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Noi Siamo Chiesa

Sezione italiana del movimento internazionale “We Are Church” per la riforma della Chiesa cattolica

Franzoni, leggi la sua vita e la sua testimonianza nelle parole di Luigi Sandri

Giovanni Franzoni. Qualche flash sulla vita e le opere di un “cattolico marginale”

di Luigi Sandri (Confronti”)

Tratteggiare pur velocemente, a pochi giorni dalla sua scomparsa (13 luglio), la vita e le opere di Giovanni Franzoni, è impresa ardua. Siamo ancora immersi nella commozione, nei ricordi, nel pensiero della veglia che, accanto alla sua bara, facemmo nel salone della Comunità cristiana di base (Cdb) di san Paolo la notte tra il 14 e il 15 luglio e, poi, nella rivisitazione delle immagini toccanti del funerale che, sabato 15, vide tantissime persone raccolte nel salone del Centro anziani del parco Schuster, a lato della basilica ostiense. E così abbiamo dato l’ultimo saluto al nostro Giovanni, di fronte – ma non dentro! – a quella basilica e a quel monastero ove fu abate dal marzo 1964 al luglio 1973, quando da pressioni ecclesiastiche fu “costretto” a lasciare quell’alta carica, in forza della quale era stato “padre” del Concilio alle ultime due sessioni del Vaticano II, e anche membro della Conferenza episcopale italiana (Cei).

A tempo debito, sarà necessario ripercorrere più attentamente e più ampiamente l’intera sua esperienza, anche perché non si disperda una testimonianza umana ed evangelica che riteniamo preziosissima, e che l’angelo della morte non dovrebbe occultare. Intanto, però, presi dall’urgenza di mettere insieme almeno alcuni spezzoni della sua vita, e volendo rispondere a domande di nostri lettori e lettrici, qui e ora cerchiamo di rivisitare alcune tappe più decisive della sua esistenza, e segnalare alcune sue opere. Dunque, pochi flash che, però, possono illuminare un cammino e fare intuire il “chi è” del nostro indimenticabile Giovanni.

 Un uomo con i suoi limiti

Quando muore qualche esponente di spicco del mondo ecclesiastico – ma così accade, sovente, anche in campo laico e nell’arena politica – sul “caro estinto” si tessono lodi e lodi, mai accennando a qualche pur piccolo limite dello scomparso, non raramente in vita fieramente avversato.

Dunque, in morte di Giovanni Franzoni, dico subito che lui non mi sembrava perfetto. A volte era cocciuto: con me – cultore della precisione dell’Ansa… – gli capitava di insistere all’inverosimile nell’attribuire a un dato Concilio del lontano passato un’affermazione che era invece di un altro, e cedeva di malavoglia quando gli portavo un volume che dimostrava in modo irrefutabile il suo qui pro quo. Altre volte, in un articolo su un determinato argomento si perdeva in parentesi, e in parentesi nelle parentesi, uno stile che avrebbe disorientato chi lo avrebbe eletto; ma bisognava faticare per indurlo a tralasciare dettagli ridondanti, e andare al sodo.

Con la vecchiaia, e la cecità, quando in Comunità interveniva durante l’Eucaristia, a commento delle letture del giorno, a volte tendeva a ripetere un’idea pur già più volte espressa nelle domeniche precedenti, il che ogni tanto spazientiva qualche ascoltatore. Insomma, Giovanni aveva questi, e altri, limiti oggettivi e soggettivi di vario tipo. Non era un santo, né un santino. Era, però, un uomo vero: mite, generoso, determinato, disposto a pagare un alto prezzo personale per sostenere idee e scelte che riteneva giuste. Ed era un discepolo di Gesù di Nazareth di straordinaria caratura – se è lecito dall’esterno dare un tale giudizio che, ovviamente, non intende entrare nel segreto della coscienza e nel mistero di Dio.

La mia opinione – altri, nella variegata cattolicità italiana, la pensano diversamente: avranno le loro ragioni – era, ed è, che Giovanni sia stata una delle persone che più, negli ultimi decenni, hanno onorato e resa bella la Chiesa cattolica; anzi, la Chiesa universale; anzi la Ekklesìa tout court. Qualcuno penserà che questo mio giudizio sia motivato dall’affetto (una consuetudine con lui di quarantasei anni!), e sia, dunque, fragile e parziale. Tuttavia, ritengo, contra facta non dantur argumenta. E che fatti!

Da “padre” conciliare a… “La terra è di Dio”

Nato nel 1928 in Bulgaria – ove i genitori si trovavano per lavoro – Mario crebbe poi a Firenze; dopo il liceo entrò, a Roma, al collegio ecclesiastico Capranica e quindi tra i benedettini (assumendo il nome religioso di Giovanni Battista, sempre poi da lui usato), studiando al Pontificio Ateneo sant’Anselmo. Nel marzo 1964 fu eletto dai monaci abate di San Paolo fuori le Mura e, perciò, divenne membro della Cei e “padre” conciliare alle ultime due sessioni del Vaticano II. Egli – me l’ha ripetuto molte volte – entrò in Concilio come “conservatore”, ma ben presto “si convertì”, e appoggiò i “progressisti” su tutti i temi-chiave (collegialità episcopale, la Chiesa come popolo di Dio che cammina nella storia, la partecipazione dei battezzati alla vita concreta della comunità cristiana, libertà religiosa, ripudio dell’antisemitismo, apertura ecumenica, dialogo con i seguaci di altre religioni e anche con i marxisti, insonne impegno per i diritti umani e per la pace nella giustizia). Tuttavia, egli non prese mai la parola in Concilio.

Alla sua conclusione si diede un gran da fare, nel piccolissimo territorio del quale era “ordinario” e con autorità magisteriale, per attuare, con la sua gente, quanto la Grande Assemblea aveva insegnato e prospettato. Il desiderio di inverare la “partecipazione del popolo di Dio” lo spinse a invitare i parrocchiani (San Paolo, allora, era anche parrocchia) a incontrarsi con lui, il sabato sera,  nella “sala rossa” – così chiamata per via del broccato rosso che adornava le pareti – per riflettere insieme sulle lettura bibliche dell’indomani. Fu in questo scambio che, sollecitato dalla gente – operai, operaie, insegnanti, padri e madri di famiglia, teologi, universitari, impiegati/e – la sua esegesi delle letture sacre, esposta in basilica la domenica all’omelia della messa di mezzogiorno, si aprì sempre più a confrontarsi con l’oggi, spesso doloroso, di Roma, dell’Italia e del mondo dilaniato da guerre.

Giovanni aveva fiducia in ciò che veniva “dal basso”, e istintivamente vedeva con favore – seppure non acriticamente – i movimenti che, in vari paesi del mondo, tentavano di dare protagonismo e dignità a masse da secoli tenute ai margini. Anche in basilica, fu questo continuo rapportarsi con la gente – “La Chiesa è il popolo di Dio”, aveva affermato il Concilio – che lo spinse a crescenti prese di posizione pubbliche: la solidarietà agli operai licenziati da una fabbrica situata nella zona Ostiense; la nonviolenza come via per superare i conflitti tra i popoli; i digiuni per la pace in Vietnam ed in Bangladesh (quando scoppiò la guerra perché il Pakistan orientale voleva essere indipendente); l’invito (1970) al presidente della Repubblica Saragat di caratterizzare il 2 giugno, festa della Repubblica, non più con parate militari ma con rappresentanze della società civile e del mondo del lavoro.

La pace è sempre stata un suo grande assillo. Perciò, anche a livello minimo della parrocchia, favorì, per quanto poté, ogni iniziativa che, a suo parere, avvicinasse la pace nella giustizia là ove la “tranquillità dell’ordine” era violata. E, per fare qualche esempio, fu ben contento quando (anni 1971-72) due universitari che frequentavano la basilica andarono in Irlanda del Nord per un campo di lavoro organizzato dalla cattedrale inglese di Coventry. O una ragazza della parrocchia partì infermiera volontaria in una zona disastrata dell’Africa.

In questa scia – aiutato da persone che lo seguivano più da vicino, e non solo la domenica, e che erano sensibili a certe tematiche sociali, e alle nuove idee di Franco Basaglia – Giovanni decise di fare le pratiche necessarie per far uscire dal Santa Maria della Pietà (il manicomio di Roma) alcuni giovani che, senza famiglia, di fatto erano trattati come handicappati psichici, assumendosi la responsabilità del loro mantenimento e del loro – se possibile – inserimento sociale.

Come Confronti, poi, non possiamo dimenticare il ruolo decisivo avuto da Giovanni per la nascita, nel marzo 1972, di Com – giornale slegato dalle gerarchie ecclesiastiche, ma invece legatissimo alle esperienze delle Comunità cristiane di base e molto aperto ai “cattolici critici” – che, nell’autunno del ’74, si fonderà con un settimanale evangelico, dando vita a Com-Nuovi Tempi, trasformatosi poi, nel 1989, nel mensile Confronti. Franzoni fece sempre parte della redazione, dando un corposo contributo all’impostazione della rivista, per la quale scrisse numerosissimi articoli. Da dieci anni, poi, aveva una sua rubrica fissa, Note dal margine; il numero di luglio-agosto di quest’anno, chiuso pochi giorni prima della sua morte, riporta il suo intervento; e un altro suo scritto apparirà nel numero monografico di settembre (dedicato al fine-vita!), e da lui inviatoci l’11 luglio.

Naturalmente, incontrando la gente del quartiere ostiense, una zona popolare ove molti cattolici votavano a sinistra, Giovanni non poté evitare di affrontare un problema pastorale, oggi superato, ma allora incombente: il “dogma” dell’unità politica dei cattolici. In poche parole: secondo le gerarchie ecclesiastiche i cattolici coerenti dovevano votare per la Democrazia cristiana; chi, tra loro, votava Msi – “cattolicissimo”! – da esse era comunque ben tollerato; spiacenti erano quanti sceglievano i partiti “laici” (repubblicani e liberali, considerati “anticlericali”); intollerabili quanti votavano Psi e, peggio, Pci. E tra la gente che frequentava la “sala rossa”, vi erano molti socialisti e comunisti. Giovanni non ebbe nessuna difficoltà ad avere buoni rapporti con tutti. Oltretevere, però, erano irritati che egli ammettesse come legittimo, per un cattolico, votare anche a sinistra.

Per Franzoni, invece, il principio del rispetto del pluralismo politico doveva essere assolutamente garantito. Non vi erano – sosteneva – cattolici di serie A perché votavano un determinato partito e di serie B perché ne votavano un altro. Tuttavia, in quel preciso contesto storico, impegnarsi, come faceva lui, in alcuni temi sociali, o anche ecclesiali ma con inevitabili riflessi pubblici, significava spesso porsi in contrasto con la Dc al potere e, indirettamente, con le gerarchie ecclesiastiche filo-democristiane. Dunque, l’abate da più parti fu accusato di “fare politica”. Quei prelati che, invece, sostenevano pubblicamente, o di fatto, la Dc… non facevano politica, ma… solo “azione pastorale”!

Come abate di San Paolo, Giovanni accolse in basilica – con tutti gli onori – il patriarca di Costantinopoli, Athenagoras, e il papa copto Shenouda III, ambedue venuti a Roma per la prima volta (nel 1967 e nel ’73) a incontrare il romano pontefice, allora papa Montini; e favorì, accogliendoli nel monastero, i “Dialoghi paolini”, incontri di studiosi internazionali, cattolici ed evangelici, per approfondire la conoscenza dell’apostolo delle genti.

A proposito di un altro aspetto – il rinnovamento liturgico auspicato dal Concilio – egli sollecitò le persone presenti alle sue celebrazioni in basilica a intervenire spontaneamente alla “preghiera dei fedeli”: il che andò tranquillo, fino a che tali orazioni erano dedicate a pregare il Signore di aiutare la nonna inferma, o un figlio a trovar lavoro. Ci furono, però, anche invocazioni di altro tipo. Un tizio, che qui chiameremo Ottavio, e che era militante in un gruppo parafascista dedito a difendere la Civiltà cristiana come un tempo (1571) si fece a Lepanto contro i turchi, elencò una serie di iniziative di Giovanni da lui ritenute “pericolose”, e con voce altissima terminò il suo J’accuse con queste parole: «Abate Franzoni, sei un traditore!». Quest’attacco plateale non dispiacque a quella parte della Curia romana che riteneva Franzoni insopportabile, e che brigava per scalzarlo. Essa, invece, fu assai turbata da una “preghiera dei fedeli” di questo genere: «Ti prego Signore di far sì che quando mio figlio sarà grandicello non ci siano più nella Chiesa romana gli scandali dello Ior».

Il riferimento era a una denuncia, di quei giorni, di autorità internazionali che accusavano la banca vaticana di operazioni finanziarie torbide. A causa di questa “preghiera”, riportata in Curia da qualche zelante frequentatore delle messe dell’abate, Giovanni fu convocato Oltretevere, ove gli imposero il controllo delle preghiere “spontanee”. Al suo rifiuto di farlo («Come posso controllare le preghiere?»), e constatata la rigidità inflessibile dell’altra parte, egli comprese che il suo tempo come responsabile di una delle quattro basiliche maggiori di Roma stava per scadere. E accettò di dare le dimissioni, entro la metà di luglio. Perché non prima?

Si era all’inizio della primavera del 1973, e Giovanni, aiutato da un gruppo di persone di fiducia, stava ultimando La terra è di Dio. Si trattava di una lettera pastorale – per i fedeli del minuscolo territorio sul quale aveva giurisdizione e autorità magisteriale; ma che, naturalmente, spaziava oltre. In vista del Giubileo indetto da Paolo VI per il 1975 sul tema “Rinnovamento e riconciliazione”, in essa affrontava  il problema della terra, dono di Dio e “bene comune” e, in quel contesto, prospettava l’ideale della povertà della Chiesa e denunciava la speculazione edilizia a Roma, sostenuta anche da istituzioni legate al Vaticano.

Quella lettera, uscita a metà giugno mentre era in atto l’Assemblea generale della Cei, della quale Giovanni era membro di diritto in quanto abate della basilica ostiense, sollevò grande eco sia in campo ecclesiale che nell’opinione pubblica. Quel testo, comunque, segnò anche la fine dell’“abate rosso” – così veniva chiamato. Celebrata la festa di San Benedetto (11 luglio) scattarono le dimissioni: egli uscì per sempre dalla basilica, portando con sé solo una piccola valigetta con un minimo di vestiti, idealmente seguito da un notevole gruppo di donne e uomini che, nella “sala rossa”, erano diventati suoi amici. Nacque così la Comunità cristiana di base di san Paolo, che si collocò in uno stanzone a poche centinaia di metri dalla basilica, e che là il 2 settembre 1973 celebrò insieme a Giovanni, tornato semplice monaco, la sua prima Eucaristia.

Il referendum sul divorzio. La riduzione allo stato laicale

In vista del referendum sulla legge del divorzio, previsto per il 12 e 13 maggio 1974, agli inizi di quell’anno partì in Italia un’animata campagna politica (Dc e Msi erano per il “Sì” all’abolizione della legge; tutti gli altri partiti, per il “No”); da parte sua, in febbraio il Consiglio permanente della Cei, con una “Notificazione”, invitò fortemente i cattolici – come impegno morale – a votare per l’abrogazione di quella legge. Nell’aprile successivo Franzoni contrastò apertamente l’indicazione dei vescovi e, in un libretto intitolato Il mio regno non è di questo mondo, sostenne che anche i cattolici avevano il pieno diritto di votare in coscienza, come ritenevano meglio, e dunque anche per il No. In discussione – rilevò – non era il sacramento del matrimonio, ma una legge di uno Stato laico (e la difesa della laicità dello Stato fu un altro costante impegno di Giovanni). Ma, inesorabili, alla fine di quel mese le autorità ecclesiastiche sospesero Franzoni “a divinis”, cioè non poteva più, lecitamente, celebrare i sacramenti.

La punizione vaticana suscitò molte polemiche e, dal punto di vista canonico, lasciò più di un dubbio: che “delitto” aveva mai commesso l’ex abate? Aveva espresso un’opinione politica che si poteva condividere o meno; tuttavia, perché “sospenderlo”? Tanto più che, quando verso la fine di aprile le autorità religiose gli proibirono di tenere pubbliche conferenze sul referendum, egli obbedì; ma pochi giorni dopo lo punirono egualmente. Ad ogni modo, per un anno si astenne dal celebrare, ponendosi in attesa di un “ripensamento” delle autorità: che, però, non venne. Del resto, le remore e riserve vaticane allora non erano fondate su motivazioni teologiche, ma scaturivano da avversità politiche, come tutti noi comprendemmo bene.

Ritenendo comunque ingiusto il silenzio ufficiale, e partendo dal presupposto che la “sospensione a divinis” è, di regola, temporanea, in attesa di un chiarimento definitivo (assolutorio o condannatorio), Giovanni, vista la latitanza vaticana, alla Pasqua del ’75 decise di riprendere a celebrare. Tuttavia, come diremo più avanti, le celebrazioni nella Cdb di san Paolo avevano una non piccola particolarità liturgica e teologica che ridimensionava il ruolo del “sacerdote”.

Nel 1976, proprio su Com-Nuovi tempi, annunciò che alle elezioni politiche – si sarebbero tenute nel giugno di quell’anno – avrebbe votato Pci (partito del quale, sia detto per inciso, non prese mai la tessera). Conseguenza: ai primi di agosto fu ridotto allo stato laicale. Quale il motivo di una tale drastica punizione? Per capire, occorre, come sempre, situare l’evento nel suo contesto storico. Il 22 luglio ’76 Paolo VI aveva sospeso “a divinis” monsignor Marcel Lefebvre, il capo dei “tradizionalisti” che contestava radicalmente il Vaticano II e alcune riforme post-conciliari volute da papa Montini. La decisione del pontefice suscitò fortissime, seppur sotterranee, rimostranze da parte di quei porporati, di Curia e non, che ritenevano “esagerata” la misura contro il vescovo ribelle e, d’altra parte, giudicavano troppo condiscendente il pontefice verso un Franzoni considerato “debordante”. Insomma, accusavano il papa di punire solo “a destra” e di tollerare “a sinistra”.

Giovanni ci ha raccontato (l’aveva appreso da qualche prelato amico) delle febbrili ricerche, da parte vaticana, di un ecclesiastico “di sinistra” da punire, per calmare le accuse dei “conservatori”. Infine, Oltretevere si ritenne che punire lui fosse la misura più semplice, bi-partisan e a portata di mano. E così egli, dopo un grottesco processo-farsa istituito in gran fretta, e dove non ebbe la minima possibilità di difendersi adeguatamente, fu ridotto allo stato laicale. Da “padre” conciliare a laico! Come se l’essere laico nella Chiesa significasse far parte di una classe minore: eppure – notava Giovanni, con un pizzico di humour: un dono che lui aveva – Gesù era “laico” e non apparteneva alla classe sacerdotale del tempio. Più volte egli mi e ci narrò questa vicenda: sempre senza infierire sui suoi inquisitori e, anzi, benevolmente quasi cercando di trovare giustificazioni al loro operato.

La riflessione sui ministeri e sull’Eucaristia

Dall’agosto 1976 iniziò dunque la… seconda parte della vita di Giovanni, durata fino alla morte, e sempre mescolata – per la sua vicenda pubblica – con l’esperienza della Cdb san Paolo.

Già negli anni ’74-’75 si era molto discusso, in comunità, sul problema dei ministeri: che diceva, in proposito, il Nuovo Testamento? Le conclusioni alle quali, anche con l’assistenza di illustri esegeti (come il benedettino Jacques Dupont o il biblista Giuseppe Barbaglio), arrivammo, erano ben note al mondo teologico, ma non alla gente semplice: Gesù non ha mai previsto “sacerdoti” (=mediatori necessari tra Dio e l’uomo) per la sua Ekklesìa, ma solo dei multiformi ministeri (=servizi) per il suo bene-essere, aperti sia a uomini che donne, a prescindere dal loro stato di vita.

Dopo prolungate e accalorate discussioni, desiderosi di “riappropriarci dei ministeri”, pensammo di mantenere, grosso modo, lo schema della messa consueta, ma con varianti decisive: non ci sono paramenti; l’Eucaristia domenicale viene celebrata da tutte e tutti insieme, e perciò il canone (infine redatto da noi) viene letto coralmente da tutte e tutti i presenti; la Comunità, a prescindere se ci siano o no “preti” ordinati, spezza il pane memore della morte e della risurrezione di Gesù, il quale aveva detto: “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Matteo 18, 20). Il “laico” Giovanni accettò volentieri questo nuovo cammino.

Con il tempo la riflessione, anche teologica, ma partendo dalla prassi, sui ministeri e sull’Eucaristia, si è approfondita; e chi voglia saperne di più può leggere Fate questo in memoria di me. Condividere il pane nell’Eucaristia e nella vita – il contributo che la Cdb san Paolo inviò al Sinodo dei vescovi che nel 2005 avrebbe affrontato il tema dell’Eucaristia (testo completo in Adista documenti n. 6, 22-1-2005).

Il riferimento al Sinodo è l’occasione per dire che Giovanni, con la Cdb san Paolo, fece le scelte ecclesiali che ritenne, in scienza e coscienza, di dover fare; però non fu, e non si considerò mai un’isola felice, o una torre d’avorio. Al contrario: per apprendere più e meglio mantenne (mantenemmo) continui rapporti con esperienze similari, soprattutto in America Latina, in Italia e in Nord Europa. Chi può dimenticare, ad esempio, la visita che fece alla nostra Comunità il vescovo emerito di San Cristóbal de Las Casas, Samuel Ruiz, “naturalmente” anche lui in Messico emarginato per il suo impegno a fianco degli indios del Chiapas? L’abbraccio tra lui e Giovanni fu commovente. E così fu con vescovi brasiliani che presero parte alle nostre celebrazioni eucaristiche.

In Comunità venne anche monsignor Clemente Riva († 1999), vescovo ausiliare responsabile della zona Sud di Roma, il quale in sostanza ci riconobbe «come una realtà di fede della zona pastorale di mia responsabilità».

A livello di Sinodi, poi, la nostra Cdb inviò a varie Assemblee le proprie riflessioni sul tema in esame. Nessuno mai, né sotto papa Wojtyla né sotto papa Ratzinger, dal Vaticano rispose dando almeno un segno di ricevuta. Ciò, invece, è avvenuto sotto papa Bergoglio: quando la Cdb inviò le sue proposte per i Sinodi del 2014 e ’15 sul problema della famiglia (e dell’eventuale ammissione all’Eucaristia delle persone divorziate e risposate), ricevemmo un segnale di ricezione.

Prima della celebrazione eucaristica in comunità, la domenica Giovanni raccoglieva i bambini (dai sei anni in su) e i ragazzi in quello che aveva chiamato “Laboratorio di religione”. In quell’ambiente si parlava di Dio, di Gesù, di Bibbia, di Chiese, di religioni, di mondo: ma in un clima di straordinario dialogo che permetteva a ciascuno/a di sentirsi non gravato da nozioni e imposizioni ma, piuttosto, protagonista in una ricerca che aiutava la libertà a dischiudersi. Era proprio un “laboratorio” di gioia, di responsabilità e di continua scoperta.

In Comunità hanno trovato piena accoglienza anche i gruppi  organizzati di omosessuali cristiani.

Un cattolico marginale

Molti sono i libri scritti da Giovanni “laico”. Si rimane meravigliati nel vedere quanti temi egli abbia toccato, e come abbia osato affrontare anche argomenti tabù, proponendo soluzioni ardite. Con Il diavolo, mio fratello Franzoni riprende la tesi di Origene (III secolo), secondo il quale in un futuro indefinito il Signore avrebbe ricomposto l’ordine turbato del cosmo e delle sue creature, e avrebbe salvato anche Satana. In molti scritti, poi, Giovanni ha ribadito la sua convinzione: l’inferno non è eterno. Una dannazione “eterna” – egli affermava – era impensabile con la misericordia straripante di Dio.

Più volte Giovanni ha scritto sui Giubilei, considerandoli – sul fondamento delle Scritture ebraiche – come momenti alti di restituzione della dignità alle persone schiacciate dall’ingiustizia, e come occasione propizia per «fare riposare la terra» spesso rapinata da mani crudeli ed egoiste.

Quando, dopo che nell’estate del 2005 fu avviato l’iter per la beatificazione di Giovanni Paolo II, anch’egli a Roma fu chiamato, dal Tribunale ecclesiastico, a testimoniare: in un documentato memorandum egli spiegò le ragioni per le quali, a suo parere, papa Wojtyla non potesse essere beatificato (quel pontefice – rilevava tra l’altro Franzoni – aveva punito la libertà teologica nella Chiesa, impedito di accertare gli affari torbidi dello Ior, e isolato monsignor Oscar Romero); ma nessuno tenne poi conto del suo parere negativo.

Sul piano ecumenico, Giovanni ha favorito la “ospitalità eucaristica”: qualche volta la Cdb san Paolo è andata a piazza Cavour a partecipare alla Santa Cena celebrata nel tempio  valdese; e qualche volta è venuto alla nostra Eucaristia un gruppo di valdesi e di altre Chiese legate alla Riforma. Inoltre, nel 2007 è stato a Sibiu, Romania, per la III Assemblea ecumenica europea.

Un altro tema al quale Franzoni ha dedicato vari libri è quello legato al fine-vita, e al rispetto della volontà di chi, tenuto in vita artificialmente per anni, chiede che gli sia “staccata la spina”. Perciò quando – dicembre 2006 – il cardinale Camillo Ruini, vicario di Roma, d’accordo con Benedetto XVI, negò i funerali in chiesa di Piergiorgio Welby, perché – a suo parere – si era suicidato, pochi giorni dopo Giovanni con la Cdb invitarono la moglie di Piergiorgio, Mina, ad un’Eucaristia in ricordo dello scomparso, del quale condividemmo – sul piano morale – la piena legittimità, umana e cristiana, della sua scelta.

In molti libri Giovanni ha toccato il tema donna. Inutile dire che egli – che nel 1981 nel referendum sull’aborto difese il diritto della donna a decidere – sognò una Chiesa ove i ministeri fossero aperti a donne e uomini, a prescindere dal loro stato di vita (matrimoniale o meno). Nel 1990 Giovanni aveva sposato Yukiko, una giapponese con la quale egli ebbe modo di confrontarsi, non senza difficoltà, su culture assai differenti da quelle occidentali ma, proprio per questo, capaci di dischiudergli nuovi orizzonti.

Negli ultimi anni Giovanni – sempre difensore del diritto dei palestinesi ad avere anche loro uno Stato, accanto a quello di Israele – aveva “riscoperto” l’ebraismo, leggendo il Talmud. Questa prospettiva aveva offerto a Franzoni interpretazioni inedite, e particolarmente arricchenti, dei rabbini sui miti delle origini come narrati nel Genesi. Per questa via, egli aveva iniziato a porre profonde e motivate domande critiche all’intera costruzione dogmatica cattolica sul “peccato originale”.

L’ultima preoccupazione (in ordine di tempo) che Giovanni più volte espresse in quest’anno 2017, da Pasqua in poi, era questa: mentre procediamo fiduciosi e determinati nel nostro cammino dovremmo anche – sottolineava – guardare dietro di noi, per cercare di spiegarci con chi, soprattutto in una parte del clero, non riusciva assolutamente ad accettare le nostre posizioni, sperando di giungere, pur magari senza arrivare ad una conclusione unanime, a stringerci la mano. Un’ipotesi – secondo molti di noi – francamente utopistica: ma Giovanni ci teneva moltissimo a fare questo sforzo e questo tentativo. Così ipotizzava di andare in Molise a parlare con quei cinque parroci che avevano fatto suonare le campane a morto quando la Camera in aprile aveva approvato la legge sul fine-vita.

A parte i suoi libri, praticamente su ogni numero di Confronti Giovanni affrontava un tema scomodo e, come precisava il titolo della sua ultima rubrica, lo faceva “dal margine”. Adesso la sua assenza ci peserà davvero. Speriamo di saper tener vivo il suo spirito, e di far crescere la sua eredità, straordinariamente ricca di valori, di ipotesi, di sfide, di sogni e di speranze.

Decine e decine di testimonianze, al suo funerale, hanno mostrato come la parola e l’esempio di Giovanni abbiano aiutato ragazze e ragazzi di un tempo – oggi donne e uomini maturi – a vivere in modo responsabile, con il cuore ben aperto per rimanere solidali con i curvati dalla vita e dalle ingiustizie del mondo. Molte di queste persone si sono dichiarate non più cristiane, o non più credenti. Parlando, negli ultimi mesi, di questo fenomeno, già ampiamente noto, Giovanni mi diceva, sereno e sorridente: «Lo dicono loro di non essere più credenti. Invece, forse lo sono più di me. E, comunque, saranno in prima fila tra i “benedetti dal Padre mio” quando il Cristo glorioso dirà loro: “Avevo fame e mi avete dato da mangiare”».

Dopo l’Eucaristia di domenica 2 luglio scorso, toccava a me, per turno, invitare Giovanni a pranzo. Essendo lui cieco, occorreva guidarlo con prudenza sul marciapiede, verso il vicino ristorante “Al Biondo Tevere”, luogo storico di ristoro per la nostra Cdb. Faceva un caldo tremendo, ma sotto un pergolato si poteva respirare. Affrontammo tantissimi argomenti: la cifra del nostro parlare fu la sua dolcezza nel ripensare al suo passato ecclesiale con benevolenza verso chi, nelle gerarchie vaticane, lo aveva fatto tanto soffrire. Io lo guardavo: la sua pelle raggrinzita era trasparente, quasi si vedevano le ossa. Faticava a inghiottire un boccone. Sembrava esausto. Immaginai abbastanza prossima la sua fine per i molti acciacchi, e gravi mali, che lo minacciavano; ma non la pensavo imminente.

Martedì 11 luglio ci sentimmo al telefono: mi domandò se avevo ricevuto il suo commento per Confronti di settembre – il numero monografico che si prepara già in luglio, e quest’anno, guarda caso!, dedicato al fine-vita. Ero, io, infatti, il “revisore” dei suoi pezzi che egli, cieco, dettava – come se li leggesse, ma li aveva pensati a memoria! – ad un giovane collaboratore scelto proprio per questo aiuto. Alla mia conferma che avevo letto, e… dato l’ok, era tutto felice. E, dopo un ultimo giro di riflessioni, che spaziavano dall’Italia al mondo, dalle guerre in Medio Oriente ai molti limiti e alle inadeguatezze della nostra Comunità, Giovanni se ne venne fuori con queste parole: «Ah Luigi!, noi passiamo, ma l’amore di Dio resta». Ci salutammo festosamente dandoci l’arrivederci per domenica 16 luglio in comunità: aveva la sua solita voce, chiara, squillante, di una persona malgrado tutto felice di vivere. Sorella morte, però, decise diversamente.

La mattina di giovedì 13 luglio, a Canneto (Rieti), ove abitava, si alzò regolarmente e si intrattenne con varie persone fin verso mezzogiorno. A quell’ora disse a Yukiko di sentirsi un poco affaticato, e si coricò in una stanzetta vicino alla cucina. Verso le 13 la moglie lo chiamò: «Giovanni, il pranzo è pronto». «Eccomi», rispose lui con voce allegra. Passò qualche minuto di silenzio; non vedendolo arrivare, Yukiko entrò nella stanza: lo trovò con una gamba fuori dal letto come per alzarsi, ma ormai morto – per infarto – senza fare nessun lamento. Avvertiti da lei, già nel primo pomeriggio, in molti della comunità accorremmo a dare l’ultimo abbraccio a Giovanni.

Trasportata la sera di venerdì 14 in Comunità, a Roma, la sua salma è stata vegliata da noi, a turni, tutta la notte. A pregare di fronte alla bara è venuto – accompagnato da don Isidoro, un suo antico amico dai tempi dell’abbazia, e da un giovane monaco – anche il nuovo abate di san Paolo, don Roberto Dotta. Nei mesi scorsi i due si erano incontrati, e tra loro era nata una bella amicizia che rasserenava Giovanni. Il quale sperava vivamente di incontrare anche papa Francesco, perché tramite don Roberto gli aveva fatto pervenire la sua autobiografia, con un’intensa dedica; ma non è stato possibile. L’abate di san Paolo, con i due monaci (iniziativa, abbiamo motivo di pensare, della quale il papa era al corrente, e consenziente) ha partecipato anche ai funerali di Franzoni: una presenza consolante. Quando, portata a spalla dai giovani della nostra Comunità, la bara di Giovanni attraversava il parco Schuster per entrare nel Centro anziani dove sarebbero state celebrate le esequie, le campane della basilica ostiense suonarono. Così aveva deciso don Roberto.

C’era anche, alle esequie, monsignor Enrico Feroci, direttore della Caritas di Roma. E, dal Piemonte, in morte di Giovanni, monsignor Luigi Bettazzi (classe 1923!), già vescovo di Ivrea, aveva ricordato con parole affettuose il “collega” di Concilio.

Ai funerali, affollatissimi, erano presenti – a titolo personale o delegati delle rispettive comunità – anche evangelici di varie Chiese legate alla Riforma, e musulmani. Tra i convenuti, che poi si sono comunicati in massa, anche numerosi presbìteri e molte suore, e amici venuti da lontano. Sul fronte ufficiale ci si aspettava, ovviamente, una qualche più evidente partecipazione delle autorità vaticane, e della Cei, per l’ultimo saluto ad un “padre” conciliare. Così non è stato: e queste assenze non possono non porre domande ineludibili all’intera Chiesa cattolica italiana.

Però sappiamo bene che Giovanni non avrebbe voluto, da parte nostra, recriminazioni di sorta. Come lui non recriminò, ma risolse il tutto con una battuta bonaria, quando il 12 ottobre 2012 Benedetto XVI aveva invitato in udienza e a pranzo tutti i vescovi, ancora viventi e capaci, malgrado l’età avanzata, di viaggiare, che avevano partecipato al Concilio aperto da Giovanni XXIII cinquant’anni prima, l’11 ottobre 1962. Il “padre” conciliare  Franzoni non fu però invitato. Si vede che in Vaticano era considerato – per dirla con parole spesso ripetute da Jorge Mario Bergoglio per altre categorie di persone umiliate – uno “scarto”. Giovanni rimase un pochino mortificato per essere stato ignorato; ma con noi non lo fece pesare, né pronunciò parole amare per quest’ennesimo sgarbo. Epperò fino alla fine egli, per l’istituzione ecclesiastica, è rimasto un “segno di contraddizione”, indigeribile.

Adesso si volta pagina. Giovanni non c’è più: noi, però, faremo il possibile per onorare la sua eredità. E abbiamo perfino un lembo di speranza che la sua Chiesa – la cattolica romana, nelle sue varie articolazioni, in particolare la Santa Sede e la Cei – arrivi finalmente ad avere l’ardimento di rimettere sul candelabro ecclesiale colui che, secondo molti, è stato un profeta del nostro tempo; e a riflettere, con coraggio autocritico, sulle vicende del 1974-76, che portarono – tra l’altro – Giovanni, con molti altri ed altre, ad essere un “cattolico marginale”, come lui fu definito dell’editore della sua autobiografia. “Marginale” fin che si vuole, ma davvero “cattolico” per aver tentato, con alterne fortune, di affrontare, alla luce del sole, e tuttavia praticamente ignorato dall’ufficialità istituzionale e dal mondo teologico cattolico, asperrimi problemi teologici, antropologici ed etici.

Egli affrontò consapevolmente la sfida – ardua, affascinante e dolorosa – di cercare di vivere l’evangelo in una società complessa, “liquida” e difficile come la nostra, e in una Chiesa, in alcune sue parti istituzionali e non, del “consenso” e del “dissenso”, talora lenta ad accogliere le beatitudini proclamate da Gesù, ben sapendo che il Suo regno non è di questo mondo.

Roma, 21 luglio 2017

 


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Commenti

Una replica a “Franzoni, leggi la sua vita e la sua testimonianza nelle parole di Luigi Sandri”

  1. Avatar vittorio da rios
    vittorio da rios

    Chi meglio di Luigi Sandri poteva fare sintesi più lucida e trarne l’essenza dell’essere di
    Giovanni? Certo come evidenza all’inizio Sandri Giovanni non fu ” perfetto” poiché cocciuto
    in alcune suo convinzioni e poi una volta posto inanzi all’evidenza inconfutabile che si trovava
    lui in errore a malavoglia “ammetteva”. Non me ne voglia Luigi che stimo molto per il suo agire intellettuale. Però un piccolo rimbrotto pure a lui va mosso in quanto a essere perfetto dovrà convenire che non aver mai citato Balducci nel suo monumentale lavoro sulla storia conciliare
    lascia un po perplessi. E debbo riconoscere che dopo ulteriori studi e approfondimenti
    sull’opera di Ernesto lo sconcerto anziché diminuire mi si è accresciuto.Ben conoscendo la statura intellettuale e da quale humus culturale Sandri trovi alimento.
    Mi ha molto colpito Giovanni quando all’inizio del suo intervento; in occasione della sua venuta in Friuli a Zuliano Il 28/11/2014 presso il centro Balducci fondato e diretto da Pierluigi Di Piazza a presentare il suo libro Biografico “un cattolico marginale”,disse: Quando scorgete in alcune persone delle novità, che si affannano ad affrontare problemi difficili e controcorrente, a grave rischio personale, quando emerge un filo di pensiero di credibilità, di spazio per spendere le nostre energie. Non lasciate solo colui che ha alzato la sua voce e preso l’iniziativa perché il “peccato” piuttosto diffuso è quello della distrazione, viviamo in una società piuttosto chiassosa pubblicitaria, e quindi per discernere tutto ciò che ci raggiunge e cogliere questo granello questo chicco che potrebbe diventare un albero fruttifero e rigoglioso, qualche volta si perde. Chissà quanti input, quanti sussulti di vita ci sono stati e sono andati perduti, perché intorno non c’era nessuno che se ne accorgesse, che facesse gruppo.Ecco in queste frasi di Giovanni vi è condensata tutta la sua essenza, la grande carica innovativa del suo messaggio dentro l’indissolubile necessità del fare gruppo di allargare l’orizzonte nella ricerca della verità vissuta visceralmente a un livello sempre più alto e collettivo.Pasolini intellettuale con l’eroico nel DNA aveva amaramente constatato spesso la “tragica solitudine” di coloro che sono portatori di idee che si pongono come revisione critica “radicale” di un paradigma fin d’ora costruito e che si dimostra inadeguato a rispondere alle vere aspettative di ogni donna e uomo del pianeta.Certo anche Giovanni a provato quel sottile ma profondo dolore della emarginazione dell’incomprensione della solitudine dell’abbandono da parte della sua Chiesa che aveva amato e mai ha cessato di farlo nel solco di Gesù.
    Non posso non riprendere un bellissimo scritto su Giovanni da parte di Pasolini datato
    il 22/11/1974 Apparso sul tempo e raccolto in “scritti corsari”, prima edizione del maggio
    del 1975.Imitazione di Cristo “Le cose divine”, Giovanni Franzoni Omelie a San Paolo fuori le mura Mondadori editore 1974. Il problema filologico afferma Pasolini nell’imitazione di Cristo
    consiste addirittura nel sapere chi ne sia l’autore e quando sia stata scritta. I codici sono
    duecentocinquanta .Su tutti hanno preminenza il codice della biblioteca reale di Bruxelles del
    1441, e il codice di Arona, che ora è alla biblioteca di Torino. Su questi due “codici” si sono fondate le due più importanti edizioni dell’imitazioni di Cristo: L’una attribuisce l’opera
    a Tommaso da Kempis “circa il 1380-1471”, l’altra a Giovanni Gersen, abate di San Stefano
    in Vercelli tra il 1220-1245. J. Pohl è il curatore della prima di queste due edizioni, Mons.
    Puyol è il curatore della seconda. E’ uscita in questi mesi in Italia una un’edizioncina
    economica che ha optato per il testo di Mons. Puyol. Perché a quanto pare è più accurato e
    corretto. e inoltre ha il merito di retrodatare al massimo la data di “uscita del libro”e di conseguenza di nobilitarlo e renderlo più affascinante. Ciò stava a cuore a Elèmire Zolla che
    ne ha scritto una sufficiente prefazioncina.Io continua Pasolini propenderei comunque per
    un’epoca più tarda e sarei decisamente con Pohl. Non mi sembra questa imitazione di Cristo
    un libro per specialisti, ossia per chierici. Non mi sembra che la sua fruizione fosse aristocraticamente conventuale ” in quel clima di di magico spiritualismo caro a Zolla”
    Mi sembra piuttosto che fosse un libro catechistico, ad uso “usum delphini” : terroristico,
    repressivo,lamentoso, addirittura, mi sembra, pre-controriformistico. Comunque gli insegnamenti pedanti dell’imitazione, che si rivolgono al “tu” dell’iniziato ” classisticamente
    inferiore” ” il figlio del contadino che si fa prete” hanno qualcosa di terribilmente pragmatico.
    Ricordando le regole mediche dei medici salernitani, per esempio. perciò il pregare o il temere Dio appaiono sullo stesso livello vagamente comico. Il linguaggio religioso è da secoli rileva Pasolini insopportabile, almeno in Italia. La Controriforma ha fissato fino ai giorni nostri tale
    insopportabilità. Fra l’altro si è aggiunto l’odioso sentimentalismo della sotto-cultura
    tradizionalistica ottocentesca e anche novecentesca La lingua italiana liturgica parlata oggi
    in Chiesa è quasi ripugnante. Tale lunga tradizione linguistica ” entrata profondamente nella
    cultura specifica della Chiesa”Può giocare dei brutti scherzi anche ad uomini che sono sostanzialmente fuori da essa.
    Confesso rileva ancora Pasolini che,coerentemente a quanto ho detto finora, ho provato un senso di, sia pur dispiaciuta, ripugnanza, anche davanti al volumetto “asceticamente e spiritualmente
    nudo e anonimo” delle Omelie a San Paolo fuori le mura di Dom Giovanni Franzoni , raccolte
    dalla comunità. Ho aperto il libro e l’ho sfogliato: e il mio sgomento è aumentato. Come?
    Anche Dom Franzoni usa questo linguaggio? ” Omelie” , intanto: ma è esecrabile. E poi tutta quella tiratura dei parroci sulle “Domeniche” ordinarie o no: “Terza domenica di avvento”
    ” quarta Domenica di avvento”… ” Epifania del Signore”… ” Tutti i Santi”… ” Maria SS Madre Di Dio “… Possibile? La seconda degenerazione che ha fatto del Vangelo un testo per infernali
    proliferazioni catechistiche, liturgiche, spiritualistiche, emanando norme che finiscono col
    sovrapporsi l’una sull’altra in un’involuzione nomenclatoria di carattere tra esoterico e
    masochistico, pieno di “tabù” e di “cerimoniali di approccio” molto simili ai cerimoniali
    nevrotici, con tutta un’abitudine gerarchica ” Padre, Padrone,Protezione,Punizione,che
    tormenta classisticamente le masse povere,da contaminare il ” ribelle” Dom Franzoni?
    Ma poi mi sono fatto coraggio continua Pasolini e ho cominciato a leggere sul serio
    queste prediche, che,per una malintesa umiltà ” l’uomo religioso alle volte può concedersi
    di essere oltraggioso, no? Dom Franzoni ha voluto manieristicamente modellare sulle
    prediche dei buoni parroci ” che non esistono”Sono prediche straordinarie queste di Dom Franzoni: cioè non sono prediche. Sono discorsi improvvisati davanti alla comunità,
    che fa il punto evidentemente su problemi che la comunità conosce e dibatte. I riferimenti
    sono, ancora, riferimenti specialistici: ma la specializzazione è stravolta, perfettamente
    laica, perché la storia è un’illusione laica, ed è come tale che Cristo l’ha evidentemente
    accettata. Ed è una specializzazione che segue puntualmente l’evoluzione degli incidenti
    storici: incidenti storici dovuti sempre, sistematicamente alla violenza del potere . Accuse,
    imprigionamenti, persecuzioni, morti,stragi: un susseguirsi senza fine, su cui bisogna
    essere presenti col proprio giudizio. Anche se ciò è inutile: perché solo in un atteggiamento
    critico di assoluta tensione può essere vissuta la speranza come energia vitale. Quella
    speranza che il potere si prefigge, sempre e in ogni caso, di sopprimere e distruggere,
    sostituendola con orribili surrogati che portano il suo nome. Non c’è predica
    di Dom Franzoni che, prendendo convenzionalmente il pretesto o dal vangelo
    o dalle Lettere di Paolo, non arrivi, implacabile, ad attaccare il potere nel suo ultimo
    delitto: in tutte le parti del mondo ” è la prima volta che,cosi, la chiesa si presenta
    in concreto come universale”. Non c’è predica in cui Dom Franzoni non assuma un
    problema attuale, non per elevarlo o prenderlo ad esempio: ma per risolverlo, o almeno
    porsi il problema della sua soluzione. Ora tutto ciò, se detto o fatto da un laico, è quasi
    normale: sia pure nell’ambito di una élite culturale e politica. Detto e fatto da un prete,
    invece, è quasi commovente. Non mi è capitato poche volte, leggendo queste prediche
    di dover dominare un’eccitata commozione.Ma non per il fatto esteriore che, cose normali
    per un laico, dette e fatte da un prete, assumano un particolare valore di testimonianza,
    cioè di ” pericolosità o di rischio”: ma per un fatto interiore e quasi inesprimibile.
    Il parlare da parte di Giovanni Franzoni del processo agli indipendentisti baschi o dal
    processo allo “psicanalista” Padre Grègoire Lemercier, della pillola o dei ” blue jeans”
    “Jesus” come la nave che ha trasportato i primi schiavi africani in America, di handicappati
    o di carcerati, e insomma di tutta l’infinita serie di fatti e problemi simili ” perché l’amore
    è fatto di queste cose qui “, ha una sua originalità oggettiva,un senso che non è lo stesso
    se trasferito, anche letteralmente, in un altro contesto. Ora un uomo come Dom Franzoni
    è stato sospeso dall’autorità vaticana ” a divinis”. Tanto meglio. Resta però da chiedersi
    se per caso in Vaticano non si sia completamente dimenticato in che consistano “le
    cose divine”, e se i vescovi che al Sinodo si dichiarano progressisti non siano degli ipocriti,
    quando l’unico modo di essere progressista, per un prete, è evidentemente esserlo in modo
    estremistico “ossia cristiano” come Giovanni Franzoni.
    Pasolini aveva ben intuito la visione profetica,di Giovanni, l’agire quindi sui fatti concreti,sulle cose determinate dal potere politico e finanziario di quella stagione. Pasolini scrisse in questa circostanza le più belle pagine che conservano una loro disarmante e lapidaria attualità mettendo in luce l’essenza di tutta l’opera di Giovanni Franzoni
    Un caro saluto.
    l’essenza

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