DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
ALLA CURIA ROMANA PER GLI AUGURI DI NATALE
Sala Clementina
Sabato, 21 dicembre 2019
«E il Verbo si fece carne e pose la sua dimora in mezzo a noi» (Gv 1,14).
Cari fratelli e sorelle,
a tutti voi il mio cordiale benvenuto. Ringrazio il Cardinale Angelo Sodano per le parole che mi ha rivolto, e soprattutto desidero esprimergli la mia gratitudine, anche a nome dei Membri del Collegio Cardinalizio, per il prezioso e puntuale servizio che Egli ha svolto quale Decano, per lunghi anni, con disponibilità, dedizione, efficienza e grande capacità organizzativa e di coordinamento. Con quel modo di agire della “rassa nostrana”, come direbbe Nino Costa [scrittore piemontese]. Grazie di cuore, Eminenza! Adesso tocca ai Cardinali Vescovi eleggere un nuovo Decano; spero che scelgano qualcuno che si occupi a tempo pieno di questa carica tanto importante. Grazie.
A voi qui presenti, ai vostri collaboratori, a tutte le persone che prestano servizio nella Curia, come pure ai Rappresentanti Pontifici e a quanti li affiancano, auguro un santo e lieto Natale. Ed agli auguri aggiungo la riconoscenza per la dedizione quotidiana che offrite al servizio della Chiesa. Grazie tante!
Anche quest’anno il Signore ci offre l’occasione di incontrarci per questo gesto di comunione, che rafforza la nostra fraternità ed è radicato nella contemplazione dell’amore di Dio rivelatosi nel Natale. Infatti, «la nascita di Cristo – ha scritto un mistico del nostro tempo – è la testimonianza più forte ed eloquente di quanto Dio abbia amato l’uomo. Lo ha amato di un amore personale. È per questo che ha preso un corpo umano al quale si è unito e lo ha fatto proprio per sempre. La nascita di Cristo è essa stessa una “alleanza d’amore” stipulata per sempre tra Dio e l’uomo»[1]. E San Clemente d’Alessandria scrive: «Per questo lui [Cristo] è disceso, per questo rivestì l’umanità, per questo patì volontariamente ciò che è degli uomini, affinché, dopo essersi misurato con la debolezza di noi che egli amò, potesse in cambio misurare noi con la sua potenza»[2].
Considerando tanta benevolenza e tanto amore, lo scambio degli auguri natalizi è altresì un’occasione per accogliere nuovamente il suo comandamento: «Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,34-35). Qui, di fatto, Gesù non ci chiede di amare Lui come risposta al suo amore per noi; ci domanda, piuttosto, di amarci l’un l’altro con il suo stesso amore. Ci domanda, in altre parole, di essere simili a Lui, perché Egli si è fatto simile a noi. Il Natale, dunque – esorta il santo Cardinale Newman –, «ci trovi sempre più simili a Colui che, in questo tempo è divenuto bambino per amor nostro; che ogni nuovo Natale ci trovi più semplici, più umili, più santi, più caritatevoli, più rassegnati, più lieti, più pieni di Dio»[3]. E aggiunge: «Questo è il tempo dell’innocenza, della purezza, della dolcezza, della gioia, della pace»[4].
Il nome di Newman ci ricorda anche una sua ben nota affermazione, quasi un aforisma, rintracciabile nella sua opera Lo sviluppo della dottrina cristiana, che storicamente e spiritualmente si colloca al crocevia del suo ingresso nella Chiesa Cattolica. Dice così: «Qui sulla terra vivere è cambiare, e la perfezione è il risultato di molte trasformazioni»[5]. Non si tratta ovviamente di cercare il cambiamento per il cambiamento, oppure di seguire le mode, ma di avere la convinzione che lo sviluppo e la crescita sono la caratteristica della vita terrena e umana, mentre, nella prospettiva del credente, al centro di tutto c’è la stabilità di Dio[6].
Per Newman il cambiamento era conversione, cioè un interiore trasformazione[7]. La vita cristiana, in realtà, è un cammino, un pellegrinaggio. La storia biblica è tutta un cammino, segnato da avvii e ripartenze; come per Abramo; come per quanti, duemila anni or sono in Galilea, si misero in cammino per seguire Gesù: «E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono» (Lc 5,11). Da allora, la storia del popolo di Dio – la storia della Chiesa – è segnata sempre da partenze, spostamenti, cambiamenti. Il cammino, ovviamente, non è puramente geografico, ma anzitutto simbolico: è un invito a scoprire il moto del cuore che, paradossalmente, ha bisogno di partire per poter rimanere, di cambiare per potere essere fedele[8].
Tutto questo ha una particolare valenza nel nostro tempo, perché quella che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca. Siamo, dunque, in uno di quei momenti nei quali i cambiamenti non sono più lineari, bensì epocali; costituiscono delle scelte che trasformano velocemente il modo di vivere, di relazionarsi, di comunicare ed elaborare il pensiero, di rapportarsi tra le generazioni umane e di comprendere e di vivere la fede e la scienza. Capita spesso di vivere il cambiamento limitandosi a indossare un nuovo vestito, e poi rimanere in realtà come si era prima. Rammento l’espressione enigmatica, che si legge in un famoso romanzo italiano: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” (ne Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa).
L’atteggiamento sano è piuttosto quello di lasciarsi interrogare dalle sfide del tempo presente e di coglierle con le virtù del discernimento, della parresia e della hypomoné. Il cambiamento, in questo caso, assumerebbe tutt’altro aspetto: da elemento di contorno, da contesto o da pretesto, da paesaggio esterno… diventerebbe sempre più umano, e anche più cristiano. Sarebbe sempre un cambiamento esterno, ma compiuto a partire dal centro stesso dell’uomo, cioè una conversione antropologica[9].
Noi dobbiamo avviare processi e non occupare spazi: «Dio si manifesta in una rivelazione storica, nel tempo. Il tempo inizia i processi, lo spazio li cristallizza. Dio si trova nel tempo, nei processi in corso. Non bisogna privilegiare gli spazi di potere rispetto ai tempi, anche lunghi, dei processi. Noi dobbiamo avviare processi, più che occupare spazi. Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia. Questo fa privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove. E richiede pazienza, attesa»[10]. Da ciò siamo sollecitati a leggere i segni dei tempi con gli occhi della fede, affinché la direzione di questo cambiamento «risvegli nuove e vecchie domande con le quali è giusto e necessario confrontarsi»[11].
Affrontando oggi il tema del cambiamento che si fonda principalmente sulla fedeltà al depositum fidei e alla Tradizione, desidero ritornare sull’attuazione della riforma della Curia romana, ribadendo che tale riforma non ha mai avuto la presunzione di fare come se prima niente fosse esistito; al contrario, si è puntato a valorizzare quanto di buono è stato fatto nella complessa storia della Curia. È doveroso valorizzarne la storia per costruire un futuro che abbia basi solide, che abbia radici e perciò possa essere fecondo. Appellarsi alla memoria non vuol dire ancorarsi all’autoconservazione, ma richiamare la vita e la vitalità di un percorso in continuo sviluppo. La memoria non è statica, è dinamica. Implica per sua natura movimento. E la tradizione non è statica, è dinamica, come diceva quel grande uomo [G. Mahler riprendendo una metafora di Jean Jaurès]: la tradizione è la garanzia del futuro e non la custodia delle ceneri.
Cari fratelli e sorelle,
nei nostri precedenti incontri natalizi, vi ho parlato dei criteri che hanno ispirato questo lavoro di riforma. Ho anche motivato alcune attuazioni che sono già state realizzate, sia definitivamente sia ad experimentum[12]. Nel 2017 ho evidenziato alcune novità dell’organizzazione curiale, come, ad esempio, la Terza Sezione della Segreteria di Stato, che sta andando molto bene; o le relazioni tra Curia romana e Chiese particolari, ricordando anche l’antica prassi delle Visite ad limina Apostolorum; o la struttura di alcuni Dicasteri, in particolare quello per le Chiese Orientali e altri per il dialogo ecumenico e per quello interreligioso, in particolare con l’Ebraismo.
Nell’incontro odierno vorrei soffermarmi su alcuni altri Dicasteri partendo dal cuore della riforma, ossia dal primo e più importante compito della Chiesa: l’evangelizzazione. San Paolo VI affermò: «Evangelizzare è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare»[13]. Evangelii nuntiandi, che anche oggi continua ad essere il documento pastorale più importante del dopo Concilio, e attuale. In realtà, l’obiettivo dell’attuale riforma è che «le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato all’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 27). E allora, proprio ispirandosi a questo magistero dei Successori di Pietro dal Concilio Vaticano II fino ad oggi, si è pensato di proporre per l’instruenda nuova Costituzione Apostolica sulla riforma della Curia romana il titolo di Praedicate evangelium. Cioè l’atteggiamento missionario.
Ecco perché il mio pensiero va oggi ad alcuni fra i Dicasteri della Curia romana che con tutto questo hanno un esplicito riferimento già nelle loro denominazioni: la Congregazione per la Dottrina della Fede, la Congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli; ma penso anche al Dicastero della Comunicazione e al Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale.
Quando queste prime due Congregazioni citate furono istituite, si era in un’epoca nella quale era più semplice distinguere tra due versanti abbastanza definiti: un mondo cristiano da una parte e un mondo ancora da evangelizzare dall’altra. Adesso questa situazione non esiste più. Le popolazioni che non hanno ancora ricevuto l’annuncio del Vangelo non vivono affatto soltanto nei Continenti non occidentali, ma dimorano dappertutto, specialmente nelle enormi concentrazioni urbane che richiedono esse stesse una specifica pastorale. Nelle grandi città abbiamo bisogno di altre “mappe”, di altri paradigmi, che ci aiutino a riposizionare i nostri modi di pensare e i nostri atteggiamenti: Fratelli e sorelle, non siamo nella cristianità, non più! Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati[14]. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale, che non vuol dire passare a una pastorale relativistica. Non siamo più in un regime di cristianità perché la fede – specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente – non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata. Ciò fu sottolineato da Benedetto XVI quando, indicendo l’Anno della Fede (2012), scrisse: «Mentre nel passato era possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, largamente accolto nel suo richiamo ai contenuti della fede e ai valori da essa ispirati, oggi non sembra più essere così in grandi settori della società, a motivo di una profonda crisi di fede che ha toccato molte persone»[15]. E per questo fu istituito nel 2010 il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, per «promuovere una rinnovata evangelizzazione nei Paesi dove è già risuonato il primo annuncio della fede e sono presenti Chiese di antica fondazione, ma che stanno vivendo una progressiva secolarizzazione della società e una sorta di “eclissi del senso di Dio”, che costituiscono una sfida a trovare mezzi adeguati per riproporre la perenne verità del Vangelo di Cristo»[16]. A volte ne ho parlato con alcuni di voi… Penso a cinque Paesi che hanno riempito il mondo di missionari – vi ho detto quali sono – e oggi non hanno risorse vocazionali per andare avanti. E questo è il mondo attuale.
La percezione che il cambiamento di epoca ponga seri interrogativi riguardo all’identità della nostra fede non è giunta, a dire il vero, all’improvviso[17]. In tale quadro s’inserirà pure l’espressione “nuova evangelizzazione” adottata da San Giovanni Paolo II, il quale nell’Enciclica Redemptoris missio scrisse: «Oggi la Chiesa deve affrontare altre sfide, proiettandosi verso nuove frontiere sia nella prima missione ad gentes sia nella nuova evangelizzazione di popoli che hanno già ricevuto l’annuncio di Cristo» (n. 30). C’è bisogno di una nuova evangelizzazione, o rievangelizzazione (cfr n. 33).
Tutto questo comporta necessariamente dei cambiamenti e delle mutate attenzioni anche nei suindicati Dicasteri, come pure nell’intera Curia[18].
Alcune considerazioni vorrei riservarle pure al Dicastero per la Comunicazione, di recente istituzione. Siamo nella prospettiva del cambiamento di epoca, in quanto «larghe fasce dell’umanità vi sono immerse in maniera ordinaria e continua. Non si tratta più soltanto di “usare” strumenti di comunicazione, ma di vivere in una cultura ampiamente digitalizzata che ha impatti profondissimi sulla nozione di tempo e di spazio, sulla percezione di sé, degli altri e del mondo, sul modo di comunicare, di apprendere, di informarsi, di entrare in relazione con gli altri. Un approccio alla realtà che tende a privilegiare l’immagine rispetto all’ascolto e alla lettura influenza il modo di imparare e lo sviluppo del senso critico» (Esort. ap postsin. Christus vivit, 86).
Al Dicastero per la Comunicazione è stato dunque affidato il compito di accorpare in una nuova istituzione i nove enti che, precedentemente, si occupavano, in varie modalità e con diversi compiti, di comunicazione: il Pontificio Consiglio per le Comunicazioni Sociali, la Sala Stampa della Santa Sede, la Tipografia Vaticana, la Libreria Editrice Vaticana, l’Osservatore Romano, la Radio Vaticana, il Centro Televisivo Vaticano, il Servizio Internet Vaticano, il Servizio Fotografico. Questo accorpamento, tuttavia, in linea con quanto detto, non si proponeva un semplice raggruppamento “coordinativo”, ma di armonizzare le diverse componenti in ordine a produrre una migliore offerta di servizi e anche a tenere una linea editoriale coerente.
La nuova cultura, marcata da fattori di convergenza e multimedialità, ha bisogno di una risposta adeguata da parte della Sede Apostolica nell’ambito della comunicazione. Oggi, rispetto ai servizi diversificati, prevale la forma multimediale, e questo segna anche il modo di concepirli, di pensarli e di attuarli. Tutto ciò implica, insieme al cambiamento culturale, una conversione istituzionale e personale per passare da un lavoro a compartimenti stagni – che nei casi migliori aveva qualche coordinamento – a un lavoro intrinsecamente connesso, in sinergia.
Cari fratelli e sorelle,
molte delle cose sin qui dette, valgono anche, in linea di principio, per il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale. Anch’esso è stato istituito recentemente al fine di rispondere ai cambiamenti intervenuti a livello globale, attuando la confluenza di quattro precedenti Pontifici Consigli: Giustizia e Pace, Cor Unum, Pastorale dei Migranti e Operatori Sanitari. La coerenza dei compiti affidati a questo Dicastero è sinteticamente richiamata dall’esordio del Motu Proprio Humanam progressionem che lo ha istituito: «In tutto il suo essere e il suo agire, la Chiesa è chiamata a promuovere lo sviluppo integrale dell’uomo alla luce del Vangelo. Tale sviluppo si attua mediante la cura per i beni incommensurabili della giustizia, della pace e della salvaguardia del creato». Si attua nel servire i più deboli ed emarginati, in particolare i migranti forzati, che rappresentano in questo momento un grido nel deserto della nostra umanità. La Chiesa è dunque chiamata a ricordare a tutti che non si tratta solo di questioni sociali o migratorie ma di persone umane, di fratelli e sorelle che oggi sono il simbolo di tutti gli scartati della società globalizzata. È chiamata a testimoniare che per Dio nessuno è “straniero” o “escluso”. È chiamata a svegliare le coscienze assopite nell’indifferenza dinanzi alla realtà del Mar Mediterraneo divenuto per molti, troppi, un cimitero.
Vorrei richiamare l’importanza del carattere di integralità dello sviluppo. San Paolo VI affermò che «lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo» (Enc. Populorum progressio, 14). In altre parole, radicata nella sua tradizione di fede e richiamandosi, negli ultimi decenni, al magistero del Concilio Vaticano II, la Chiesa ha sempre affermato la grandezza della vocazione di tutti gli esseri umani, che Dio ha creato a sua immagine e somiglianza perché formassero una sola famiglia; e al tempo stesso ha cercato di abbracciare l’umano in tutte le sue dimensioni.
È proprio questa esigenza di integralità a riproporre oggi a noi l’umanità che ci accomuna in quanto figli di un unico Padre. «In tutto il suo essere e il suo agire, la Chiesa è chiamata a promuovere lo sviluppo integrale dell’uomo alla luce del Vangelo» (M.P. Humanam progressionem). Il Vangelo riporta sempre la Chiesa alla logica dell’incarnazione, a Cristo che ha assunto la nostra storia, la storia di ognuno di noi. Questo ci ricorda il Natale. L’umanità, allora, è la cifra distintiva con cui leggere la riforma. L’umanità chiama, interpella e provoca, cioè chiama a uscire fuori e a non temere il cambiamento.
Non dimentichiamo che il Bambino adagiato nel presepe ha il volto dei nostri fratelli e sorelle più bisognosi, dei poveri che «sono i privilegiati di questo mistero e, spesso, coloro che maggiormente riescono a riconoscere la presenza di Dio in mezzo a noi» (Lett. ap. Admirabile signum, 1 dicembre 2019, 6).
Cari fratelli e sorelle,
si tratta dunque di grandi sfide e di necessari equilibri, molte volte non facili da realizzare, per il semplice fatto che, nella tensione tra un passato glorioso e un futuro creativo e in movimento, si trova il presente in cui ci sono persone che necessariamente hanno bisogno di tempo per maturare; ci sono circostanze storiche da gestire nella quotidianità, perché durante la riforma il mondo e gli eventi non si fermano; ci sono questioni giuridiche e istituzionali che vanno risolte gradualmente, senza formule magiche o scorciatoie.
C’è, infine, la dimensione del tempo e c’è l’errore umano, coi quali non è possibile né giusto non fare i conti perché fanno parte della storia di ciascuno. Non tenerne conto significa fare le cose astraendo dalla storia degli uomini. Legata a questo difficile processo storico, c’è sempre la tentazione di ripiegarsi sul passato (anche usando formulazioni nuove), perché più rassicurante, conosciuto e, sicuramente, meno conflittuale. Anche questo, però, fa parte del processo e del rischio di avviare cambiamenti significativi[19].
Qui occorre mettere in guardia dalla tentazione di assumere l’atteggiamento della rigidità. La rigidità che nasce dalla paura del cambiamento e finisce per disseminare di paletti e di ostacoli il terreno del bene comune, facendolo diventare un campo minato di incomunicabilità e di odio. Ricordiamo sempre che dietro ogni rigidità giace qualche squilibrio. La rigidità e lo squilibro si alimentano a vicenda in un circolo vizioso. E oggi questa tentazione della rigidità è diventata tanto attuale.
Cari fratelli e sorelle,
la Curia romana non è un corpo staccato dalla realtà – anche se il rischio è sempre presente –, ma va concepita e vissuta nell’oggi del cammino percorso dagli uomini e dalle donne, nella logica del cambiamento d’epoca. La Curia romana non è un palazzo o un armadio pieno di vestiti da indossare per giustificare un cambiamento. La Curia romana è un corpo vivo, e lo è tanto più quanto più vive l’integralità del Vangelo.
Il Cardinale Martini, nell’ultima intervista a pochi giorni della sua morte, disse parole che devono farci interrogare: «La Chiesa è rimasta indietro di duecento anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio. […] Solo l’amore vince la stanchezza»[20].
Il Natale è la festa dell’amore di Dio per noi. L’amore divino che ispira, dirige e corregge il cambiamento e sconfigge la paura umana di lasciare il “sicuro” per rilanciarci nel “mistero”.
Buon Natale a tutti!
Nella preparazione al Natale, abbiamo ascoltato le prediche sulla Santa Madre di Dio. Rivolgiamoci a lei prima della benedizione.
[Ave Maria e benedizione]
Adesso vorrei darvi un ricordo, un pensiero: due libri. Il primo è il “documento”, diciamolo così, che ho voluto fare per il mese missionario straordinario [ottobre 2019], e l’ho fatto in forma di intervista, Senza di Lui non possiamo far nulla. Mi ha ispirato una frase, non so di chi, che diceva che quando il missionario arriva in un posto già c’è lo Spirito Santo lì che lo aspetta. Questa è l’ispirazione di questo documento. E il secondo è un ritiro dato ai sacerdoti poco tempo fa da Don Luigi Maria Epicoco, un ritiro ai sacerdoti, Qualcuno a cui guardare. Li do di cuore perché servano a tutta la comunità. Grazie!
[1] Matta El Meskin, L’umanità di Dio, Qiqajon-Bose, Magnano 2015, 170-171.
[2] Quis dives salvetur 37, 1-6.
[3] Sermone “L’incarnazione, Mistero di grazia”: Parochial and Plain SermonsV, 7.
[4] Ibid. V, 97-98.
[5] Meditazioni e preghiere, a cura di G. Velocci, Milano 2002, 75.
[6] In una sua preghiera Newman affermava: «Non c’è nulla di stabile, al di fuori di te, o mio Dio. Tu sei il centro e la vita di tutti quelli che cambiano, che confidano in te come loro Padre, che guardano a te e che sono contenti di mettersi nelle tue mani. Io so, mio Dio, che devo cambiare se voglio vedere il tuo volto» (ibid., 112).
[7] Newman così lo descrive: «Al momento della conversione non ebbi coscienza d’un qualsiasi cambiamento, intellettuale o morale, che avvenisse nel mio spirito… mi sembrava di ritornare in porto dopo una navigazione tempestosa; ed a questo riguardo la mia felicità è continuata ininterrottamente fino ad oggi» (Apologia pro vita sua, a cura di A. Bosi, Torino 1988, 360; cfr J. Honoré, Gli aforismi di Newman, LEV, Città del Vaticano 2010, 167).
[8] Cfr J. M. Bergoglio, Messaggio quaresimale ai sacerdoti e consacrati, 21 febbraio 2007, in Nei tuoi occhi è la mia parola, Milano, 2016, 501.
[9] Cfr Cost. ap. Veritatis gaudium (27 dicembre 2017), 3: «Si tratta, in definitiva, di cambiare il modello di sviluppo globale e di ridefinire il progresso: il problema è che non disponiamo ancora della cultura necessaria per affrontare questa crisi e c’è bisogno di costruire leadership che indichino strade».
[10] Intervista rilasciata a P. Antonio Spadaro: La Civiltà Cattolica,19 settembre 2013, 468.
[11] Lettera al popolo di Dio che è in cammino in Germania, 29 giugno 2019.
[12] Cfr Discorso alla Curia, 22 dicembre 2016.
[13] Esort. ap. Evangelii nuntiandi (8 dicembre 1975), 14. San Giovanni Paolo II scrisse che l’evangelizzazione missionaria «costituisce il primo servizio che la chiesa può rendere a ciascun uomo e all’intera umanità nel mondo odierno, il quale conosce stupende conquiste, ma sembra avere smarrito il senso delle realtà ultime e della stessa esistenza» (Enc. Redemptoris missio, 7 dicembre 1990, 2).
[14] Cfr Discorso ai partecipanti al Congresso Internazionale della Pastorale delle Grandi Città, 27 novembre 2014.
[15] Lett. ap. M.P. Porta fidei, 2.
[16] Benedetto XVI, Omelia, 28 giugno 2010; cfr Lett. ap. M.P. Ubicumque et semper, 17 ottobre 2010.
[17] Il cambiamento di epoca fu pure avvertito in Francia dal Card. Suhard (si pensi alla sua lettera pastorale Essor ou déclin de l’Église, 1947) e pure dall’allora Arcivescovo di Milano G.B. Montini. Anch’egli si chiedeva se l’Italia fosse ancora un Paese cattolico (cfr Prolusione alla VIII Settimana nazionale di aggiornamento pastorale, 22 settembre 1958, in Discorsi e Scritti milanesi 1954-1963, vol. II, Brescia-Roma 1997, 2328).
[18] San Paolo VI, circa cinquant’anni fa, presentando ai fedeli il nuovo Messale Romano, richiamò l’equazione fra la legge della preghiera (lex orandi) e la legge della fede (lex credendi) e descrisse il Messale come “dimostrazione di fedeltà e vitalità”. Concludendo la sua riflessione affermò: «Non diciamo dunque “nuova Messa”, ma piuttosto “nuova epoca” della vita della Chiesa» (Udienza generale del 19 novembre 1969). È quanto, analogamente, si potrebbe dire anche nel nostro caso: non una nuova Curia romana, ma piuttosto una nuova epoca.
[19] Evangelii gaudium enuncia la regola di «privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci» (n. 223).
[20] Intervista a Georg Sporschill, S.J. e Federica Radice Fossati Confalonieri: “Corriere della Sera”, 1 settembre 2012.
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