoratrice affronta proprio su questi tre grandi temi della terra, della casa e di un lavoro dignitoso. Così, nel corso di questi tre anni, in questo spirito di dialogo e di condivisione di idee, abbiamo maturato una riflessione via via più estesa. Se, durante il primo incontro, l’attenzione si è concentrata sulla realtà e sulle cause dei problemi dei lavoratori, nel secondo, che si è svolto a Santa Cruz de la Sierra nel 2015, durante la visita del papa in Bolivia, abbiamo ampliato il dibattito al tema della sovranità alimentare e al diritto dei popoli al territorio, e ora, in questo terzo incontro, abbiamo avviato una riflessione su questioni che, pur avendo pesanti ricadute sulla classe lavoratrice, investono in realtà la società intera, come quella relativa alla natura dello Stato e al fallimento della democrazia rappresentativa o quella della difesa dei beni della natura, un tema, quest’ultimo, che il papa ha affrontato nell’enciclica Laudato si’, uno dei massimi contributi mai prodotti sulle cause dei problemi ambientali e sulle loro soluzioni.
In questo terzo incontro, con l’aiuto di specialisti come Vandana Shiva, io credo sia risultata estremamente chiara la dinamica attraverso cui, di fronte alla crisi del capitalismo mondiale, la classe capitalista si sta appropriando con una violenza via via crescente dei beni della natura – quei beni che dovrebbero essere comuni e che si riducono invece a meri oggetti di profitto – devastando l’ambiente ed escludendo una enorme quantità di persone dal diritto all’acqua, alla terra, a un ambiente sano. Ed è risultata altrettanto chiara la necessità di impedire che la natura venga trattata come una merce, come pure di combattere l’uso dei veleni agricoli e dei transgenici, che non solo distruggono la biodiversità ma rappresentano una minaccia alla salute pubblica. In questo senso, l’Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari presenta caratteristiche differenti rispetto al Forum sociale Mondiale. Il FSM è una grande fiera di idee che riunisce persone e movimenti accomunati appena da una visione antineoliberista, e questo è il motivo per cui non è riuscito ad approfondire la riflessione sulle cause dei problemi né a proporre alternative reali. Inoltre, essendo una fiera, ha operato in maniera democratica ma molto anarchica: chiunque può partecipare al Forum Sociale e offrire il proprio contributo, pur non rappresentando nessuna realtà. E dunque non esiste alcuna necessaria connessione tra la partecipazione al FSM e un impegno concreto di cambiamento nei movimenti e nelle organizzazioni popolari.

2. Come valuti il discorso che il papa ha rivolto ai movimenti in questa terza edizione?

Papa Francesco ha offerto un importante contributo in relazione al tema del fallimento dello Stato borghese, soffermandosi su un aspetto che pochi governanti e leader mondiali hanno il coraggio di toccare: quello del terrorismo di Stato. Nel suo discorso, il papa ha denunciato il terrorismo del sistema capitalista, responsabile dell’esclusione di milioni e milioni di persone, ma si è anche richiamato all’esistenza di un terrorismo di Stato, pur non utilizzando esplicitamente questa espressione: la presenza, cioè, di un terrorismo che non utilizza necessariamente le armi per controllare le persone, ma fa ricorso alla paura attraverso la manipolazione dei mezzi di comunicazione, della televisione e di internet, con cui gli Stati suscitano nella popolazione la paura del cambiamento, la paura di lottare per i propri diritti. E questo non è altro che terrorismo di Stato. Mi è sembrata molto importante anche la sua riflessione sulla natura della corruzione, come parte del sistema politico capitalista: il papa ha affermato che non è solo il sistema politico a essere corrotto, ma anche le istituzioni in generale e persino la Chiesa e i movimenti popolari. Una riflessione, questa, che io ho interpretato come una sorta di avvertimento rispetto alla necessità di operare un cambiamento delle forme di organizzazione politica non solo dello Stato ma dell’intera società, in quanto la corruzione è diventata parte della forma del sistema politico.

3. Già nell’ambito del Forum Sociale Mondiale la parte relativa all’azione è sempre apparsa la più debole. Come ti spieghi che le proposte di azione approvate dai delegati siano appena delle dichiarazioni di principio?

È vero. Ma il senso di questi incontri dei movimenti popolari in dialogo con papa Francesco è quello di riflettere sulle cause dei problemi e sulle loro soluzioni. Non ci siamo mai proposti di risolvere i problemi dal punto di vista delle azioni concrete, perché questo è solo uno spazio di dialogo e di riflessione. In questo senso, l’aspetto più importante è quello di creare un’unità di principi, di programmi, di idee, affinché tutto ciò entri a far parte della riflessione dei nostri movimenti. È a questo punto che essi, attraverso meccanismi di democrazia interna, e in base ai processi unitari in corso in ogni Paese o alle differenze esistenti in ogni realtà, sono chiamati a discutere le azioni concrete. Non abbiamo mai pensato di assumere decisioni all’interno dei nostri incontri con il papa, così come non abbiamo mai voluto utilizzare questi spazi per esigere che la Chiesa adotti determinate misure. I problemi della Chiesa appartengono alla Chiesa. È vero che durante questi incontri capita sempre che qualcuno proponga che la Chiesa ceda una certa percentuale delle sue terre o si impegni maggiormente nell’educazione, ma non è certo questo l’obiettivo dell’incontro. Quello che la Chiesa deve fare è un problema della Chiesa, non dei movimenti popolari. D’altro canto, approfitto della domanda per sottolineare come, nell’ambito dei movimenti popolari, la nostra principale preoccupazione sia quella di creare un processo di articolazione a livello mondiale che ci conduca, più che a delineare programmi unitari, a sviluppare azioni e mobilitazioni che, a livello internazionale, affrontino realmente i problemi provocati dal capitalismo. Ma non è questo percorso di dialogo con il papa lo spazio per portare avanti questo compito. E non lo è neppure il Forum Sociale Mondiale, i cui limiti sono risultati ancor più evidenti in occasione dell’ultima edizione in Canada, che non ha avuto nessuna rappresentatività né ha prodotto alcuna deliberazione. Certo, esistono altri spazi propri di ogni categoria sociale, come quelli specifici del movimento sindacale o dei partiti. Per il movimento contadino abbiamo, per esempio, La Via Campesina. Ma quello di cui si sente ora la mancanza è uno spazio che unisca tutte le forze popolari, un compito su cui il Movimento dei Senza Terra e i movimenti popolari dell’America Latina stanno riponendo le loro energie. Così, a dicembre, realizzeremo a Bogotà la seconda Assemblea continentale di tutti i movimenti popolari delle Americhe, dal Canada fino alla Patagonia, proprio per riflettere su cosa fare. In Africa si è già tenuta una conferenza l’anno scorso e se ne svolgerà un’altra quest’anno. Stiamo organizzando un incontro in Medio Oriente per il prossimo aprile e anche in Asia i movimenti si stanno articolando per tenere un incontro all’inizio dell’anno prossimo. E tutti questi sforzi convergeranno nel compito di realizzare, nell’ottobre del 2017, a Caracas, un grande incontro mondiale dei movimenti popolari. Spero che potremo portare 5-6mila movimenti di tutto il mondo.

4. E riguardo invece a questo percorso di dialogo con papa Francesco cosa c’è da migliorare e quale può essere il prossimo passo?

Il sistema capitalista è in crisi in tutto il mondo e questo sta producendo non solo una crisi economica, ma anche una crisi sociale, una crisi politica e una crisi ambientale. E potremmo parlare anche di una crisi etica, una crisi, cioè, dei valori che orientano l’evoluzione nella società. Penso allora che, in questo dialogo tra papa Francesco e i movimenti popolari, esista un ventaglio molto ampio di questioni da affrontare, a cominciare proprio da quella relativa alla crisi dello Stato e alla democrazia partecipativa, un tema che, durante questo terzo incontro, non siamo riusciti ad approfondire in maniera adeguata. Avevamo invitato Bernie Sanders, il quale, durante la campagna elettorale negli Stati Uniti, aveva condotto buone riflessioni sui limiti della democrazia rappresentativa, ma non è potuto venire. Era presente invece l’ex presidente uruguayano Pepe Mujica, ma neanche lui ha affrontato il tema della crisi dello Stato, soffermandosi più sulla propria esperienza personale. Penso allora che sarà necessario portare avanti una profonda riflessione sulla crisi dello Stato e della democrazia borghese – una crisi presente ovunque, anche qui in Italia, dove c’è un presidente del Consiglio che nessuno ha votato -, sulla necessità di una nuova democrazia popolare e partecipativa, sulla crisi etica, sui valori che devono orientare le istituzioni pubbliche e che i movimenti devono assumere o recuperare nella loro pratica quotidiana. E sicuramente dovremo continuare ad approfondire i temi legati alla crisi ambientale, la cui gravità non fa altro che crescere, e la questione dei migranti, dei rifugiati e degli sfollati, che anche papa Francesco ha voluto toccare nel suo discorso, sottolineando come, in caso di bancarotta di una banca, si intervenga per salvarla con un’enorme quantità di denaro, mentre, di fronte alla quotidiana perdita di vite umane, alla tragedia vissuta da persone costrette ad abbandonare il loro territorio, non si trovi neppure il denaro per organizzare i trasporti, come è appena avvenuto con lo sgombero dell’accampamento di migranti a Calais, che ora stanno vivendo all’interno di baracche a Parigi. E la stessa cosa avviene in America Latina, dove, tutti i giorni, muoiono persone nel tentativo di arrivare negli Stati Uniti e dove esistono migliaia di immigrati sfruttati come manodopera a basso costo: a São Paulo, dove vivo, sono migliaia, per esempio, i boliviani che lavorano come schiavi nell’industria tessile che poi vende abiti di alta moda per la “buona società”. Questa tragedia a cui assistiamo in pieno XXI secolo resterà sicuramente all’ordine del giorno anche nel prossimo incontro. Il papa ha parlato della possibilità di un viaggio in India il prossimo anno e credo che questa possa essere una buona occasione per un incontro con i movimenti popolari dell’India e dell’Asia, in cui affrontare, tra gli altri temi già citati, anche quello della discriminazione razziale.

5.In un momento particolarmente difficile per imovimenti latinoamericani e brasiliani, quali sono le principali sfide che questi sono chiamati a raccogliere? .

L’America Latina è storicamente immersa nello scenario capitalista mondiale, in una funzione dipendente e subordinata agli interessi del grande capitale, delle banche e delle transnazionali. Ma in questo momento della storia in cui il capitalismo è in crisi in tutto il mondo, si è fatta molto più aggressiva, in America Latina, l’offensiva delle imprese, che, per non perdere i propri profitti, stanno aumentando la loro pressione sui lavoratori e accentuando il loro controllo sulle risorse naturali, sui beni comuni della natura. Il risultato è che sono entrate in crisi tutte e tre le proposte che negli ultimi 15 anni si sono scontrate in ciascuno dei nostri Paesi: la proposta neoliberista sostenuta dagli Stati Uniti e applicata in Paesi come Messico, Colombia, Cile e Perù; quella neosviluppista portata avanti, per esempio, da Uruguay, Argentina e Brasile, sulla base di un’alleanza della classe lavoratrice con settori della borghesia; e la proposta dell’Alba (Alleanza Bolivariana delle Americhe) lanciata dal Venezuela di Hugo Chávez, a cui hanno aderito Cuba, Ecuador, Bolivia e Nicaragua, orientata all’integrazione delle nostre economie. Ebbene, tutti i Paesi, indipendentemente dal progetto a cui hanno aderito, stanno attraversando un periodo di crisi. In questo contesto storico, i movimenti popolari sono chiamati allora a promuovere un dibattito e a portarlo nella società, nei partiti, nell’insieme della popolazione, perché le vere soluzioni a questi problemi potranno emergere solo dal coinvolgimento delle masse, e non dall’impegno dei singoli settori. Le principali sfide che devono affrontare i movimenti sono allora: 1) elaborare un programma che si richiami a un nuovo progetto, dal momento che i tre progetti attualmente esistenti sono in crisi (un compito, questo, che comporta la necessità di agglutinare forze sociali disposte a costruire un altro progetto a livello sia nazionale che internazionale); 2) discutere, come movimenti popolari, una nuova strategia di accumulazione di forze, in quanto è risultato chiaro in America Latina che non è più sufficiente lottare per far eleggere i nostri rappresentanti in Parlamento, per quanto combattivi possano essere, perché i veri cambiamenti non nascono dalla presidenza della Repubblica o dall’iniziativa di alcuni leader, bensì dalla mobilitazione delle masse; 3) creare nuove forme di organizzazione che riescano ad agglutinare tutte le forze sociali, perché l’elaborazione di un nuovo progetto non è il compito di un movimento o di un partito, bensì il frutto di un’articolazione di una nuova sinistra politica e sociale. C’è poi un’ultima sfida che siamo chiamati a raccogliere: possiamo e dobbiamo avanzare idee e proposte chiare su questi aspetti, ma le idee non bastano se non convinciamo le masse a lottare per realizzarle. E dunque le soluzioni vere dei problemi che stiamo affrontando oggi dipenderanno dalla rinascita di un ampio movimento di massa, tale da innescare un nuovo ciclo storico in tutta l’America Latina. Il che significa la presenza di masse per le strade, in lotta per un programma, per una strategia e per cambiamenti concreti.


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