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Hans Kung :”Dal diritto alla vita non deriva affatto il dovere alla vita”


Eutanasia, Küng: “Io, teologo cattolico, voglio decidere da solo quando e come morire”

di Andrea Tarquini, da Repubblica, 3 settembre 2014

Morire felici?”, il nuovo libro di Hans Küng, uno dei maggiori teologi contemporanei, riapre il dibattito sulla “dolce morte”. “Dal diritto alla vita non deriva affatto il dovere alla vita e l’autodeterminazione fa parte della dignità umana”. “L’aiuto a morire va inteso come estremo aiuto a vivere”.

Se la vita è un dono di Dio, perché non accettare la possibilità di restituire gentilmente il dono? È da tempo l’argomento- chiave di chi chiede di legalizzare l’aiuto a chi vuole morire, oggi possibile quasi solo in Svizzera e in Olanda. Ma adesso uno dei massimi teologi cattolici del nostro tempo, il grande ribelle (ma esegeta di Papa Francesco) Hans Küng, a suo modo la fa propria. In un libro appena uscito in Germania. “Gluecklich sterben?” (“Morire felici?”) s’intitola il volume di 160 pagine per i tipi del Piper Verlag, cui la Sueddeutsche Zeitung ieri ha dedicato una megarecensione con richiamo in prima pagina. Una presa di posizione destinata a smuovere le acque nel grande dibattito — tra cristiani e non solo — sul tema sofferto della liceità o meno di scegliere da soli quando passare dalla vita alla morte.

«È parte del mio modo di concepire la vita, ed è legata alla mia fede nella Vita Eterna, la scelta di non protrarre a tempo indeterminato la mia vita terrena», scrive Hans Küng nel libro recensito ieri da Matthias Drobinski, forse il più autorevole vaticanista tedesco. È la prima volta che un grande teologo cattolico si esprime in favore della “dolce morte”. Continua Küng: «Se e quando giunge il momento, io vorrei avere il diritto, se potrò ancora farlo, di decidere con la mia responsabilità sul momento e il modo della mia morte». E poi: «È conseguenza del principio della dignità umana il principio del diritto all’autodeterminazione, anche per l’ultima tappa, la morte. Dal diritto alla vita non deriva in nessun caso il dovere della vita, o il dovere di continuare a vivere in ogni circostanza. L’aiuto a morire va inteso come estremo aiuto a vivere. Anche in questo tema non dovrebbe regnare alcuna eteronomia , bensì l’autonomia della persona, che per i credenti ha il suo fondamento nella Teonomia» (decisione di Dio o ispirata dai dettami divini, ndr).

Hans Küng, ricorda l’articolo, soffre di morbo di Parkinson. È ricoverato in Svizzera, ha già fatto capire di voler porre fine alla sua vita quando saranno percepibili i sintomi di degrado spirituale e fisico grave. Da tempo è membro di “Exit”, l’associazione elvetica, forse la più nota organizzazione al mondo che aiuta chi, perché malato inguaribile esposto al degrado e declino di ogni facoltà fisica e mentale e a sofferenze insopportabili, desidera essere aiutato a morire sereno.

Già nel 1994 il teologo aveva enunciato il concetto del «morire con dignità». Due tragiche esperienze, ricorda l’articolo ripreso da siti e agenzie di stampa del mondo globale, hanno segnato la sua vita. Prima la morte di suo fratello, che a 23 anni, nel 1955, fu ucciso da un tumore cerebrale: mese dopo mese, l’atletico ragazzo soffrì del rapido decadere d’ogni facoltà mentale e fisica, alla crisi funzionale terminale d’ogni organo vitale, alla fine morì soffocato dall’acqua che gli saliva dai polmoni. Cinquant’anni dopo, morì per un processo di demenza il suo amico, il grande intellettuale Walter Jens. Esperienze che segnano e fanno riflettere, tanto più se credi in Dio e se hai passato una tua vita a chiedere al mondo di riflettere sul ruolo della Chiesa, della vita, dell’Onnipotente.

Non sempre, ricorda Hans Küng nel suo libro appena uscito, i cristiani hanno condannato la scelta di morire. Per primo fu Sant’Agostino a condannare il suicidio, ma durante la persecuzione dei cristiani per opera del pagano e decadente Impero romano, chi credeva in Cristo preferiva morire piuttosto che tradire altri fedeli parlando sotto tortura. Perché allora vedere nel suicidio la via verso l’Inferno, perché non accettare l’aiuto a chi vuole morire?

Bene sarebbe, suggerisce il libro, liberalizzare ampiamente l’attività delle associazioni che aiutano a morire, anche accettando che lo facciano a pagamento, così come parroci chiese e autorità si fanno pagare per i funerali. Bene sarebbe accettare che le persone decise a non sopportare più dolori tremendi e a non continuare a vivere possano decidere sovrane. Tesi provocatoria. «Non voglio esaltare il suicidio», precisa Küng. Ma per la prima volta chi è a favore dell’aiuto alla dolce morte per libera scelta ha un teologo cattolico dalla sua parte.

(3 settembre 2014)


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Commenti

2 risposte a “Hans Kung :”Dal diritto alla vita non deriva affatto il dovere alla vita””

  1. Avatar Vittorio da rios
    Vittorio da rios

    Potremmo dire che i vivi non hanno mai capito a fondo la morte, come rileva Jean-Didier Urbain
    quel concetto oscuro che si è andato costruendo intorno alla morte, all’invecchiamento,all’agonia
    e al cadavere dell’uomo. Tutti i gruppi umani, anche i più arcaici,m hanno cozzato contro un
    fenomeno tanto inevitabile e impenetrabile .Assurda, inspiegabile, non hanno potuto far altro
    che crederla una cosa diversa dall’annientamento irreversibile del soggetto.Impenetrabile, non
    hanno potuto che far altro che tendere al disopra di quel –buco cieco assolutamente– Morin, 1970.
    Una fragile rete di mitologie e di riti che rappresentano altrettanti procedimenti magici, e tecnici
    per occultare la crudeltà dell’evento. Qui si immagina la morte come un sonno o una catalessi,
    –le società primitive– oppure come un passaggio o una liberazione–civiltà dell’India–; la viene
    concepita come un’attesa o una redenzione lungo il percorso che conduce alla vita eterna
    –Cristianesimo, Islamismo–, o ancora come un semplice momento del ciclo della vita ritenuta
    un eterno ritorno –stoici,Caldei Indiani d’America–. Riposo riparatore, accesso al mondo degli
    antenati–società negro-africane–, luogo dove lo spirito si trasferisce da un corpo a un altro
    –metempsicosi , reincarnazione brahmanica ecc.–, o momento supremo di reintegrazione
    nell’Io divino, nella omogeneità eterna dell’uno-tutto –brahmanesimo, buddhismo,jainismo,
    la morte quindi è stata dovunque in varie maniere allontanata mediante l’onnipotenza
    dell’immaginazione umana. Da questo mosaico planetario di modi di immaginare la morte,
    sono derivati riti e manipolazioni simboliche dei morti che finiscono per convalidare in questo
    modo le innumerevoli fantasie sull’aldilà. l’importante è non collidere contro l’innominabile,
    contro quel mutamento nella natura del nostro corpo per cui esso non è neppure più un cadavere
    bensì –un non so che privo di nome in qualsiasi lingua–.–Bossuet 1670– Dovunque, quasi sempre,
    lo spettacolo della tanatomorfosi, della decomposizione, è motivo di ribrezzo, anzi di paura, ed è
    fondamentale per mantenere la funzionalità delle mitologie rassicuranti, impedirne la vista: La
    paura della decomposizione non è altro che la paura di perdere la propria individualità.–Morin–
    Sono stati allora ideati tre grandi procedimenti per sopprimere l’immagine della decomposizione
    nel mondo dei vivi: distruggere, dissimulare, o conservare il cadavere. Per quanto riguarda la
    distruzione, si ha in primo luogo la cremazione, con conservazione delle ceneri in urne presso gli uni
    –Romani, Zapotechi, del Messico–o con dispersione delle ceneri presso altri–India,Nepal, Coriachi
    della Siberia–.Vi è poi l’endocannibalismo, diretto con i riti necrofagici,–Indiani d’America, negri
    Africani–, o indiretto con l’abbandono rituale dei cadaveri agli animali,–India, Tailandia,Tibet, Siberia,
    Africa. Per quanto riguarda la vi è l’immersione, come presso gli Are-Are delle isole Salomone,e
    nell’Indonesia, Barraud 1979. Ma vi è soprattutto il seppellimento pratica universalmente diffusa
    –Cina,Europa,America antica e contemporanea, paesi semitici. Va precisato che l’inumazione della
    persona morta, non è una particolarità del giudaismo, o del cristianesimo,come la cremazione non
    lo è per il induismo, e il buddhismo: entrambe queste pratiche, sono attestanti fin dal neolitico
    inferiore.–Thierry 1979–. Il morire: rimane preliminare alla breve riflessione, che segue che non si
    può parlare del morire in tutte le sue dimensioni, cominciando dalla dimensione interiore, quella
    del mio morire. Se il mio morire è sicuro,è pero non solo imprevedibile,o quasi, ma anche inconoscibile.
    Io infatti non posso parlare del mio morire perché è una fase non sperimentabile,della mia esistenza,
    una fase –meta-empirica–che appena vissuta, diventa incomunicabile per sempre agli altri e a me stesso.
    La morte mi appare allora come l’impossibile comunicazione di me stesso a me stesso.la mia scomparsa
    come coscienza. La negazione contemporanea del morire: Gli atteggiamenti difronte alla morte,come
    oramai vengono chiamati per convenzione,sono stati in questi ultimi anni un campo d’indagine molto
    praticato.Il fatto che le scienze umane si siano –annesse– dei territori dell’ombra,ha dato luogo in una
    prospettiva diacronica, come in una sincronica a tutta una letteratura tanto più notevole e notata
    in quanto il morire in Occidente è diventato un fatto osceno.Nel mondo industrializzato e iperbanizzato
    la negazione del morire,ha questo di particolare: si fonda sul rifiuto categorico –dell’alterità–.Preso
    in carico dalla casta oramai onnipotente dei medici, il morire ridotto a un fatto banale,al livello tecnico
    di una malattia grave, non appartiene più ne a chi sta agonizzando ne ai suoi parenti. L’abbandono,
    al di fuori della cerchia degli specialisti, è generale e istituzionalizzato. Il morire non è più un evento
    pubblico e sociale, ma un fatto clinico e secreto.. Trascinato nel labirinto ospedaliero, più rassicurante
    per i suoi che per lui, al morente viene continuamente negata la sua specificità e occultata metodicamente
    la differenza tra il morire e l’essere infermo. l’importante è nascondere sotto l’accanimento terapeutico
    il sopraggiungere del nulla, far tacere la la comparsa del morire, con un mucchio di diagnosi incerte,
    mascherare insomma l’imminenza della fine, mediante una tecnica di rianimazione cieca che
    trasforma a volte il morente in un essere vegetativo, in un cadavere vivente. Ho ritenuto citare seppur
    molto sinteticamente questi aspetti che spesso sono rimossi e poco discussi riguardante la morte
    in epoca moderna e nella società odierna, dove le degenerazioni consumistiche e la corsa alla ricchezza
    e al benessere da ricercare ad ogni costo, le indubbie conquiste in campo scientifico-biologico e medico stanno costruendo un paradigma di –tentativo– di conquista della immortalità dell’uomo –tecnologico– moderno.
    Drammatica illusione; la morte resta un dramma irrisolto, unica certezza e verità indiscutibile quanto
    improcrastinabile. Resta fondamentale il pensiero di Pascal: la virtù dell’uomo è la distrazione perché
    ci permette di arrivare alla morte senza che ce ne avvediamo. Hans Kung tocca un aspetto importante
    del come –morire– ha fronte di alcune patologie degenerative del sistema nervoso, e della presenza
    di forme tumorali dove la parte terminale e più acuta della malattia riserva sofferenze fisiche e psitiche
    spesso insopportabili nonostante la farmacologia sia di grande aiuto. Anche l’uomo di fede è chiamato
    a dare risposte a questo dramma: quando il dolore è superiore alle umane capacità di sopportare o in una prospettiva di vita –vegetativa– poter disporre di morire come ultima e estrema volontà soggettiva.
    La morte va collocata nella naturale nostra condizione esistenziale.Ridiamoli la sua giusta dignità.
    La morte come definitiva liberazione e salvezza come Cristo ci ha trasmesso. Unica e assoluta per
    uscire dalla –gabbia– della nostra precaria e tribolata condizione umana.
    Un caro saluto.

  2. Avatar klement
    klement

    D’accordo sulla questione del dono, però l’autodeterminazione mi sembra fine a se stesso nel testamento biologico in caso di coma. Vita vegetale non significa trasformarsi in un raperonzolo, ma solo le funzioni biologiche elementari. E su esse c’è ben poco da autodeterminare, se sono nullatenente mica faccio testamento.
    Comunque meglio il divieto assoluto piuttosto che ritenere un dogma assoluto il diritto di scegliere, ma poi dover tener conto dei famigliari magari in lotta pure tra di loro

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