Nel libro «Dalla parte dei poveri. Teologia della liberazione, teologia
della Chiesa». I preferiti di Dio
di redazione
in “L’Osservatore Romano” del 4 settembre 2013
Giovedì 5 settembre a Seveso, nell’ambito del ventitreesimo congresso nazionale dell’Associazione
teologica italiana, Gustavo Gutiérrez — sacerdote e teologo peruviano, dal 2001 entrato nell’ordine
dei domenicani, considerato uno dei padri della teologia della liberazione — dialogherà con il
teologo Mario Antonelli sul tema «Fare teologia nella tradizione in America Latina».
Gutiérrez ha scritto, insieme all’arcivescovo Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione
per la Dottrina della fede, il libro Dalla parte dei poveri. Teologia della liberazione, teologia della
Chiesa (Padova-Bologna, Edizioni Messaggero – Editrice Missionaria Italiana, 2013, pagine 192).
«In queste pagine — scrive Gutiérrez nel primo capitolo — vorremmo presentare alcune
considerazioni su come vediamo il ruolo attuale e i compiti futuri della riflessione teologica nella
vita della Chiesa presente in America Latina e nei Caraibi». E specifica più avanti l’arcivescovo
Müller: «Ogni teologia deve partire da un contesto. Ma con ciò la teologia non si disperde in una
incommensurabile somma di teologie regionali. (…) Ogni teologia regionale deve invece avere già
in se stessa una vocazione ecclesiale universale» e le questioni poste dalla teologia della liberazione
sono «un aspetto imprescindibile di ogni teologia, quale che sia il quadro socio-economico che ne
circoscrive lo spazio». In questa pagina anticipiamo stralci dei due autori del libro.
(Testo di Ugo Sartorio – Una Chiesa che ha bisogno di tutti)
I preferiti di Dio
di Gustavo Gutierrez
in “L’Osservatore Romano” del 4 settembre 2013
Non stiamo con i poveri se non siamo contro la povertà, diceva Paul Ricoeur molti anni fa. Ovvero,
se non rigettiamo la condizione che opprime una parte tanto importante dell’umanità. Non si tratta
di un rifiuto meramente emotivo, è necessario conoscere le ragioni della povertà a livello sociale,
economico e culturale. Ciò esige strumenti di analisi che ci sono forniti dalle scienze umane ma,
come ogni pensiero scientifico, esse lavorano con ipotesi che permettono di comprendere la realtà
che cercano di spiegare; ciò equivale a dire che sono chiamate a cambiare dinanzi a fenomeni
nuovi. È quanto accade oggi di fronte alla presenza dominante del neoliberismo che giunge sulle
spalle di un’economia sempre più autonoma dalla politica (e prima ancora dall’etica) grazie al
fenomeno noto col termine, un po’ barbaro, di globalizzazione.
La situazione così designata, come sappiamo, viene dal mondo dell’informazione ma ha potenti
ripercussioni sul terreno economico e sociale, e in altri ambiti dell’attività umana. Tuttavia, la
parola è ingannevole perché fa credere che ci orientiamo verso un mondo unico, quando in realtà, e
nel momento attuale, comporta ineluttabilmente una contropartita: l’esclusione di una parte
dell’umanità dal circuito economico e dai cosiddetti benefici della civiltà contemporanea.
Un’asimmetria che diviene sempre più pronunciata. Milioni di persone vengono così trasformate in
oggetti inutili, o gettabili dopo l’uso. Si tratta di coloro che sono rimasti fuori dall’ambito della
conoscenza, elemento decisivo dell’economia dei nostri giorni e l’asse più importante di
accumulazione di capitale. Va notato che questa polarizzazione è conseguenza della maniera in cui
stiamo vivendo oggi la globalizzazione, la quale costituisce un fatto che non necessariamente deve
prendere l’odierna piega di una crescente disuguaglianza. E, lo sappiamo, senza uguaglianza non
c’è giustizia. Lo sappiamo, ma il problema assume oggi un’urgenza sempre maggiore.
Il neoliberismo economico postula un mercato senza limiti, chiamato a regolarsi da solo, e
sottopone qualunque solidarietà sociale in questo campo a una dura critica, accusandola non solo di
essere inefficace nei confronti della povertà, ma addirittura di esserne una delle cause. Che in questo
campo vi siano stati abusi è chiaro e riconosciuto, ma qui siamo di fronte a un rifiuto di principio
che lascia senza protezione i più fragili della società. Uno dei corollari di questo pensiero, e fra i più
dolorosi e acuti, è quello del debito estero, che opprime e tiene con le mani legate le nazioni povere.
Debito che è cresciuto in maniera spettacolare, tra altri motivi, a causa dei tassi di interesse
manipolati dagli stessi creditori. La richiesta della sua cancellazione è stata uno dei punti più
concreti e interessanti della decisione di Giovanni Paolo II di celebrare un giubileo, nel senso
biblico del termine, per l’anno 2000.
Questa disumanizzazione dell’economia, in atto già da tempo, che tende a trasformare tutto in
merce, comprese le persone, è stata denunciata da una riflessione teologica che mostra il carattere
idolatrico, nel senso biblico del termine, di questo fatto. Le circostanze odierne non hanno solo reso
più impellente questo richiamo ma anche fornito nuovi elementi di approfondimento. D’altra parte,
assistiamo oggi a un curioso tentativo di giustificazione teologica del neoliberismo economico che,
ad esempio, paragona le multinazionali al servo di Yhwh, da tutti vilipeso e attaccato, mentre da
esse verrebbero la giustizia e la salvezza. Per non parlare della cosiddetta teologia della prosperità,
che ha vincoli molto stretti con la posizione appena ricordata. Ciò ha talora spinto a postulare un
certo parallelismo tra cristianesimo e dottrina neoliberale. Senza negarne le intuizioni, bisogna
interrogarsi sulla portata di un’operazione che ci ricorda quella che, all’estremo opposto, è stata
fatta, anni fa, per confutare il marxismo, ritenuto anch’esso una sorta di “religione”, la quale
peraltro avrebbe seguito, passo per passo, il messaggio cristiano (peccato originale e proprietà
privata, necessità di un redentore e proletariato, eccetera). Ma questa osservazione, è chiaro, non
toglie nulla alla necessità di una critica radicale alle idee dominanti oggi nell’ambito dell’economia.
Al contrario.
Una riflessione teologica a partire dai poveri, preferiti da Dio, si impone. Essa deve prendere in
considerazione l’autonomia della disciplina economica e al tempo stesso tenere presente la sua
relazione con l’insieme della vita degli esseri umani, il che comporta, innanzitutto, prendere in
considerazione un’esigenza etica.
Analogamente, evitando di entrare nel gioco delle posizioni che abbiamo appena menzionato, non
bisognerà perdere di vista che il rifiuto più fermo delle posizioni neoliberali avviene a partire dalle
contraddizioni di un’economia che dimentica cinicamente e, alla lunga, in maniera suicida gli esseri
umani, in particolare coloro che non hanno difese in questo campo cioè, oggi, la maggior parte
dell’umanità.
Si tratta di una questione etica nel senso più ampio del termine, la quale impone di entrare nei
perversi meccanismi che distorcono dall’interno l’attività umana chiamata economia. Coraggiosi
sforzi di riflessione teologica si fanno in questo senso tra noi. In questa linea, quella della
globalizzazione e della povertà, dobbiamo collocare pure le prospettive aperte dalle correnti
ecologiste dinanzi alla distruzione, ugualmente suicida, della natura. Esse ci hanno reso più sensibili
a tutte le dimensioni del dono della vita e ci hanno aiutato ad ampliare l’orizzonte della solidarietà
sociale che deve comprendere un rispettoso legame con la natura.
Il problema non tocca solamente i Paesi sviluppati, le cui industrie causano tanti danni all’habitat
naturale dell’umanità; coinvolge tutti, anche i Paesi più poveri.
È impossibile oggi riflettere teologicamente sul problema della povertà senza tenere conto di queste
realtà.
L’Osservatore Romano, 4 settembre 2013
Fare la verità e non solo dirla
di Gerhard Ludwig Muller
in “L’Osservatore Romano” del 4 settembre 2013
I contributi di Gustavo Gutiérrez hanno reso evidente a noi che siamo qui in Europa una cosa,
questa: l’ingiustizia nel mondo è un fattore che permane e che può essere superato solo con la
disponibilità di tutti gli uomini a dirigere lo sguardo verso Cristo. Le domande decisive dell’essere
umano circa la sua origine, la sua destinazione e il suo stile di vita trovano compimento e soluzione
nella disponibilità a riconoscere Gesù Cristo come Signore e come colui che dà compimento
all’umano. Proprio qui è da rinvenirsi un nuovo impulso per la teologia in Europa. Il volgersi a
Gesù Cristo, il salvatore e il liberatore dell’umanità, è diventato l’imprescindibile tòpos di ogni
teologia. Ma comprendiamo in modo adeguato le condizioni di vita nei Paesi del Sudamerica?
Sappiamo dell’opprimente povertà che giornalmente costa la vita a migliaia di bambini, anziani e
malati solo perché manca loro il minimo indispensabile per vivere? Conosciamo l’angoscia che
attanaglia le persone intrappolate nella loro malattia, spesso costrette ad accettare, quale barlume di
speranza, quale via d’uscita la morte, e questo quando invece in Europa un piccolo intervento
compiuto con un’attrezzatura medica di base avrebbe loro salvato la vita?
Ai disagi esistenziali e ai pericoli si aggiunge, quale forma consapevole di umiliante oppressione,
l’istruzione insufficiente. E anche il non riconoscerla quale grave causa di povertà, dunque come
problema da risolvere, può essere considerato un aspetto di quella oppressione. L’istruzione
scolastica come dato ormai acquisito in molte parti del mondo ha generato un senso di superiorità
nei confronti dei Paesi del cosiddetto terzo mondo. E tuttavia non sono da rinvenire proprio qui le
radici dello sfruttamento, tanto di quello intellettuale quanto di quello materiale?
E così si resta stupiti quando, incontrando le persone in Sudamerica, si vede e si percepisce una fede
piena di gioia e di vita. La fede testimoniata apertamente e trasmessa con amore è tra i tesori più
grandi di queste popolazioni, pur gravate da preoccupazioni quotidiane per la loro stessa vita.
In molti incontri, questa fede gioiosa e vissuta mi ha dato forza ed è diventata anche per me una
fonte di ispirazione. Guardare a ciò che è veramente essenziale nella vita. Affidarsi a Dio, il creatore
e vero compimento dell’umano. La sofferenza di ogni giorno è la realtà che, nel Padre nostro, fa
domandare ogni giorno alla gente del Sudamerica il pane quotidiano. A far muovere le loro labbra
non è l’opulenza consumistica, ma la fame terribile.
Nella situazione economicamente e politicamente critica dei Paesi latinoamericani, il popolo vede
nella Chiesa l’unica speranza, il luogo dove proteggersi e che può dare una certa sicurezza
esistenziale. La biografia della Chiesa e quella del popolo lì coincidono. A fronte della naturalezza
con la quale si professa la propria fede e la si pratica, a fronte della fiducia riposta nella Chiesa e
nella teologia, spesso — per alcuni rappresentanti della teologia tedesca e dell’establishment
ecclesiastico — i problemi indicati divengono temi non rilevanti.
Un ringraziamento particolare va al mio amico Gustavo Gutiérrez. Negli ultimi decenni egli ha
illustrato quei capisaldi della cosiddetta teologia della liberazione che fanno di essa una dottrina
coerente e in più occasioni egli ha offerto una visione d’insieme. E tuttavia il dibattito spesso acceso
sulla teologia della liberazione non rappresenta oggi un capitolo chiuso della storia della teologia.
Proprio Gustavo Gutiérrez indica al nostro sguardo tutto concentrato sulla prospettiva europea che
cosa significhi Chiesa universale. Con la teologia della liberazione la Chiesa cattolica ha potuto
ulteriormente accrescere il pluralismo al suo interno. La teologia dell’America Latina svela e
propone oggi nuovi aspetti della teologia che integrano una prospettiva europea spesso incrostata. Il
tema ecclesiologico della communio — la comunità universale della Chiesa che è sopra le categorie
etniche e nazionali — rappresenta anche il tentativo di condurre la comunità mondiale dei fedeli che
abbraccia tutto il mondo a una solidarietà responsabile. «Tutto quello che avete fatto a uno solo di
questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Matteo, 25, 40). Come cristiani, non dobbiamo
sottrarci a questa responsabilità.
Non possiamo rimanere ciechi di fronte ai bisogni e alla povertà che sono costretti a sopportare i
nostri fratelli e sorelle nella fede in Gesù Cristo.
La responsabilità che i cristiani hanno a livello mondiale è stata espressa dal concilio Vaticano II
nella costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo con queste parole: «Le gioie e le
speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che
soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo»
(Gaudium et spes, 1).
Il concilio sente la responsabilità rispetto a un’unica famiglia umana che va formandosi sempre più.
La cattolicità alla quale qui si allude, nel suo significato originario di universale, di
onnicomprensivo, trova espressione anche nella costituzione dogmatica sulla Chiesa; lì dove si
parla delle «presenti condizioni del mondo», che «rendono più urgente questo dovere della Chiesa,
affinché tutti gli uomini, oggi più strettamente congiunti dai vari vincoli sociali, tecnici e culturali,
possano anche conseguire la piena unità in Cristo» (Lumen gentium, 1).
L’unica Chiesa di Gesù Cristo supera le barriere, scavalca i muri nazionali, etnici e politici e
conduce gli uomini all’intima unione con Dio e all’unità di tutto il genere umano (cfr. Lumen
gentium, 1). La Bibbia ci descrive Cristo come salvatore che porta la liberazione e la redenzione.
Egli libera l’uomo dal peccato — di carattere personale come anche di carattere strutturale — che,
in definitiva, è causa della fine di ogni amicizia, è la causa di tutte le ingiustizie e di ogni
oppressione. Solo Cristo ci rende liberi nella verità, ci porta alla libertà che ci è stata donata da Dio.
A partire da questa libertà, siamo chiamati ad aiutare le persone, perché ogni povero e ogni
bisognoso è il nostro prossimo.
Così mi piace pensare a questo libro come a un contributo al superamento dell’indifferenza verso la
sofferenza e verso i bisogni dei nostri fratelli e delle nostre sorelle, ma anche come sistema di
coordinate per la corretta interpretazione della teologia della liberazione. Essa porta il nostro
sguardo a Cristo, che, come nostro salvatore e redentore, è la meta alla quale instancabilmente
tendiamo. Gustavo Gutiérrez una volta l’ha detto in modo assolutamente semplice e biblico:
«Essere cristiani significa seguire Gesù».
Sequela significa agire concretamente. «Chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia
chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio» (Giovanni, 3, 21). Così è il Signore stesso a
dirci di impegnarci immediatamente per i poveri. Fare la verità ci porta a stare dalla parte dei
poveri.
L’Osservatore Romano, 4 settembre 2013
La chiesa che ha bisogno di tutti
di Ugo Sartorio
Con un Papa latinoamericano, la teologia della liberazione non poteva rimanere a lungo nel cono
d’ombra nel quale è stata relegata da alcuni anni, almeno in Europa. Messa fuori gioco da un doppio
pregiudizio: quello che non ha ancora metabolizzato la fase conflittuale della metà degli anni
Ottanta, per altro enfatizzata dai media, e ne fa una vittima del Magistero romano; e quello
ingessato nel rifiuto di una teologia ritenuta troppo di sinistra e quindi tendenziosa.
Vi è da aggiungere il fatto che qualcuno è persino arrivato a dare per morta e sepolta la teologia
della liberazione, frutto di una stagione che si sarebbe definitivamente conclusa con la caduta del
muro di Berlino (1989) e l’implosione dell’impero sovietico legato all’ideologia marxista. Curiosa,
a proposito, la reazione di uno dei maggiori esponenti di questo filone teologico, il peruviano
Gustavo Gutiérrez, riportata da Luiz Carlos Susin: «Il noto teologo peruviano si è rammaricato con
il suo proverbiale senso dell’ironia, dicendo che se la teologia della liberazione è morta, egli non è
stato invitato al funerale. Aggiunge che, se fosse vero, ne sarebbe molto contento, perché vorrebbe
dire che saremmo arrivati a vivere in un mondo giusto, nel regno di Dio, il regno della libertà
escatologica, e non dovremmo più sostenere lo sforzo della lotta e della fedeltà, sempre tentata e
affaticante, per conquistare la liberazione» (Silvia Scatena – Luiz Carlos Susin – Sandro Gallazzi,
Chiesa e teologia in America Latina, Padova, Messaggero, 2013, pp. 51-52).
Lo stesso Gutiérrez, nel libro che stiamo presentando, chiarisce che il 1989 è sicuramente
paradigmatico per il rapporto tra Est e Ovest, poiché per molti anni la storia è stata bloccata su
quell’asse, ma che però la teologia della liberazione non è interessata alla povertà nei Paesi dell’Est.
Essa muove piuttosto dall’inumana situazione di povertà in America Latina e nei Caraibi, che non
sembra essersi mitigata in modo significativo negli ultimi decenni e che esige di essere letta alla
luce della fede. «Stato di cose e teologia — chiarisce senza mezzi termini Gutierréz — che nella
sostanza hanno poco a che vedere con il crollo del socialismo reale» (p. 46).
In ogni caso, ancora nel 2002, il teologo Robert J. Schreiter descriveva la teologia, meglio le
teologie, della liberazione «tra resistenza e ricostruzione» (cfr. The New Catholicity, Orbis Books,
pp. 98-115), quindi in ricerca di identità dentro mutati contesti. E non si può non tenere in conto che
in America Latina, come già trent’anni fa illustrava il teologo gesuita argentino Juan Carlos
Scannone (cfr. Problemi e prospettive di teologia dogmatica, Brescia, Queriniana, 1983, pp. 406-
414), la teologia della liberazione non è mai stata un fenomeno unitario, quanto piuttosto
caratterizzato da correnti tra loro anche molto diversificate.
Dentro questa pluralità esiste una teologia della liberazione argentina, condivisa dal cardinale
Bergoglio oggi Papa Francesco, che «come la teologia della liberazione utilizza il metodo “vederegiudicare-
agire”, lega prassi storica e riflessione teologica, e ricorre alla mediazione delle scienze
sociali e umane. Però privilegia un’analisi storico-culturale rispetto a quella socio-strutturale di tipo
marxista» (Scannone, La teologia di Francesco, in «Il Regno», Attualità 6/2013, p. 128).
Ma veniamo al libro in questione, scritto a quattro mani da due teologi d’eccezione. Il già citato
padre Gutiérrez (padre, si può dire, in due sensi: sia perché da prete diocesano si è fatto domenicano
e quindi ora appartiene all’ordine dei frati predicatori, sia perché è a buon diritto considerato «padre
della teologia della liberazione», p. 77), e l’attuale prefetto della Congregazione per la Dottrina
della Fede, l’arcivescovo Gerhard Ludwig Müller, professore onorario dell’università Ludwig-
Maximilian di Monaco di Baviera e curatore dell’opera omnia di Joseph Ratzinger – Benedetto
XVI.
Il libro — tradotto in italiano in coedizione dalle Edizioni Messaggero Padova e dalla Editrice
Missionaria Italiana — è di fatto un testo apparso originariamente in lingua tedesca nel 2004
(Augsburg, Sankt Ulrich Verlag). Il titolo resta identico (An der Seite der Armen; “dalla parte dei
poveri”), mentre il sottotitolo tedesco che recita Theologie der Befreiung; “la teologia della
liberazione”, viene ampliato con l’aggiunta teologia della Chiesa. Con l’intento di mettere in
evidenza quello che è il succo dell’intera pubblicazione, vale a dire la valenza ecclesiale di una
teologia che, in molti suoi esponenti, tra i quali spicca Gutiérrez, ha svolto un cammino che la
colloca senza dubbio alcuno nel solco della cattolicità e a suo servizio, come teologia della Chiesa e
per la Chiesa.
Delle 183 pagine di testo, 117 (in tre contributi) sono del teologo peruviano, mentre 76 (in quattro
interventi) sono state scritte dall’arcivescovo Müller. Colpisce il tono pacato, a tratti meditativo,
dell’esposizione, e soprattutto il fatto che viene bandito ogni intento rivendicativo: a parlare sono i
fatti, le argomentazioni, i riferimenti mirati sia ai testi delle Conferenze generali dell’episcopato
latinoamericano sia ai testi del Magistero romano. I due autori vanno, anche se con passo diverso,
nella medesima direzione, quella di una teologia che, come afferma la recente enciclica scritta a
quattro mani da Benedetto XVI e Papa Francesco Lumen fidei, «condivide la forma ecclesiale della
fede», per cui «la sua luce è la luce del soggetto credente che è la Chiesa. Ciò implica, da una parte,
che la teologia sia al servizio della fede dei cristiani, si metta umilmente a custodire e ad
approfondire il credere di tutti, soprattutto dei più semplici. Inoltre, la teologia, poiché vive della
fede, non consideri il Magistero del Papa e dei vescovi in comunione con lui come qualcosa di
estrinseco, un limite alla sua libertà, ma, al contrario, come uno dei suoi momenti interni,
costitutivi, in quanto il Magistero assicura il contatto con la fonte originaria, e offre dunque la
certezza di attingere alla Parola di Cristo nella sua integrità» (n. 36).
Questa linea, perseguita con fiducia dai nostri due autori, contrasta con i cliché giornalistici di una
teologia della liberazione inquieta, perennemente all’arrembaggio di un Magistero dal quale si
sentirebbe incompresa, ancora troppo colorata di ideologia. La teologia, scrive Gutiérrez, è una
«funzione ecclesiale» e offre il suo servizio alla comunicabilità della fede: «Il suo contenuto è la
proclamazione di Cristo e della sua liberazione integrale, annuncio che deve essere fatto in un
linguaggio fedele al messaggio e che risulti eloquente per i nostri contemporanei» (p. 6). Da notare
che si parla di liberazione «integrale», quindi di tutto l’uomo da tutti i mali (a partire dalla radice di
ogni male che è il peccato), e di un rinnovato stile di annuncio.
Non è un caso che Giovanni Paolo II abbia parlato in modo strutturato di nuova evangelizzazione
(«Nuova nel suo ardore, nei suoi metodi, nella sua espressione») proprio parlando al Consiglio
episcopale latinoamericano, a Haiti, il 9 marzo 1983. L’espressione «nuova evangelizzazione»,
sottolinea Gutiérrez (p. 150), si trova nel documento preparatorio di Medellín (Colombia), culla
della teologia della liberazione, e nel Messaggio di questa conferenza, e siamo nel 1968.
Un implicito riconoscimento della teologia della liberazione come «nuova evangelizzazione» è
venuta dall’ultimo Sinodo dei vescovi su questo tema, nell’ottobre scorso: «La proclamazione del
Vangelo impegna la Chiesa a essere con i poveri e a farsi carico delle loro sofferenze, come Gesù
(…). Mettersi accanto a chi è ferito dalla vita non è solo un esercizio di socialità, ma anzitutto un
fatto spirituale (…). La presenza del povero nelle nostre comunità è misteriosamente potente;
cambia le persone più di un discorso, insegna fedeltà, fa capire la fragilità della vita, domanda
preghiera; insomma, porta Cristo» (Messaggio al popolo di Dio, 26 ottobre 2012, nn. 6 e 11).
Quella del povero, dunque, è, in prospettiva evangelica, la grande questione, ciò che davvero fa la
differenza, tanto che ha dato vita a una riflessione teologica, quella latinoamericana in primis (come
si diceva, non va dimenticato che oggi si deve parlare di teologie della liberazione, al plurale), che
ruota tutta intorno a questo punto: esso, però, non aggiunge un nuovo tema di riflessione alla
teologia, bensì determina «un nuovo modo di fare teologia» (Teologia della liberazione, Brescia,
Queriniana, 1972, p. 25). Come scrisse Johan Baptist Metz in un articolo pubblicato nel 1993 da
«Stimmen der Zeit», «la teologia della liberazione è qualcosa di più e qualcosa di diverso da una
teoria sociale di sinistra o da una conseguente teologia pastorale. Essa è teologia». Con quale
peculiarità? Mentre le teologie europee, anche quelle più implicate con le questioni sociali (come la
“teologia politica” e la “teologia della speranza”) hanno pur sempre come interlocutore l’uomo
adulto ed emancipato di bonhoefferiana memoria, il non credente che fatica a riconoscere Dio e lo
marginalizza, la teologia della liberazione ha a che fare con il non uomo, il povero (o meglio
l’impoverito, nel senso che la povertà non è mai solo una fatalità), colui che è privato di diritti e non
ha voce. I teologi latinoamericani parlano, in proposito, di «popolo crocifisso» (Ignacio Ellacuría),
anche a motivo del diffuso e doloroso fenomeno del martirio: di fatto l’America latina è l’unico
«continente povero e al contempo cristiano» (p. 55) dove alcuni che si dicono cristiani uccidono
altri cristiani schierati in favore dei poveri.
Se in Europa, dunque, il problema di ieri era l’ateismo militante e quello dei nostri giorni l’opaca
indifferenza, la teologia della liberazione è da sempre alle prese con l’idolatria del denaro e del
potere, che versa il sangue del povero per trarne profitto. Un’idolatria che è morte, e il cui opposto è
il Dio della vita (cfr. Gutiérrez, Il Dio della vita, Brescia, Queriniana, 1992), l’unico in grado di
ridare dignità al povero: gloria Dei vivens pauper, come amava dire il vescovo Óscar Arnulfo
Romero riecheggiando la celebre espressione di sant’Ireneo. Sia chiaro che al centro della teologia
della liberazione non sta il povero ma il Dio dei poveri, per cui la ragione principale dell’«opzione
preferenziale per i poveri» non è l’analisi sociale (come sostengono gli oppositori della teologia
della liberazione), quanto piuttosto il Dio nel quale i cristiani credono nella comunione della Chiesa.
Questo fa della teologia della liberazione una teologia contestuale in senso pieno (anche se dire
«teologia contestuale», puntualizza il teologo peruviano, è di per sé una tautologia), una teologia
pienamente cattolica che nasce da una pratica di spiritualità vissuta e da una solidarietà concreta: di
fatto, la teologia resta sempre «atto secondo», a fronte di un «atto primo» che è la dimensione attiva
della prassi in favore dei poveri.
Che è ciò che veramente conta, come afferma Gutiérrez a conclusione del suo terzo e ultimo
intervento: «Devo confessare che sono meno preoccupato per l’interesse o la sopravvivenza della
teologia della liberazione che per le sofferenze e le speranze del popolo cui appartengo, e
specialmente per la comunicazione dell’esperienza e del messaggio di salvezza in Gesù Cristo.
Quest’ultimo è materia della nostra carità e della nostra fede. Una teologia, per quanto rilevante sia
la sua funzione, non è altro che un mezzo per approfondirle. La teologia è un’ermeneutica della
speranza vissuta come un dono del Signore. In effetti si tratta di questo: di proclamare la speranza al
mondo nel momento che viviamo come Chiesa» (p. 174). E soprattutto di sollevare le grandi
domande, come fa la Scrittura quando Yhwh comunica a Mosè una prescrizione da trasmettere al
popolo, quella di preoccuparsi di dove dormiranno coloro che non hanno da coprirsi (cfr. Esodo, 22,
25-26). Si chiede Gutierréz in riferimento a questo testo: «Dove vanno a dormire i poveri nel
mondo che si prepara e che, in un certo qual modo, ha già compiuto i primi passi? Che ne sarà dei
preferiti da Dio nel prossimo futuro?» (p. 112).
Gli interventi dell’arcivescovo Müller, che non nasconde la sua amicizia con il teologo peruviano,
sono tesi a valorizzare la teologia della liberazione, definita come «una nuova comprensione della
teologia», e, più nello specifico, «riflessione teologica a servizio della prassi liberatrice di Dio» (p.
22). Richiamandone le origini in una conferenza tenuta nel 1968 da Gutiérrez a Chimbote, nel Nord
del Perú (egli, in verità, doveva parlare di teologia dello sviluppo, ma preparando la relazione si
accorse che era più biblico e più teologico spostare l’accento sulla teologia della liberazione [cfr.
Rosino Gibellini, Il dibattito sulla teologia della liberazione, Brescia, Queriniana, 1986, p. 126]),
materiale che poi confluì nel famoso ed emblematico Teología de la liberación (dicembre 1971,
Lima, nell’edizione peruviana, e marzo 1972 nell’edizione italiana, che uscì prima di quella
spagnola), Müller fa riferimento alla decima edizione del libro (1992) nella quale l’autore, in
un’ampia introduzione, chiarisce alcune espressioni passibili di fraintendimento, tra le quali
«opzione preferenziale per i poveri», «lotta di classe», «teoria della dipendenza», «peccato
strutturale e sociale».
«Qui egli smonta anche in modo convincente le accuse mossegli di orizzontalismo e
immanentizzazione del cristianesimo, il quale mai deve essere strumentalizzato da un’ideologia
volta all’edificazione di un presunto paradiso in terra creato dall’uomo. A differenza della teologia
esistenziale di matrice europea, la teologia della liberazione si domanda — ma non solo — che cosa
Dio, la grazia e la rivelazione comportino relativamente alla comprensione di sé dei cristiani inseriti
in un contesto di società del benessere e socialmente garantita. La teologia della liberazione intende
il lavoro teologico come partecipazione attiva, pratica — e pertanto trasformatrice — all’agire
liberante integrale, complessivo inaugurato da Dio, grazie al quale l’agire storico dell’uomo è reso
capace e chiamato a servizio della liberazione e dell’umanizzazione dell’uomo stesso. È da
evidenziare che la teologia della liberazione non è una costruzione teorica nata a tavolino. Essa vede
se stessa in continuità con lo sviluppo complessivo della teologia cattolica nel XX e nel XXI
secolo» (p. 22).
Di seguito Müller ne individua le fonti principali nella Populorum progressio di Paolo VI, nella
costituzione pastorale del Vaticano II Gaudium et spes e nella visione espressa dalla costituzione
dogmatica Lumen gentium sulla Chiesa come sacramento di salvezza per il mondo, ma anche nelle
grandi conferenze dell’episcopato latinoamericano di Medellín (1968), Puebla (1979) e Santo
Domingo (1992) che hanno recepito e attualizzato la teologia cattolica del XX secolo nel contesto
socio-culturale e spirituale del subcontinente latinoamericano (essendo il testo del 2004, non è citata
l’assemblea generale di Aparecida, del 2007).
Così maturata e irrobustita, «la teologia della liberazione non è solo una sociologia drappeggiata di
teologia o una sorta di socio-teologia. La teologia della liberazione è teologia in senso stretto» (p.
28). Non a caso il primo dei due pronunciamenti vaticani del 1984 (Libertatis nuntius) — sintetizza
Müller — mette in chiaro che «le antropologie empiriche devono essere chiarite alla luce di
un’antropologia filosofica e teologica, diventando così feconde per un’indagine di tipo teologico»
(p. 29).
La seconda istruzione vaticana (Libertatis conscientia, 1986) specifica, da parte sua, il senso
cristiano di libertà e liberazione, e, vista la centralità di questo tema, il discorso viene ripreso nel
settimo e ultimo capitolo del libro: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono». A 25 anni
dall’istruzione “Libertatis conscientia” sulla teologia della liberazione, pp. 181-187). Qui Müller
indica la finalità di entrambi gli interventi della Congregazione per la Dottrina della Fede sopra
citati: «Essi si prefiggono di preservare le “teologie della liberazione” dal diventare ideologie,
perdendo così il loro carattere di teologia» (p. 182). Il secondo, in particolare, riconosce che per sua
natura il Vangelo «è messaggio di libertà e liberazione» (n. 1), anche se la libertà cristiana non
equivale ad anarchia e non è mai senza legami, mentre la missione liberatrice della Chiesa deve
rifuggire da ogni tipo di violenza (cfr. n. 62). L’istruzione Libertatis conscientia individua inoltre i
contenuti positivi dei nuovi approcci elaborati dalla teologia della liberazione, mostrandone la
fecondità.
Va ricordato che nello stesso anno, il 1986, in una Lettera alla Conferenza episcopale brasiliana del
9 aprile (l’istruzione vaticana porta la data del 22 marzo), Giovanni Paolo II affermò che «nella
misura in cui s’impegna nel trovare le risposte giuste (…), la teologia della liberazione è non solo
opportuna, ma utile e necessaria».
Chiudiamo questa recensione con i ringraziamenti che l’arcivescovo Müller rivolge all’amico
teologo Gutiérrez per il suo prezioso lavoro a favore della teologia europea e della Chiesa
universale, sigillo di una visione di Chiesa che necessita di tutti gli apporti migliori: «Proprio
Gustavo Gutiérrez indica al nostro sguardo tutto concentrato sulla prospettiva europea che cosa
significhi Chiesa universale. Con la teologia della liberazione la Chiesa cattolica ha potuto
ulteriormente accrescere il pluralismo al suo interno. La teologia dell’America Latina svela e
propone oggi nuovi aspetti della teologia che integrano una prospettiva europea spesso incrostata»
(p. 178).
L’Osservatore Romano, 4 settembre 2013
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