Basta ruffiani, ora serve coraggio
intervista a Alessandro Plotti a cura di Federica Tourn
in “Jesus” del febbraio 2014
A monsignor Plotti che, finito il suo incarico di amministratore straordinario a Trapani, e dopo una
lunga esperienza nella Cei, è in pensione a Roma, abbiamo chiesto una valutazione del suo lavoro e
un giudizio sui cambiamenti in corso nella Chiesa.
Come ha lasciato la comunità trapanese?
«Direi rasserenata. Con l’insediamento del nuovo vescovo, monsignor Pietro Maria Fragnelli, lo
scorso novembre si è concluso il percorso di ricostituzione di una comunità molto provata dalla
gestione precedente. Personalmente sono stato accolto con grande simpatia e stima: ho ricevuto più
affetto in diciotto mesi a Trapani che in ventidue anni a Pisa; la Messa di addio è stata commovente.
Le chiese sono sempre piene e resiste una fede tradizionale, molto devozionale, dove per esempio la
famiglia tiene più che al Nord. I valori sono forti: da un lato c’è una cultura cristiana profondamente
radicata e dall’altro c’è una sorta di omertà, un immobilismo diffuso, un’attitudine radicata a far finta
di niente di fronte ai problemi».
Che impressione ha avuto di Trapani?
«Una città bellissima che non trova il suo futuro, con una grande vocazione turistica inespressa.
Non c’è lavoro, i giovani se ne vanno; non si muove nulla perché c’è qualcuno che è determinato a
mantenere tutto fermo».
Qualcuno che lavora nell’ombra?
«Sicuramente. A Trapani non si vede mai niente con chiarezza».
Allargando lo sguardo ecclesiale, dall’istituzione del Consiglio degli otto cardinali alla riforma
della segreteria del Sinodo dei vescovi, sono in corso importanti cambiamenti nella struttura
stessa della Chiesa.
«Papa Francesco ha detto che ci sono troppe diocesi, che bisogna dare più potere alle Conferenze
episcopali regionali e ha ribadito che la centralizzazione della Curia va smontata perché la Curia è
al servizio dei vescovi e non il contrario. Anche l’interpretazione dell’esercizio del papato e del
governo della Chiesa vanno rivisti; non a caso sin dall’inizio si è presentato come vescovo di Roma
e non come Pontefice. Bisogna vedere adesso cosa farà questo gruppo degli otto cardinali…».
Lei che cosa auspica?
«Intanto bisogna semplificare gli organismi e ridurre la struttura perché adesso è diventata davvero
pletorica: se si guardano gli annuari pontifici degli anni ’80, si nota che le Congregazioni romane
avevano un terzo del personale che c’è adesso. Va anche ridimensionato il potere della Segreteria di
Stato, che oggi ha un ruolo sproporzionato: non è ammissibile che il segretario parli sempre a nome
del Papa spacciandosi per un’eco dell’infallibilità papale».
A febbraio si celebrano i 40 anni dal grande convegno sulle Responsabilità dei cristiani di
fronte alle attese di giustizia e di carità nella diocesi di Roma, noto più comunemente come il
Convegno “Sui Mali di Roma”, un momento storico di apertura ecclesiale, che partiva
dall’analisi della realtà per andare verso gli ultimi. Lei aveva partecipato a quel convegno? E
che cosa rimane oggi di quell’approccio ecclesiale?
«Certo che ho preso parte a quel convegno. All’epoca ero parroco di una chiesa di Roma. È stata
una svolta storica, ideata dal cardinale Ugo Poletti e da monsignor Clemente Riva, purtroppo
messa poi a tacere negli anni successivi. Si era manifestato il bisogno di dare respiro diocesano a
questa Chiesa che di fatto non ha un vescovo, perché il Papa è sì vescovo di Roma ma non può
esercitare in modo permanente il suo compito, dato che ha tutta la Chiesa da reggere e il vicario non
basta, anche se ci sono stati dei tentativi. In questo senso, Poletti è stato il cardinale vicario che più
ha tentato di dare consistenza alla diocesi. In ogni caso il respiro di carità che questo convegno, e il
successivo nazionale su Evangelizzazione e promozione umana del ’76, unito alla grande
discussione e alla grande apertura del tempo, non si sono più visti in seguito. Mi auguro davvero
che il Papa voglia ridare alle Conferenze episcopali quella autorevolezza, perché le scelte pastorali
diventino veramente prioritarie: oggi non c’è un grande spazio in cui discuterle davvero, altrimenti
non si capisce cosa significa fare evangelizzazione. Lo dice bene papa Francesco nella Evangelii
gaudium: abbiamo tentato di ingabbiare Gesù Cristo dentro degli schemi ed è ora che ce ne
liberiamo».
Sembra che si preparino importanti novità anche all’interno della Cei: il Papa vuole rendere
eleggibili le massime cariche. Quali sono le modifiche più urgenti da affrontare, secondo lei?
«Bisognerebbe innanzitutto trovare un modo diverso di lavorare. A partire dal 1981, personalmente
ho partecipato a 52 assemblee e ho visto quattro presidenti; sono stato vicepresidente per cinque
anni e ho tentato di dire che la Cei stava assumendo una connotazione di controllo dei vescovi che
non le compete. Deve certamente favorire la collegialità ma non controllare i vescovi, che hanno
come unico punto di riferimento il Papa. Un esempio: all’apertura dei lavori dell’assemblea il
cardinale presidente tiene una prolusione che ha scritto e pensato solo lui, senza alcuna possibilità di
arrivare a un documento condiviso. Quando c’era Ruini, neanche chi era in presidenza aveva
accesso al contenuto della sua prolusione, che poi però veniva accolta come la parola di tutti i
vescovi italiani. Il presidente della Conferenza episcopale dovrebbe avere, invece, soltanto un
compito di servizio e di coordinamento».
In che direzione si deve andare?
«Se non si accolgono anche le opinioni diverse, e magari pure le parole di dissenso, non si potrà
avere un vero cambiamento. Oggi l’assemblea della Cei è un mortorio perché non ci sono più
personaggi significativi; si potevano condividere o meno le posizioni di Siri o di Martini, ma i loro
interventi erano importanti punti di riferimento. Oggi parlano solo i ruffiani, quelli che vogliono
farsi vedere; il tema pastorale viene buttato via con i gruppi di studio, che durano di fatto mezz’ora,
e poi si parla soltanto di otto per mille e di soldi, cosa che si potrebbe fare benissimo per
corrispondenza. E dire che, ad esempio, sulla famiglia ci sono problemi davvero grossi da affrontare
e tutti cercano di capire quale orientamento prenderà la Chiesa».
Proprio su questo tema, papa Francesco ha convocato un Sinodo. Lei che orientamento
vorrebbe che l’assemblea sinodale prendesse?
«lo penso che alcuni nodi difficili e complicati bisogna perlomeno discuterli: la comunione ai
divorziati o gli strumenti di regolazione delle nascite — per fare due esempi — sono questioni che
toccano tutti, la maggior parte della gente si allontana dalla Chiesa per questi problemi e non per
questioni di fede. L’Anno della fede è stato un flop totale perché, a mio giudizio, non si è affrontato
davvero qual è oggi il nodo del credere, il rapporto tra fede e cultura o tra fede e ragione. Se non si
raccolgono anche le indicazioni delle Chiese più giovani e dei vescovi più profetici, se non si
trovano gli strumenti per accogliere le istanze di questa società, è chiaro che a un certo punto tutto
stagna».
Secondo lei, perché non si riesce? Non si vogliono trovare oppure non si sa come farlo?
«C’è un’autoreferenzialità che non capisco. È questione di mentalità: bisogna smontare questa idea
che la Chiesa ha sempre una parola azzeccata per tutto e per tutti. Questa idolatria della verità va
decostruita. Il Papa ha quasi fatto scandalo quando ha detto che non poteva giudicare un
omosessuale: questo è l’atteggiamento giusto, perché a condannare siamo capaci tutti, ma è
comprendere che è difficile. Senza contare che i più rigidi sono magari proprio quelli che
nascondono situazioni non del tutto chiare: è sempre meglio guardarsi dalle persone che sono pronte
a scagliare la prima pietra».
E questa non è stata l’unica parola di apertura di papa Francesco. In sintesi, lei che cosa
pensa dell’azione riformatrice del nuovo Pontefice?
«lo sicuramente sono molto favorevole ma sono in molti a denigrare il suo operato».
Fuori o dentro la Chiesa?
«All’esterno ma anche all’interno. C’è un rigurgito di conservatorismo che si va consolidando in un
certo mondo cattolico: si ritiene che Francesco sia un Papa pericoloso, lo si giudica troppo dimesso
perché parla in modo semplice e non tocca mai i grandi temi etici».
Papa Francesco ha avuto un atteggiamento molto deciso anche nei con fronti dello lor, con
l’istituzione di una commissione pontificia d’indagine che riferisca direttamente a lui.
«È chiaro che non si poteva andare avanti così. All’inizio la banca vaticana era nata per aiutare le
congregazioni e gli istituti religiosi, raccoglieva i risparmi delle diocesi e li metteva a frutto
onestamente, per poi dare contributi a tassi bassi a chi doveva fare investimenti nuovi, quindi
l’aspetto pastorale era preminente. Ma sotto Marcinkus, fra Calvi e Sindona, è stato portato a
investimenti a dir poco discutibili, con utili straordinari e conti di cui non si sa nulla. Ora si è
finalmente cominciato a eliminare chi aveva abusivamente un conto allo lor e si è accettato di
sottostare alle norme internazionali sulle banche. Sono convinto che questo problema si risolverà».
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