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Noi Siamo Chiesa

Sezione italiana del movimento internazionale “We Are Church” per la riforma della Chiesa cattolica

I vescovi dell’Umbria diffondono un testo teologicamente e pastoralmente del tutto sbagliato. Leggi il testo e gli aspri interventi di Andrea Grillo e di don Paolo Farinella

Vescovi Umbri – alla pandemia del Coronavirus sostituiamo la pandemia della preghiera e della tenerezza

Il diffondersi impressionante dell’epidemia da Coronavirus ha reso necessaria l’assunzione di numerose drastiche misure per la tutela della salute pubblica. Tra queste, anche quella – accolta non senza difficoltà e sofferenza – di celebrare la liturgia, compresa la S. Messa, senza la partecipazione della comunità credente. Nelle stesse condizioni dovremo vivere la Settimana Santa ormai alle porte, con il Triduo Pasquale e la Pasqua di risurrezione, centro dell’anno liturgico. Per ogni fedele questa situazione costituisce una amara esperienza di autentico “digiuno”: egli deve infatti rinunciare ad accostarsi alla mensa eucaristica e a condividere con gli altri fratelli e sorelle questo momento essenziale e costitutivo della vita cristiana.

Le diverse liturgie che – nel rispetto delle norme di sicurezza stabilite dalla competente autorità – si terranno nelle chiese Cattedrali e nelle parrocchie saranno comunque e sempre a nome e a beneficio di tutto il popolo fedele, raccolto idealmente attorno all’altare per il mistero della comunione dei santi. Perciò i Vescovi, attingendo al Magistero e alla Tradizione della Chiesa, hanno ritenuto di qualche utilità fornire in proposito alcuni elementi chiarificatori, che favoriscano una serena comprensione del momento difficile che stiamo vivendo.

  1. La riforma del Concilio Vaticano II auspica che «i fedeli prendano parte alla celebrazione consapevolmente, attivamente e fruttuosamente» (SC 11), e raccomanda ai battezzati la comunione al sacrificio eucaristico – alle condizioni richieste – come partecipazione più perfetta al sacrificio stesso (cf SC 55).
    Le indicazioni conciliari non significano tuttavia che la validità della celebrazione eucaristica dipenda o sia condizionata dalla presenza del popolo. La “materia” imprescindibile della Messa sono il pane e il vino, così come la “forma” è data dall’atto celebrativo presieduto dal sacerdote. Quando un presbitero celebra l’Eucaristia «con l’intenzione di fare ciò che vuole fare la Chiesa», quella Messa attualizza oggettivamente il mistero pasquale di Cristo. È dottrina di fede infatti che nella memoria eucaristica «è contenuto e immolato in modo incruento lo stesso Cristo che si offerse una volta in modo cruento sull’altare della croce… Si tratta infatti di una sola e identica vittima e lo stesso Gesù la offre ora per il ministero dei sacerdoti, egli che un giorno offrì se stesso sulla croce: diverso è solo il modo di offrirsi» (DS 1743). Oltretutto, se la “materia” fosse l’assemblea si dovrebbe pensare paradossalmente ad una sua trasformazione o addirittura ad una sua “transustanziazione”, concetto del tutto estraneo alla tradizione cattolica e alla teologia dell’Eucaristia.
  2. L’assemblea partecipa alla celebrazione ma non è la protagonista costitutiva dell’atto sacramentale, come lo è invece il ministro ordinato, presbitero o vescovo. Egli stesso d’altronde non è ministro di se stesso, ma solo di Cristo e del suo corpo che è la Chiesa. La presidenza eucaristica infatti, come ha sempre insegnato il Magistero, è un agire “nella persona stessa di Cristo” (in persona Christi), tanto è vero che il ministro in quel momento non si esprime in terza persona, bensì in prima: «Questo è il mio corpo. Questo è il mio sangue». È chiaro che da un punto di vista pastorale la presenza del popolo è quanto mai auspicabile, così come è raccomandato «che i fedeli non assistano come estrani o muti spettatori e vi partecipino anzi consapevolmente, piamente e attivamente» (SC 48). Teologicamente, tuttavia, l’attuazione oggettiva della pasqua di Cristo nell’azione eucaristica della Chiesa non dipende dalla loro presenza. Una cosa è la validità oggettiva, altra la fecondità o la fruttuosità soggettiva. Il celebrante e l’assemblea dei fedeli svolgono un ruolo di rappresentanza visibile, ma il ministro originario dell’azione eucaristica è lo stesso Signore Gesù, eternamente glorificato presso il Padre, Lui che «possiede un sacerdozio che non tramonta» (Eb 7, 24; cf 7, 25-26; 8, 1-2; 9, 12. 24). Lo stesso vale per la presenza eucaristica di Cristo nei segni sacramentali del pane e del vino.
  3. La presenza del popolo di Dio non è accessoria e il sacerdozio battesimale è inseparabilmente unito a quello ministeriale (cf LG 10). La Messa però non dipende dal sacerdozio battesimale. I fedeli «compiono la propria parte nell’azione liturgica» (LG 11), ma non sono loro che attuano e rendono presente il gesto di Cristo che si offre al Padre ogni volta che, obbedendo al suo comando, il ministro – a nome della Chiesa e in persona Christi – fa memoria della sua pasqua. (A questo proposito, è quanto mai urgente una appropriata catechesi che educhi la comunità alla piena partecipazione all’azione eucaristica; sarà anzi indispensabile operare in questa linea appena si possa tornare alla normalità).
  4. La liturgia è un’azione comunitaria, ma quando si parla di comunità e di comunione si deve avere la consapevolezza che essa va al di là dei confini visibili; è una comunione di grazia che unisce sempre realmente tutti i battezzati nell’unico corpo mistico di Cristo. Ciò significa che i fedeli sono inclusi in ogni celebrazione eucaristica, alla quale si possono unire spiritualmente pur non essendo visibilmente presenti. È bello ricordare cosa fece P. Theilhard de Chardin quando, nel deserto di Ordos in Cina nel 1923, nel giorno della Trasfigurazione, trovandosi senza pane e senza vino, celebrò “la Messa sul mondo”, presentando a Dio la storia dell’universo come una grande oblazione che, per mezzo di Cristo nello Spirito, sale al Padre: «Poiché … sono senza pane, senza vino, senza altare, mi eleverò al di sopra dei simboli alla pura maestà del reale, e ti offrirò, io tuo sacerdote, sull’altare della terra totale, il lavoro e la pena del mondo» (“La Messa sul mondo”», in Inno dell’universo, Brescia 1992, p. 9). Il “digiuno eucaristico” a cui i fedeli sono costretti in questo momento diventa un’opportunità per educarsi a fare di tutta la propria esistenza un’offerta vivente a Dio, secondo quel “culto spirituale” tanto raccomandato da San Paolo (cf Rm 12, 1-2), e costituisce un’occasione preziosa per riscoprire la bellezza e la grandezza di potersi comunicare, non appena sarà possibile, al corpo e sangue del Signore Gesù. La Messa che i sacerdoti celebrano ogni giorno da soli, non senza una loro grande sofferenza per l’assenza dei fedeli, rappresenta un segno di comunione soprannaturale di tutta la Chiesa e dice “in atto” come i battezzati siano chiamati a farsi «pietre vive, costituiti come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo» (1Pt 2, 4-5).
  5. La decisione assunta non è dunque di sospendere le Messe, ma di celebrarle senza il popolo; una scelta obbligata, che ovviamente non esclude che si debbano incrementare molteplici forme di preghiera e di carità e ricercare i tanti tipi di presenza e dialogo con i fedeli resi possibili dai moderni mezzi di comunicazione, per mantenere viva la fede e la comunione con la Chiesa in un tempo in cui nemmeno è permesso incontrarsi in gruppo per la catechesi e per altri momenti di formazione e condivisione. La mancanza della Messa coram populo chiama tutti i fedeli ad educarsi o ri-educarsi ad un rinnovato clima di ascolto della Parola di Dio, riflessione e preghiera per riscoprire la comunità familiare come “chiesa domestica” o piccola chiesa nella grande Chiesa (cf LG 11; AA 11).

La certezza che ogni giorno numerose azioni eucaristiche sono celebrate vicino alle nostre case rappresenta una grazia e una benedizione per tutti. Ad esse ci uniamo spiritualmente ed offriamo al Signore le nostre sofferenze e lo stesso “digiuno eucaristico”, affinché Dio ci aiuti a superare questo momento doloroso e sia vicino a quanti soffrono nel corpo e nello spirito. E accogliamo fiduciosi il duplice invito del Santo Padre: alla pandemia del coronavirus sostituiamo la pandemia della preghiera e della tenerezza.

Assisi, 31 marzo 2020.

+ Renato Boccardo

Arcivescovo di Spoleto-Norcia

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Che cosa avrebbe detto Padre Silvano? A proposito di un infortunio episcopale “de eucharistia”

di Andrea Grillo

 

Pubblicato il 1 aprile 2020 nel blog: Come se non

Di fronte al testo apparso sul sito della Conferenza Episcopale Umbra (CEU), intitolato “Alla pandemia del Coronavirus sostituiamo la pandemia della preghiera e della tenerezza” (già il titolo suona un po’ troppo retorico…) mi sono chiesto: che cosa avrebbe detto Silvano Maggiani, con la sua saggezza, di fronte a un testo tanto disastroso? Sono convinto che avrebbe sorriso e poi avrebbe iniziato a smontare, punto per punto, la paginetta che campeggia sotto la immagine dei vescovi radunati in assemblea. Ecco più o meno quello che sarebbe stato il suo discorso al Monsignore che ha steso il documento. I contenuti sono i suoi, anche se lo stile, inevitabilmente, è il mio.

SENZA TENEREZZA E SENZA TEOLOGIA

Caro Mons. XXX,

Nel testo della CEU avete infilato almeno tre grandi svarioni teologici, di una gravità e insieme di una ingenuità davvero sconsolante. Chi ha scritto il testo sembra che abbia sommariamente dato una sbirciata al catechismo, leggendo una riga e saltandone tre, e poi abbia maturato le convinzioni stravolte che prendono forma in questo discorso. Ti propongo di prendere in ordine le tre frasi più gravi. Vedrai quanto è facile smontarle secondo la teologia più classica:

  1. a) ” 1. La riforma del Concilio Vaticano II auspica che «i fedeli prendano parte alla celebrazione consapevolmente, attivamente e fruttuosamente» (SC 11), e raccomanda ai battezzati la comunione al sacrificio eucaristico – alle condizioni richieste – come partecipazione più perfetta al sacrificio stesso (cf SC 55). Le indicazioni conciliari non significano tuttavia che la validità della celebrazione eucaristica dipenda o sia condizionata dalla presenza del popolo. La “materia” imprescindibile della Messa sono il pane e il vino, così come la “forma” è data dall’atto celebrativo presieduto dal sacerdote. Quando un presbitero celebra l’Eucaristia «con l’intenzione di fare ciò che vuole fare la Chiesa», quella Messa attualizza oggettivamente il mistero pasquale di Cristo. È dottrina di fede infatti che nella memoria eucaristica «è contenuto e immolato in modo incruento lo stesso Cristo che si offerse una volta in modo cruento sull’altare della croce… Si tratta infatti di una sola e identica vittima e lo stesso Gesù la offre ora per il ministero dei sacerdoti, egli che un giorno offrì se stesso sulla croce: diverso è solo il modo di offrirsi» (DS 1743). Oltretutto, se la “materia” fosse l’assemblea si dovrebbe pensare paradossalmente ad una sua trasformazione o addirittura ad una sua “transustanziazione”, concetto del tutto estraneo alla tradizione cattolica e alla teologia dell’Eucaristia.”

Qui non si legge il Concilio, ma si proietta sul Vaticano II una versione ridotta e distorta della teologia scolastica. Si usano i concetti di materia e forma come nessuno scolastico ha mai fatto. Si cita il Concilio di Trento su un tema (il sacrificio) che non c’entra con l’argomento (partecipazione del popolo) e si finisce mostrando di ignorare gravemente ciò che tutta intera la tradizione ha sempre detto: ossia che l’effetto di grazia del sacramento è proprio la “comunione ecclesiale”. Il ridicolo riferimento alla transustanziazione, che  non coglie nemmeno lontanamente che da Agostino, a Trento al Vaticano II, con linguaggi diversi, il vero “fine” della eucaristia non sta nell’effetto “intermedio” (presenza sotto le specie) ma nel dono di grazia della “comunione ecclesiale”. Agostino, Innocenzo III, Vaticano II, ma prima di tutte le Preghiere Eucaristiche di tutti i tempi, con linguaggi diversi, dicono anzitutto questo. Come fa un Vescovo, una Conferenza episcopale, a negarlo? Solo per giustificare le “celebrazioni senza popolo in condizione di pandemia”? Sarebbe questa la tenerezza?

  1. b) Veniamo al secondo brano:

“2. L’assemblea partecipa alla celebrazione ma non è la protagonista costitutiva dell’atto sacramentale, come lo è invece il ministro ordinato, presbitero o vescovo. Egli stesso d’altronde non è ministro di se stesso, ma solo di Cristo e del suo corpo che è la Chiesa. La presidenza eucaristica infatti, come ha sempre insegnato il Magistero, è un agire “nella persona stessa di Cristo” (in persona Christi), tanto è vero che il ministro in quel momento non si esprime in terza persona, bensì in prima: «Questo è il mio corpo. Questo è il mio sangue». È chiaro che da un punto di vista pastorale la presenza del popolo è quanto mai auspicabile, così come è raccomandato «che i fedeli non assistano come estrani o muti spettatori e vi partecipino anzi consapevolmente, piamente e attivamente» (SC 48). Teologicamente, tuttavia, l’attuazione oggettiva della pasqua di Cristo nell’azione eucaristica della Chiesa non dipende dalla loro presenza. Una cosa è la validità oggettiva, altra la fecondità o la fruttuosità soggettiva. Il celebrante e l’assemblea dei fedeli svolgono un ruolo di rappresentanza visibile, ma il ministro originario dell’azione eucaristica è lo stesso Signore Gesù, eternamente glorificato presso il Padre, Lui che «possiede un sacerdozio che non tramonta» (Eb 7, 24; cf 7, 25-26; 8, 1-2; 9, 12. 24). Lo stesso vale per la presenza eucaristica di Cristo nei segni sacramentali del pane e del vino.”

I concetti che si impiegano in questo secondo paragrafo sono tutti presi, pari pari, da Mediator Dei. Oh, se Pius Parsch leggerà da lassù queste righe! Lui, che già nel 1947, con forza di profeta, aveva apertamente criticato il testo di Pio XII, perché aveva il concetto “vecchio” di partecipazione. Con queste categorie si resta alla divisione tra clero e popolo nell’atto di culto: oh, se Rosmini leggerà queste poche righe, quanto se ne addolorerà. Sono passati quasi 200 anni e i Vescovi non hanno ancora capito! Questa divisione tra “validità oggettiva” e “fruttuosità” è la degenerazione di categorie classiche, che oggi funziona come sordità alla logica del Vaticano II, che vuole tutti partecipare “per ritus et preces”. Una teologia che pensa l’attuazione del mistero “incondizionata” rispetto alla presenza del popolo non merita di essere chiamata teologia. Ed è una teologia che non riesce a giustificare la Riforma Liturgica, perché la grande riforma ha avuto nel superamento di queste ideucce clericali la sua vera ragion d’essere. Per favore, non si usi l’avverbio “teologicamente”, non si usi la locuzione “come ha sempre insegnato il Magistero” per coprire le proprie lacune. Il magistero ha insegnato, ma tu, Monsignore, non hai studiato e prendi fischi per fiaschi. Prima studia uno briciolo di buona teologia, e poi parla come cristiano. Se poi vuoi parlare con autorità, ma mostri di non conoscere la tradizione, la penitenza dovrà essere lunga, e dura. E non te la dovrai cavare con una “indulgenza plenaria”…

  1. c) Ed ecco il terzo gioiello:

“La presenza del popolo di Dio non è accessoria e il sacerdozio battesimale è inseparabilmente unito a quello ministeriale (cf LG 10). La Messa però non dipende dal sacerdozio battesimale. I fedeli «compiono la propria parte nell’azione liturgica» (LG 11), ma non sono loro che attuano e rendono presente il gesto di Cristo che si offre al Padre ogni volta che, obbedendo al suo comando, il ministro – a nome della Chiesa e in persona Christi – fa memoria della sua pasqua. (A questo proposito, è quanto mai urgente una appropriata catechesi che educhi la comunità alla piena partecipazione all’azione eucaristica; sarà anzi indispensabile operare in questa linea appena si possa tornare alla normalità).”

Qui la logica è messa in discussione. Se la presenza del popolo “non è accessoria”, ma la messa “non dipende” dal sacerdozio battesimale, si crea un dissidio insuperabile, che nel linguaggio senza rigore dell’estensore non crea problemi. Ragioniamo: le macchine hanno accessori. Ad esempio gli alzacristalli elettrici. Ma la macchina, come tale, non dipende dall’accessorio. Tutto bene. Ma se diciamo che il freno non è un accessorio, come possiamo dire che la macchina non dipende dal freno? Lo vedi, Monsignore, che il tuo linguaggio retorico e vuoto diventa imbarazzante? Lo vedi che non hai detto niente di solido. O, meglio, hai detto solo che, nonostante il Concilio Vaticano II, tu vuoi ridurre il popolo ad un accessorio e pretendi di farlo dire all’intera tradizione, senza sapere quello che dice! Allora potremmo dire così, per farti capire. La macchina può avere accessori. Chi la guida è Cristo, il volante è colui che la presiede, ma senza acceleratore, senza freno e senza frizione, la macchina non si dà, non va, non c’è.

La ciliegina sulla torta però è questa: in una parentesi finale tu ti stracci le vesti per inventare una catechesi a tappeto, con cui educare la comunità alla partecipazione. Questa poi è la più grossa! Con quello che hai scritto, tu vorresti “educare”? Stai fermo. Non fare niente. Prima fatti educare tu dalla tradizione, impara che cosa è davvero partecipare, mettiti nella posizione di chi apprende. E’ proprio il colmo, ma è sempre così. Proprio tu, che dimostri di non sapere l’ABC della tradizione eucaristica, che dimostri di non capire la importanza della partecipazione, ti metti a pontificare sulla necessaria educazione del popolo: sai solo mescolare paternalismo clericale e clericalismo paternalistico. Credi di vedere e sei cieco.

Dovevo essere sincero. Questa non è tenerezza, è solo durezza e rigidità. Così non si può andare avanti. Sentir dire da vescovi queste bestialità sulla eucaristia è intollerabile. L’affare è serio.

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Lettera di don Paolo Farinella al Presidente dei vescovi dell’Umbria

 

Presidente della Conferenza Episcopale Umbra

Prego cortesemente codesta segreteria di volere recapitare questa e-mail

Al Vescovo di Spoleto Norcia

Renato Boccardo

Presidente della CEU

Via E-mail

 

Signor Presidente,

ho letto il comunicato, a sua firma, della CEU dal titolo “Alla pandemia del coronavirus sostituiamo la pandemia della preghiera e della tenerezza” con la quale si vorrebbe dare un’indicazione magisteriale per giustificare la Messa “sine populo”, facendo apparire, per conseguenza logica, la celebrazione “cum popolo” come un accessorio di cui si può fare a meno.

Sono rimasto allibito e sconcertato dal bassissimo livello teologico che l’estensore manifesta, segno di una ignoranza (senso etimologico) sia della tradizione che del Magistero solenne del concilio Vaticano II e della Ratio della riforma di Paolo VI. Basta fare il raffronto delle semplici “rubriche” per capire che ci troviamo di fronte a due mondi diversi, tra il “prima” e il “dopo”.

Un solo esempio:

Il Messale ante-1962 inizia: “Il sacerdote, rivestito dei paramenti, quando si avvicina all’altare, fatta la debita riverenza, si segna con il segno della croce dalla fronte al petto e dice a voce alta: ‘Introibo ad altare Dei…’. Gli inservienti/ministranti rispondono…”

Messale riformato di Paolo VI (1969): “Quando il Popolo si è radunato, il sacerdote con i  ministri si reca all’altare; intanto si esegue il canto d’ingresso. Giunto all’altare, il sacerdote con i ministri fa la debita riverenza, bacia l’altare in segno di venerazione. Poi, con i ministri si reca alla sede. Terminato il canto d’ingresso, sacerdote e fedeli, in piedi, fanno il segno della croce. Il sacerdote dice… il popolo risponde…”.

Potrei continuare così fino alla fine della celebrazione, ma credo che solo l’incipit dica il senso e la qualità.

La dichiarazione dei Vescovi Umbri è un coacervo di tradizionalismo, scolastica manualistica, ignoranza della riforma del Vaticano II, di cui si sono prese solo alcune forme esteriori, senza la necessaria interiorizzazione sia dello spirito sia della lettera della riforma. L’autore sembra fermo al 1962 perché con quel testo dimostra di non avere letto nemmeno un autore di tutta la teologia che si è sviluppata a partire dal Concilio, che risulta in filigrana dalla scritto, è un incidente della storia, un raduno d’imbianchini per dare una mano di bianco alle pareti esterne.

Si vuole dunque giustificare “teologicamente” che la Messa è Messa e che del Popolo santo di Dio si possa a fare a meno, quasi a preludere a un ritorno completo, complessivo al tempo preconciliare, abolendo così definitivamente il magistero più alto nella Chiesa, anche secondo la teologia tradizionale, che è quello conciliare “cum Petro e sub Petro”?

Che necessità “teologica” c’era di scomodare “le specie”, la “persona Christi”, il “sacrificio”, la “validità”, quando semplicemente, se proprio voleva, poteva dire: “In una situazione grave, di eccezionale emergenza, mai sperimentata a livello planetario, permettiamo che il sacerdote celebri in forza del n. 211 di “Principi e norme per l’uso del Messale Romano” di Paolo VI, “senza popolo”, ma comunque rappresentato da alcuni di esso, invitando tutto il Santo Popolo di Dio a unirsi spiritualmente con tutta la Chiesa “sacramento dell’intima unione con tutto il genere umano” (LG, 1) che celebra il sacramento visibile di questa unione”. Ecc. Ecc. Ecc.

Il testo è a firma del presidente dei vescovi umbri, quindi dovrebbe essere un atto magisteriale certificato, ordinario, ma il contenuto teologico è di pessimo livello, un’accozzaglia di frasette pescate or qua or là, senza un senso logico e ordinato, senza mens, essenziale in un Maestro episcopale. L’estensore ha profuso confusamente la propria impreparazione, avendo la presunzunzione di farla passare per teologia comune.

Viene spontaneo pensare alle parole di Gesù: “Tu sei maestro in Israele e non conosci queste cose?” (Gv 3,10). Per non ripetere concetti, teologia e sofferenza, consiglio vivamente di leggere la magistrale risposta del teologo-liturgo Andrea Grillo, che, da par suo, esamina il testo nell’articolo

Che cosa avrebbe detto Padre Silvano? A proposito di un infortunio episcopale “de eucharistia””.

 

La pandemia virale non solo ha svelato la fragilità del mondo in ogni suo aspetto, sanitario, politico, economico, finanziario, sociale, ma anche che le Chiese locali appaiono “pecore senza pastori” (Zc 10,2; 2Cr 18,16; Mt 9,36).

 

Con la tristezza di vedere ancora una volta sfuggire un “kairòs” che avrebbe potuto essere una potente occasione di lettura evangelica dei “segni dei tempi”, un cordiale saluto in una Pasqua vissuta in esilio a Babilonia, dove appendendo ai salici le cetre liturgiche e lontani dal tempio, viviamo più intimamente uniti al Signore della Storia. In questo tempo di esilio in casa nostra, come gli Ebrei in terra di Babilonia, abbiamo la Parola, sacramento della Shekinàh/Dimora di Dio in mezzo a noi: “La Parola carne fu fatta” (Gv 1,24). Gli Ebrei che sono maestri in “stato di necessità”, hanno codificato così la preghiera in tempi di emergenza: «Chi dedica la notte allo studio della Toràh è considerato dalla Scrittura come se avesse partecipato al sacrificio del Tempio» (R. Yohanan). Non è necessario accedere al tempio, perché – insegnano i Rabbini – in casi di necessità, è sufficiente dire «’Amen» che è il credo in un soffio, l’atto di fede e di comunione con «Dio, mio re fedele» (queste parole in ebraico formano l’acrostico di «’Amen»). Non dimenticando mai che “ex hominibus adsumptus pro hominibus constituitur in his quae sunt ad Deum”.

In Domino.

 

Paolo Farinella, prete

Parrocchia S. M. Immacolata e San Torpete

Genova


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Commenti

3 risposte a “I vescovi dell’Umbria diffondono un testo teologicamente e pastoralmente del tutto sbagliato. Leggi il testo e gli aspri interventi di Andrea Grillo e di don Paolo Farinella”

  1. Avatar gsimy
    gsimy

    il messale del 1962 (come tutta la tradizione precedente) vieta anch’esso la celebrazione della Messa senza almeno un fedele in grado di rispondere o cantare (perchè la forma normale del messale tridentino è quella cantata, anche se per declino del senso liturgico negli ultimi secoli prevaleva la messa letta) o senza un ministro (che non è altro che il popolo in forma ridotta)

  2. Avatar CARLO GALANTI
    CARLO GALANTI

    Testo non solo confuso . Tale testo conduce ad una autentica paranoia. Noi sacerdoti già anziani e in un continuo studio di approfondimento sia di carattere teologico e teologico storico unitamente ad uno studio circa il demenziale linguaggio di tanti scritti e prediche possiamo ancora accorgerci di valutazione fuorvianti sia in campo strettamente teologico e sia in campo di carattere pastorale. Ma le nuove generazioni sia laici che presbiteri di questa dichiarazione dei vescovi dell’Umbria non riescono a comprendere nulla!!!

    la stesura di tale dichiarazione a scopo pastorale risulta un groviglio demenziale!!

    don CARLO GALANTI

  3. Avatar Giuseppe Magnolini
    Giuseppe Magnolini

    Sono perfettamente, totalmente d’accordo con Grillo e con don Paolo e li ringrazio del loro coraggio e della loro chiarezza. Sono un prete e parroco di quattro comunità in diocesi di Brescia. Sinceramente non ho approvato affatto, anche da noi, certe raccomandazioni fatte dal vescovo a celebrare da soli e mi sono detto: ma io sono prete per la comunità e non per me stesso, ritengo che l’ Eucaristica ha senso se c’è radunata la comunità, altrimenti è un gesto vuoto. Appare qui ancora un forte clericalismo che mai abbatteremo, perché i primi a non rendere possibile ciò sono i nostri vescovi che, permettetemi, a volte, senza offesa, sanno poco o niente di teologia. Passa l’ idea che ciò che conta è il prete, se poi la gente non c’ è non importa, altro che sacerdozio battesimale… quello del coronavirus era il tempo giusto ritornare al’ essenziale ed invece si siamo impantanati in tante devozioncelle
    Ad esempio da noi il vescovo ha chiesto ai parroci,il venerdì santo di uscire da soli per le vie dei nostri paesi portando in processione la reliquia della croce; penso proprio che disubbidirò….basta con ste retaggio medioevali…
    Comunque sottoscrivo in pieno quanto detto nei due stupendi articoli.
    Un saluto a Grillo e don Paolo e ancora grazie

    Giuseppe, prete

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