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Noi Siamo Chiesa

Sezione italiana del movimento internazionale “We Are Church” per la riforma della Chiesa cattolica

La Rete della pace ha scritto due giorni prima della marcia Perugia-Assisi un lunghissimo documento-piattaforma

Le ragioni e le proposte per costruire le alternative alle guerre, ai muri ed alla violenza
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Piattaforma Ottobre 2016
Presentazione
1. Siria: fermare i bombardamenti su Aleppo e garantire i corridoi umanitari !!!!
2. Campagna per la difesa civile non armata e nonviolenta
3. Difendere i difensori dei diritti umani in ogni parte del mondo
4. Disarmo e controllo di armamenti e spese militari
5. Libia
6. Sahara occidentale
7. Palestina: pace, giustizia, libertà, diritti
8. Corpi e interventi civili di pace
9. Le guerre in Africa
10. L’intreccio perverso: petrolio, energia, clima
11. Conflitti e migrazioni: fermare le stragi, garantire il diritto di asilo
12. I movimenti per la pace e l’Europa
13. Iraq: per tredici anni, dall’invasione americana del 2003, la guerra non si è mai fermata
14. Educare alla pace e ai diritti umani – i luoghi della formazione tra pace e nonviolenza
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Le ragioni e le proposte per costruire le alternative alle guerre, ai muri ed alla violenza
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Le ragioni e le proposte per costruire le alternative alle guerre, ai muri ed alla violenza.
La popolazione di Aleppo è l’ultima vittima di una guerra globale che si materializza localmente, in
Siria, dove non vi è potenza che non vi sia coinvolta. Ogni giorno dal deserto africano e dalle coste
del Mediterraneo migliaia di uomini, donne, bambini si muovono come animali braccati alla ricerca
di un rifugio e di una speranza di nuova vita. In Italia, in Europa, negli Stati Uniti, in Russia e in
Cina, si continua a produrre armamenti ed il mercato delle armi è il più redditizio di ogni altra
merce prodotta. Le economie industriali continuano a scambiare energie non rinnovabili con armi,
rifiuti tossici con crediti ed investimenti. La democrazia ed i diritti umani, come i diritti del lavoro,
la salute e l’educazione, vengono dopo gli affari ed il commercio. Dentro questo sistema parlare di
pace, di disarmo, di nonviolenza, di solidarietà, di accoglienza, di cooperazione e di giustizia
sociale appare essere diventato, più che una utopia, un grido di disperazione o l’eco di un progetto
che fu.
Il dramma di Aleppo è anche la constatazione che ancora oggi l’opinione pubblica internazionale è
in grado di tollerare massacri e bombardamenti di massa in alcuni luoghi e non in altri. In Africa e
nel Medio Oriente sì, ma in Nord America ed in Europa no. Palestina, Sahara Occidentale, Irak,
Afghanistan, Siria, Sudan, Libia, Yemen, la questione Curda e quella Armena, rappresentano i
principali casi di conflitti non risolti o di processi di destabilizzazione che confermano l’incapacità,
la complicità e la responsabilità della comunità internazionale, intesa questa come stati membri
delle Nazioni Unite, disattendendo e violando il diritto internazionale che, insieme alla diplomazia,
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Le ragioni e le proposte per costruire le alternative alle guerre, ai muri ed alla violenza
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alla politica ed all’azione nonviolenta ed alla cooperazione tra comunità, costituiscono l’unico
strumento alternativo alla violenza ed all’uso delle armi.
Ma perché siamo arrivati a questo stato di assuefazione, di tolleranza e di indifferenza alle
ingiustizie, alla violenza ed alle guerre, e, come reazione, assistiamo al crescere delle chiusure, del
terrorismo, della paura dell’altro ? Perché l’ideale di pace è in crisi e, da alcuni settori d’opinione,
considerato parte dello strumentario ideologico del passato?
La questione è complessa e ci interroga quotidianamente. Sicuramente le nostre società hanno
vissuto un cambiamento culturale profondo, dove, purtroppo, hanno prevalso, sino ad ora, aspetti
contraddittori con il processo di universalità dei diritti individuali e collettivi costruiti dalla fine
della seconda guerra mondiale ad oggi. Di certo la pace non è un ideale a sé stante, un qualcosa o
una condizione estranea o scollegata da un determinato contesto politico, economico, sociale,
culturale. Si sta in pace, si vive in pace se dentro di sé e nel rapporto con gli altri, si è riusciti a
creare uno stato di tranquillità, di equilibrio, di rispetto, di fiducia, di giustizia, di libertà, di
consapevolezza e di responsabilità reciproca, dall’ambito ristretto, familiare, a quello allargato,
delle relazioni tra amici, nella scuola, nel lavoro, nella comunità. Ed è chiaro che tutto ciò è
condizionato dalla politica, dal funzionamento e dalla capacità delle istituzioni di far sì che le regole
siano rispettate, dall’attuare quei meccanismi e strumenti di solidarietà che impediscano di lasciare
indietro o emarginare chi è in difficoltà, di premiare il merito e di riconoscere la libertà e l’iniziativa
della singola persona senza però rompere il legame e la logica solidale che deve rimanere un punto
fermo del sistema. Questo stato di cose, questi principi e questi valori, questi eccanismi sono validi
nel privato come nel pubblico, nel locale come nel globale, nella gestione di una istituzione locale
come nelle relazioni tra stati, nel sistema economico come nel sistema finanziario e nel commercio.
Costruire questo impianto di coerenze nell’universo mondo è senza alcun ombra di dubbio un
esercizio sovra-umano ma è la nostra sfida. La tecnologia ed i mercati hanno già raggiunto il livello
di globalizzazione delle proprie azioni, mentre la politica che ne dovrebbe avere il primato, non è
ancora in grado di farlo, bloccata dalle barriere e dai limiti imposti dal sistema e dagli interessi
strategici degli stati-nazione. Siamo riusciti a far viaggiare le merci rompendo ogni sorta di barriera
doganale, ma non siamo ancora riusciti a far viaggiare liberamente le persone, le libertà ed i diritti
fondamentali, per ogni uomo e per ogni donna del pianeta.
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Le ragioni e le proposte per costruire le alternative alle guerre, ai muri ed alla violenza
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Cos’è che non va ? Quali sono i mali della nostra società ? Proviamo a metterli in fila, cercando di
cogliere le connessioni e l’interdipendenza che legano ambiti e sistemi alle responsabilità della
politica, alle istituzioni a cui abbiamo affidato il governo ed il futuro del mondo, dovendone
rispondere a noi cittadini e cittadine del mondo.
Il mancato passaggio, graduale ma progressivo, di sovranità dal sistema degli stati-nazione, al
sistema sovra e multinazionale delle aggregazioni regionali (vedi Unione Europea) ed
internazionale, come avrebbe dovuto essere con la costituzione del sistema delle Nazioni Unite.
La crescita del potere delle imprese multinazionali oggi in grado di spostare merci da un luogo
all’altro del pianeta, producendo senza rispettare i diritti fondamentali del lavoro, sfruttando la
mano d’opera mettendo a rischio la salute e la vita di lavoratrici e lavoratori, saccheggiando le
risorse naturali ed inquinando l’eco-sistema, distruggendo le economie locali, concentrando
ricchezze e nuovi monopoli, dall’acqua, alle sementi, dall’informazione alle nuove tecnologie.
Il sistema finanziario speculativo, oramai in grado di condizionare le politiche e la stessa sovranità
degli stati-nazione. Un potere fuori controllo da ogni tipo di sistema democratico ed in grado di
destabilizzare governi democraticamente eletti. Alimentato e prosperato grazie all’invenzione dei
paradisi fiscali e dai prodotti finanziari speculativi, principali cause della crisi economica mondiale
di questa fase storica.
La proliferazione della produzione e del mercato delle armi che si sperava si riducessero con la fine
della “guerra fredda” ma che invece sono ripresi con una vera e propria corsa a conquistare nuove
fette di mercato ed a produrre sistemi sempre più sofisticati, dalle bombe intelligenti ai droni.
L’intreccio tra produzione di armi e alleanze, strategie geo-politiche, investimenti, controllo delle
risorse energetiche, è forse una delle trappole letali da cui, gli stati, non riescono a svincolarsi,
producendo errori su errori, sostenendo e scaricando regimi e gruppi sovversivi, a seconda degli
interessi del momento.
Gli accordi commerciali e sui servizi impostati secondo il credo della teoria neo-liberale centrata sul
libero mercato come elemento regolatore e sulle privatizzazioni dei beni comuni che sta
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Le ragioni e le proposte per costruire le alternative alle guerre, ai muri ed alla violenza
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distruggendo le economie locali, minaccia la sicurezza alimentare di intere comunità, riduce
l’accesso universale a servizi come l’acqua, l’istruzione, la salute.
Il sostegno politico ed economico a quei regimi dittatoriali che garantiscono forniture di materie
prime e investimenti, fondamentali per l’industria e per il fabbisogno energetico dei paesi
occidentali, soprassedendo e tollerando le politiche repressive, le torture, le violazioni sistematiche
delle libertà e dei diritti umani.
Questo modo di procedere, questa politica di difesa dei propri interessi determina risultati
apparentemente rassicuranti e favorevoli per chi la promuove, sul breve periodo, protegge la propria
economia, permette l’espansione di mercati ed assicura investimenti, ma produce effetti collaterali
che si tendono a nascondere o a rinviare ad altri momenti, o ad addebitare ad altre cause e e ad altre
responsabilità o, come ci dimostrano le storie di Al Queda e dell’Isis, si generano mostri e
dinamiche non più controllabili, fuori controllo.
Le guerre diventano così “guerre di religione”, le fughe di milioni di persone da guerre, dalla
repressione, dalla povertà sono da fermare fuori dai propri confini. La democrazia deve essere
esportata ed imposta con le armi. Le rivoluzioni arabe nel nome di “pane, lavoro, dignità” e di
sistemi democratici delle popolazioni oppresse, diventano un pericolo che mette a rischio interessi,
investimenti, contratti, ed equilibri geo-politici consolidati. I diritti conquistati diventano privilegi
non più sostenibili per le esigenze del mercato globale, debbono quindi essere tagliati e non più
esigibili per le nuove generazioni. E gli esempi possono continuare all’infinito, in quella che è
diventata una vera e propria spirale sistemica distruttiva.
Oggi è Aleppo, ieri è stata l’immagine del corpo senza vita del piccolo Aylan sulla costa turca, o
l’orrore per le studentesse nigeriane rapite da Boko Haram, o le immagini del Bataklan, o
l’ennesimo attentato a Kabul o a Baghdad, o l’assedio di Gaza. Un mondo che non trova pace.
Il nostro impegno e la nostra responsabilità sono quelli di invertire questa direzione di marcia,
costruendo alternative, favorendo alleanze, unendo esperienze e risorse nel lavoro quotidiano, con
pazienza e con determinazione. Il sindacato nei luoghi di lavoro e tra i pensionati, le associazioni
nei circoli e nella pratica della solidarietà, dell’assistenza e dell’accoglienza, gli studenti e gli
insegnanti nelle scuole, insieme ad altre reti sostenendo campagne ed iniziative, mobilitandoci per
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Le ragioni e le proposte per costruire le alternative alle guerre, ai muri ed alla violenza
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fermare e per denunciare le politiche di guerra, i muri, le discriminazioni e le violazioni dei diritti
umani.
Questo è il senso e la finalità che ci spingono a riprendere la nostra partecipazione alla Marcia per la
Pace da Perugia ad Assisi. Una spinta già espressa nel documento appello del giugno scorso ma
ancor più esplicito e dettagliato in questo documento e nelle schede che lo compongono,
rappresentando il nostro impegno, le nostre proposte e richieste che ci portiamo dietro, dal lavoro
avviato insieme ad altre reti a Verona, nell’Arena di Pace ed a Firenze nel 2014, e che ora passa
per Perugia e per Assisi, per continuare a costruire i presupposti e le condizioni di giustizia e di
accesso universale alle libertà ed ai diritti fondamentali, per ogni uomo e per ogni donna.
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Le ragioni e le proposte per costruire le alternative alle guerre, ai muri ed alla violenza
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SIRIA: FERMARE I BOMBARDAMENTI SU ALEPPO E GARANTIRE I CORRIDOI
UMANITARI !!!!
Milioni di persone in fuga dalle loro case, oltre 300mila morti dall’inizio della guerra, bambini che
muoiono ogni giorno sotto le bombe, ospedali distrutti, civili assediati senza più cibo ed assistenza.
La Siria è un campo di battaglia dove si scontrano gli interessi delle grandi e delle piccole potenze,
eserciti, bande armate, mercenari tutti pronti a passare da uno schieramento all’altro o a creare nuovi
fronti o nuove sigle, dove nessun accordo e nessuna tregua appaiono possibili. Dove all’impotenza
ed alla frustrazione dei mediatori, Ban Ki Mon, segretario generale delle Nazioni Unite, lancia
l’accusa di crimini di guerra, ma senza la forza di indicarne i nomi, per le evidenti responsabilità di
chi sta nel Consiglio di Sicurezza, con diritto di veto.
Prima Homs, poi la Rojava, ora Aleppo, sono i luoghi simbolo di questa guerra che iniziata dalla
genuina protesta della popolazione siriana contro un regime elitario e repressivo degli Assad, si è
rapidamente trasformata nel conflitto da cui usciranno i nuovi assetti ed i nuovi equilibri geopolitici
regionale e mondiale, sulla pelle dei siriani, al costo della distruzione di un paese, di intere
comunità e precludendo il percorso della convivenza e della democrazia.
Di fronte a questo scenario ed alla conferma della incapacità della comunità internazionale, intesa
come stati nazionali, istituzioni europee ed internazionali, di far prevalere il diritto/dovere
dell’assistenza umanitaria e di imporre il cessate il fuoco, per una concreta azione di negoziato
politico e diplomatico che permetta alla popolazione siriana ed a tutte le sue componenti
comunitarie di riprendere possesso della propria sovranità e del diritto di auto-determinazione,
denunciamo il mancato soccorso alla popolazione assediata e le condizioni discriminatorie e
disumane che debbono subire le persone in cerca di rifugio e di protezione.
Oggi, la protezione umanitaria di chi è in pericolo di vita è la priorità assoluta, da anteporre a
qualsiasi considerazione o riflessione di parte. Questo è quello che debbono garantire le istituzioni
internazionali, senza condizioni e senza deroghe.
Chiediamo alla Unione Europea ed agli stati membri:
– di cessare la vendita di armi a paesi coinvolti direttamente o indirettamente nel conflitto;
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Le ragioni e le proposte per costruire le alternative alle guerre, ai muri ed alla violenza
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– di farsi carico dell’assistenza dei rifugiati assicurando loro condizioni di vita dignitose; un tetto
dove vivere, assistenza sanitaria, continuità scolastica per i minori, il ricongiungimento familiare,
la possibilità di inserimento socio-lavorativo, eliminando le barriere imposte dall’accordo di
Dublino e ristabilendo la ripartizione dei richiedenti asilo tra gli stati membri;
– di fornire assistenza e cooperazione ai paesi di accoglienza dei rifugiati come Libano, Giordania
e Turchia, standards dignitosi e di rispetto dei diritti umani, collaborando con l’Agenzia per i
Rifugiati delle Nazioni Unite e con le ong;
Il nostro impegno è quindi rivolto a favorire il dialogo ed il confronto tra le diverse realtà
associative e le diverse comunità siriane che rimangono il pilastro portante di qualsiasi impianto e
assetto della Siria di domani, quale interlocutore attivo di un processo di pacificazione e
riconciliazione più ampio. Una riconciliazione reale e non fittizia, basata su giustizia, libertà,
rispetto dei diritti umani, quale che sia la forma politica che assumerà la Siria di domani.
Per questo riaffermiamo la necessità di potenziare la partecipazione della società civile ai tavoli
negoziali interni e internazionali, portando alla luce le loro diverse posizioni, le loro diverse voci,
con un approccio per una pacificazione e una riconciliazione dal basso, inclusiva di tutte le
comunità siriane.
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Le ragioni e le proposte per costruire le alternative alle guerre, ai muri ed alla violenza
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CAMPAGNA PER LA DIFESA CIVILE NON ARMATA E NONVIOLENTA
La Campagna per la difesa civile e nonviolenta, ha lanciato la proposta di legge di iniziativa
popolare per l’istituzione e il finanziamento del Dipartimento per la difesa civile, non armata
e nonviolenta.
Un Dipartimento che comprenda i Corpi civili di pace e l’Istituto di ricerche sulla Pace e il Disarmo
e che abbia forme di interazione e collaborazione con il Dipartimento della Protezione civile, il
Dipartimento dei Vigili del Fuoco ed il Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile
Nazionale. Si tratta di dare finalmente concretezza a ciò che prefiguravano i Costituenti con il
ripudio della guerra, e che già oggi è previsto dalla legge e confermato dalla Corte Costituzionale,
cioè la realizzazione di una difesa civile alternativa alla difesa militare, finanziata direttamente dai
cittadini attraverso l’opzione fiscale in sede di dichiarazione dei redditi.
Obiettivo della Campagna è quello di dare uno strumento in mano ai cittadini per far organizzare
dallo Stato la difesa civile, non armata e nonviolenta – ossia la difesa della Costituzione e dei diritti
civili e sociali che in essa sono affermati; la preparazione di mezzi e strumenti non armati di
intervento nelle controversie internazionali; la difesa dell’integrità della vita, dei beni e
dell’ambiente dai danni che derivano dalle calamità naturali, dal consumo di territorio e dalla
cattiva gestione dei beni comuni – anziché finanziare cacciabombardieri, sommergibili, portaerei e
missioni di guerra, che lasciano il Paese indifeso dalle vere minacce che lo colpiscono e lo rendono
invece minaccioso agli occhi del mondo. Lo strumento politico della legge di iniziativa popolare
vuole aprire un confronto pubblico per ridefinire i concetti di difesa, sicurezza, minaccia, dando
centralità alla Costituzione che “ripudia la guerra” (art. 11), afferma la difesa dei diritti di
cittadinanza ed affida ad ogni cittadino il “sacro dovere della difesa della patria” (art. 52).
E’ un principio che non è mai stato attuato davvero, perché per difesa si è sempre e solo intesa
quella armata, affidata ai militari. Dobbiamo riappropriarcene. Le grandi battaglie per il
riconoscimento dell’obiezione di coscienza e del servizio civile iniziate fin dal dopoguerra hanno
portato al riconoscimento nel nostro ordinamento giuridico che la difesa della patria è molto più
articolata ed estesa di quella semplicemente militare. Noi oggi sappiamo che la difesa della patria è
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difesa della vita, dell’ambiente, del territorio, dei diritti, della dignità, della pace, del lavoro. Per
difendere davvero questi beni comuni servono strumenti adeguati, quelli della nonviolenza.
Il finanziamento della nuova difesa civile dovrà avvenire grazie all’introduzione dell’”opzione
fiscale”, cioè la possibilità per i cittadini, in sede di dichiarazione dei redditi, di destinare una quota
pari al sei per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche all’incremento della copertura delle
spese di funzionamento del Dipartimento per la Difesa civile non armata e nonviolenta ed al
finanziamento delle attività dei Corpi Civili di Pace e dell’Istituto di ricerca sulla Pace e il Disarmo
La Campagna (promossa da Conferenza Nazionale Enti di Servizio Civile, Forum Nazionale per il
Servizio Civile, Rete della Pace, Rete Italiana per il Disarmo, Sbilanciamoci !, Tavolo Interventi
Civili di Pace) è stata presentata il 25 aprile 2014 a Verona in Arena di pace e disarmo.
Le 50.000 firme necessarie a presentare la Proposta di Legge di iniziativa popolare sono state
depositate alla Camera il 22 maggio 2015. Successivamente un primo gruppo di Deputati (Giulio
Marcon (Sinistra Italiana), Giorgio Zanin (Partito Democratico), Tatiana Basilio (Movimento 5
Stelle), Mario Sberna (Democrazia Solidale – Centro Democratico), Massimo Artini (Alternativa
Libera), Giuseppe Civati (Possibile) a cui se ne sono aggiunti altri 70, ha sottoscritto la proposta di
Legge che ora è stata assegnata alle Commissioni I e IV della Camera.
La Campagna è così entrata nel vivo della seconda fase: fare pressione sui deputati affinchè si avvi
la discussione e si giunga in tempi rapidi all’approvazione della Legge. Nei giorni 4 e 5 novembre
2016 a Trento si terrà la prima convocazione degli Stati generali della Difesa civile non armata e
nonviolenta, che vedrà creare un confronto tra i diversi ambiti che già ora agiscono nel settore della
difesa civile: le Istituzioni preposte alla Difesa, alla Protezione civile, al Servizio Civile Nazionale,
la ricerca sulla risoluzione nonviolenta dei conflitti, il Terzo Settore e le organizzazioni non
governative che lavorano per la pace e il disarmo.
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LIBIA
La Libia rischia oggi di precipitare in una nuova sanguinosa guerra civile, una volta conseguita sul
campo la sconfitta di DAESH ed in conseguenza di rivalità e conflitti mai sopiti o risolti dalla
comunità internazionale come conseguenza dell’intervento internazionale che nel 2011 portò al
crollo del regime di Muhammar Gheddafi.
Allora come ora l’Italia ha fatto la sua scelta. Allora partecipando alla missione internazionale
Odyssey Dawn con un impiego massiccio della propria forza aerea, in quello che venne definito il
più grande campagna di bombardamenti aerei italiana dalla fine della seconda guerra mondiale.
Ironicamente si celebravano lo stesso anno i cent’anni dal primo bombardamento aereo della storia,
proprio ad opera di un pilota militare italiano, nella guerra italo-turca. Oggi con l’annuncio ufficiale
da parte del governo italiano dell’invio di un contingente armato di paracadutisti a difesa di un
ospedale da campo a Misurata. Città teatro di duri scontri con le milizie di DAESH e nuovo fronte
di conflitto tra le forze governative fedeli al presidente Al Serraj sostenuto dalle Nazioni Unite e
dall’Italia, e quelle del generale Heftar fedele alle autorità di Tobruk e sostenuto da Francia ed
Egitto. Un conflitto che si è improvvisamente riacceso con l’offensiva delle truppe di Heftar che
hanno preso il controllo delle zone petrolifere di Zuwaytina, Ras Lanuf, al Sedra e Brega”
Il tutto celato dietro il velo di un’operazione umanitaria, in un contesto nel quale il nostro paese
aveva già schierato truppe speciali in virtù di una legge approvata dal Parlamento che permette al
Presidente del Consiglio di autorizzare l’invio di forze speciali senza autorizzazione del parlamento,
garantendo loro immunità da ogni possibile crimine commesso nell’esercizio delle loro funzioni.
Un grave vulnus democratico quindi che fa il pari con la scelta di indebolire, attraverso l’invio di
truppe – seppur in numero ridotto, ma certamente di grande importanza simbolica, e non solo – la
possibilità che il nostro paese, anche tenuto conto del proprio passato coloniale e delle ripetute
avventure militari in Libia, potesse scegliere un’opzione di mediazione “super partes” tra le parti in
conflitto.
A ciò va aggiunta la presenza di una flotta di navi militari che fanno capo alla missione Europea
Euronavfor Med, con a capo un ammiraglio italiano, la cui missione è quella di impedire il transito
di imbarcazioni utilizzate da trafficanti di esseri umani , e di reprimerne le attività. Missione che
prevede anche un possibile intervento su terra. In Libia oggi sono presenti decine di migliaia di
migranti o profughi che tentano di raggiungere l’Europa, che vengono sottoposti a vessazioni e
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violazioni dei propri diritti e della propria dignità, torture, condizioni di schiavitù. Molti di loro se
riescono a lasciare il paese trovano poi la morte sul fondo del mare.
Insomma la Libia oggi è un paese frammentato tra due governi quello di Tobruk e quello di Tripoli,
attraversato dalla violenza del DAESH che seppur ancora presente è ormai fortemente indebolito,
da conflittualità intertribali, in aree di grande instabilità come dimostra il recente rapimento di due
tecnici italiani nel Fezzan. Un paese il cui governo presieduto da Al Serraj non gode del necessario
sostegno da parte della popolazione e delle comunità locali per poter agire con legittimità ed
autorevolezza. Un paese che riveste grande importanza strategica e geopolitica per varie potenze o
aspiranti tali. A partire dalla Francia all’Italia interessate in primis alle risorse petrolifere, per
arrivare all’Egitto che soffia sul fuoco della lotta contro DAESH, sostenendo le operazioni del
generale Haftar. E che oggi viene considerato anche partner chiave da parte di Italia ed Unione
Europea anche per la gestione dei flussi migratori.
La crisi libica può infatti essere distinta in tre dinamiche: la prima relativa alla stabilizzazione del
paese, la seconda rispetto al contrasto a Daesh, la terza rispetto alla crisi “migratoria”, che – va
sottolineato – non è una crisi causata dai migranti, ma è la crisi dell’Europa e delle sue politiche, o
forse della sua assenza politica. Ed è proprio attraverso la politica e la diplomazia che le tre
questioni possono e devono essere affrontate e risolte, nel rispetto della legalità internazionale e dei
diritti fondamentali.
In questo quadro va respinto ogni ricorso allo strumento militare per cercare di risolvere una
situazione che è degenerata proprio a seguito di decisioni di intervento armato. Questa escalation
inoltre finirebbe per pregiudicare ogni sforzo di mediazione del conflitto libico da parte del nostro
Paese, al fine di prevenire una nuova guerra civile. Piuttosto che perseguire l’opzione militare, e
schierarsi in sostegno ad una delle parti in conflitto, l’Italia dovrebbe pertanto operare delle scelte
chiare ed inequivocabili di neutralità attiva che prevedono I seguenti passi:
a. al fine di assicurare le condizioni per un ruolo terzo di mediazione dovrà essere abbandonata
ogni opzione militare, mantenenedo invece misure volte a prevenire il flusso di armi, tra cui
l’embargo all’export di armamenti verso la Libia, assieme al sostegno ad attività di peacebuilding,
anche attraverso il coinvolgimento delle strutture dedicate delle Nazioni Unite quali la UN
Peacebuilding Commission.
b. Per quanto riguarda la lotta al terrorismo ed al DAESH sarebbe più logico e opportuno
predisporre un approccio di “polizia” dando seguito ed impegnandosi a sostenere le
raccomandazioni contenute nel rapporto di Ban Ki Mon su Daesh presentato il 29 gennaio scorso.
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Il Segretario Generale elenca una serie di misure da intraprendere sulle quali chiediamo un maggior
impegno da parte del governo italiano tra cui:
1. contrasto al finanziamento del terrorismo attraverso la collaborazione delle forze di polizia e
Interpol,
2. contrasto al reclutamento via internet, prevenzione e interruzione degli spostamenti di
combattenti di Daesh attraverso la collaborazione e lo scambio di dati,
3. prevenzione di attacchi terroristici, attraverso la collaborazione delle forze di polizia ed
investigative,
4. adozione di misure di prevenzione che siano rispettose dei diritti umani, reintegrazione e
riabilitazione dei “foreign fighters” che rientrano in patria.
c. Sarà urgente passare ad un approccio fondato sulla sicurezza umana, che prevede da una parte
misure a garanzia dei diritti umani e dall’altra la protezione delle popolazioni civili, attraverso
strumenti di interposizione ed early warning, che potrebbero essere svolti da contingenti civilimilitari
disarmati, sotto il mandato delle Nazioni Unite o da una missione EUpol di polizia
internazionale.
d. Per quanto riguarda la questione dei migranti e rifugiati la missione Euronavfor Med inviata
dall’Europa con l’obiettivo iniziale di lottare contro i trafficanti di essere umani, dovrà essere
riconfigurata con mandato ONU e trasformata essenzialmente in missione di salvataggio di
supporto a canali umanitari.
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DIFENDERE I DIFENSORI DEI DIRITTI UMANI IN OGNI PARTE DEL MONDO
Non può esserci pace senza giustizia ed il rispetto dei diritti umani fondamentali.
Allo stesso tempo non si potrà costruire un percorso comune di pace se chi lavora per la pace ed i
diritti umani nel proprio paese viene minacciato, ucciso, perseguitato.
L’attacco contro i difensori dei diritti umani, intesi nella loro accezione più ampia (si va dagli
attivisti per i diritti delle donne e GLBQT; a chi lotta per difendere l’ambiente e la terra, chi si attiva
per la tutela dei diritti civili, la libertà di stampa, l’accoglienza, lo stato di diritto) miete infatti
decine e decine di vittime. Un sottotraccia che raramente incide nei rapporti tra governi centrati
sull’interesse nazionale, e la realpolitik, e che mette in discussione anche e soprattutto l’uso retorico
e spesso strumentale dei diritti umani e ci interroga sulla qualità della politica estera del nostro e di
altri paesi.
Questa guerra silenziosa è al centro del lavoro del Relatore Speciale ONU sui difensori dei diritti
umani Michel Frost, che nel suo ultimo rapporto denuncia un aumento allarmante di casi di omicidi,
minacce e persecuzioni per migliaia di attivisti in ogni parte del mondo, una tendenza che è
aggravata dal pretesto della “lotta al terrorismo”. E ciò riguarda non solo paesi già sconvolti dalla
guerra giacché la stretta securitaria rischia di intaccare l’agibilità e la libertà di azione ed iniziativa
degli attivisti e difensori dei diritti umani in ogni parte del mondo. Una situazione già grave quindi
ed ancor più aggravata dalla mancanza di visibilità. dell’impunità dei responsabili delle violazioni,
e dell’insufficiente riconoscimento delle categorie di difensori dei diritti umani. Categorie che
includono giornalisti, avvocati e giuristi, attivisti per l’ambiente e i diritti dei popoli indigeni,
sindacalisti, chi resiste ai crimini ambientali e sociali delle imprese e chi lotta accanto a rifugiati e
migranti.
Lo scorso anno sono stati uccisi difensori dei diritti umani in Brasile, Birmania, Burundi,
Cambogia, Camerun, Repubblica Democratica del Congo, Guatemala, Honduras, Irak, Kenya,
Libia, Pakistan, Sudafrica, Siria, Thailandia e Filippine . In molti paesi le forze di sicurezza e
polizia hanno sottoposto ad arresti arbitrari attivisti cui viene negato il diritto ad un processo equo
in molti altri paesi. Per far fronte a questa strage silenziosa l’Unione Europea ha adottato alcuni
“orientamenti” in materia di difensori dei diritti umani .
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Irlanda, Finlandia, Spagna, ed Olanda e Repubblica Ceca sono stati tra i paesi più attivi nello
sforzo di dare attuazione a queste linee guida poi recepite anche da Francia ed Inghilterra e da
paesi non UE, quali Svizzera e Norvegia. Molti di questi paesi hanno già programmi di
protezione dei difensori dei diritti umani e di “asilo temporaneo” per chi dovesse lasciare il suo
paese per un determinato periodo di tempo. La UE ha a disposizione vari strumenti di pressione
e tutela a favore degli attivisti dalle missioni sul campo, alle attività di monitoraggio dei
processi, ai contatti e dialogo politico con le autorità locali, oltre ad aver predisposto una
Piattaforma di Coordinamento per l’Asilo Temporaneo dei Difensori dei Diritti Umani
(European Union Human Rights Defenders Relocation Platform – EUTRP). L’ONG Olandese
Justice and Peace lavora ad un programma di città rifugio sponsorizzato dal Ministero degli
affari esteri, il quale segue ora una procedura accelerata per la concessione di visti d’urgenza ai
difensori dei diritti umani sotto minaccia. In Irlanda il Ministero degli Esteri ha predisposto un
servizio di assistenza e coordinamento delle attività di supporto e di concessione di visti
umanitari. Anche la Spagna si è dotata di buone pratiche allo stesso scopo mentre il Ministero
degli Esteri finlandese ha proprie linee guida per l’applicazione degli Orientamenti UE. Non
risulta che il governo italiano si sia mai attivato a tal riguardo.
Su proposta di Un Ponte Per… si sta pertanto costituendo in Italia un’ampio schieramento di
organizzazioni ed associazioni della società civile italiana, associazioni ambientaliste, per i
diritti umani, per la libertà di stampa e la tutela dei avvocati e giuristi, sindacati, ONG di
cooperazione e solidarietà internazionale. Obiettivo di tale iniziativa è far sì che il nostro paese,
sulla stregua di quanto già fatto da altri paesi membri dell’Unione Europea, si doti delle capacità
e strumenti necessari per contribuire alla protezione degli attivisti per i diritti umani in ogni
parte del mondo attraverso le seguenti misure:
a. istituzione presso il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale
(MAECI) di un ufficio dedicato alla protezione degli attivisti per i diritti umani ed il
rilascio dei visti per l’asilo temporaneo, aderendo alla Piattaforma Europea per
l’accoglienza temporanea dei difensori dei diritti umani;
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Le ragioni e le proposte per costruire le alternative alle guerre, ai muri ed alla violenza
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b. adozione di linee guida sulla protezione dei difensori dei diritti umani per le ambasciate
ed il corpo diplomatico;
c. adozione di strategie di intervento da parte dell’Agenzia per la Cooperazione e dagli
Enti Locali per creare canali di finanziamento e sostegno a attività di protezione dei
difensori dei diritti umani, ad esempio attraverso i corpi civili di pace, e di accoglienza
diffusa;
d. Predisposizione di un gruppo tecnico presso l’Agenzia per la Cooperazione con il
compito di lavorare ad una strategia di intervento dedicata alla protezione di Difensori
dei Diritti Umani;
e. Coordinamento tra Enti Locali, ONG ed Enti religiosi disposti a creare una rete di
protezione sia nei paesi di provenienza degli attivisti, che includa attività di
accompagnamento disarmato da parte di corpi civili di pace, sia una casa di fuga per
programmi di re-location temporanea di attivisti in Italia.
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Le ragioni e le proposte per costruire le alternative alle guerre, ai muri ed alla violenza
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DISARMO E CONTROLLO DI ARMAMENTI E SPESE MILITARI
Le guerre ed i conflitti traggono origine e derivano le proprie dinamiche da complicate
situazioni sociopolitiche, che non si possono ridurre a una lettura troppo semplicistica. Su questi
temi poche sono le “certezze”, ma si può comunque ben affermare che per la loro nascita e per il
loro sviluppo non c’è una sola causa.
Pur tenendo in mente tale considerazione, è impossibile non riconoscere che nella creazione e
soprattutto nella crescita delle guerre e dei conflitti gli armamenti e le spese militari (che si
possono considerare una preparazione delle strutture e degli strumenti che poi agiranno negli
scontri) giocano un ruolo privilegiato, particolare ed importante. È per questo motivo che nella
strada di costruzione della Pace il disarmo e più in generale le questioni legate al controllo degli
armamenti e del finanziamento per la gestione degli eserciti siano importanti e assolutamente
rilevanti.
Anche in occasione della marcia Perugia-Assisi si è quindi cercato di mettere in fila una serie di
considerazioni e proposte legate a questi aspetti, come contributo tematico alla elaborazione più
ampia di una piattaforma di proposte comuni alle realtà promotrici. La lista proposta non è
ovviamente esaustiva e, in questo contesto, non pretende di far parte di un’analisi completa e
definitiva. Si è in realtà operata una scelta sulla base delle questioni che paiono più importanti
ed emergenti, e che necessiterebbero quindi un’azione più decisa e immediata da parte della
società civile e delle istituzioni. Nel redigere questa lista di proposte e di possibili azioni ad esse
legate si è anche partiti dalla situazione attuale in termini di risorse e competenze all’interno
delle reti pacifiste e disarmiste italiane.
•Controllo della spesa militare italiana e degli acquisti di armi (in particolare caccia F-35)
– Grazie alla campagna contro la partecipazione al programma Joint Strike Fighter (relativo a
cacciabombardieri d’attacco di produzione statunitense) negli ultimi anni è cresciuta molto
nell’opinione pubblica italiana la consapevolezza della problematicità di tali investimenti
pubblici. La spesa militare italiana è sbilanciata anche da un punto di vista dello strumento
militare e compito della nostre realtà sarà dunque quello di intervenire anche nel relativo
dibattito. Il collegamento con le campagne sociali, per esplicitare alternative utili e sensate di
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Le ragioni e le proposte per costruire le alternative alle guerre, ai muri ed alla violenza
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impiego dei fondi per gli armamenti, è fondamentale in questa linea di azione. Il governo,
nonostante una specifica mozione parlamentare di dimezzamento degli acquisti del numero degli
F35 approvata nel 2014, mostra la decisa volontà di procedere in senso opposto.
•Export militare italiano e 185/90
– L’attuale legge sulle vendite estere di prodotti militari prevede che entro il 31 marzo di ogni
anno debba essere pubblicata la Relazione Governativa che fornisce a Parlamento ed opinione
pubblica tutti i dati a riguardo di questo commercio. Le ultime variazioni regolamentari portano
oggi tale elaborazione principalmente sotto la responsabilità del Ministero degli Esteri. Nel
corso degli anni la trasparenza relativa all’export militare italiano non solo si è notevolmente
deteriorata, ma la legge stessa non viene più rispettata e da tempo le nostre realtà sottolineano
problematiche e criticità rispetto ai contenuti della Relazione. Deve essere messa in campo una
grande attenzione per non trovarci di fronte ad a continui testi deficitari e con gravi mancanze.
Senza un chiaro controllo (tecnico e politico) di queste dinamiche è difficile provare a mettere in
campo alternative di gestione dei conflitti che includano in maniera positiva il nostro Paese. E’
per questi motivi assolutamente necessario che il Parlamento esamini, nelle competenti
Commissioni di Camera e Senato, le recenti Relazioni sulle esportazioni di sistemi militari
italiani per valutare attentamente le autorizzazioni rilasciate dagli ultimi governi e il grado di
trasparenza della Relazioni governativa in confronto anche con le associazioni impegnate da
anni nel controllo del commercio degli armamenti. La Magistratura dovrebbe inoltre esigere il
rispetto formale e sostanziale della legge, viste le continue esportazioni di armi e munizioni a
paesi in guerra.
•Trattato internazionale sugli Armamenti
– Tale Trattato è in vigore dal dicembre 2014 con 84 ratifiche, compresa quella italiana adottata
dal nostro Parlamento all’unanimità. Le nostre realtà devono mettere in campo un’azione di
pressione, anche in accordo e contatto diretto con la mobilitazione internazionale Control Arms,
per valorizzare al meglio questo passaggio e mostrare il possibile positivo ruolo dell’Italia nelle
successive fasi di universalizzazione e implementazione del Trattato (paesi di rilievo come USA,
Russia e Cina non lo hanno ratificato). Inoltre anche in questo caso si tratta di fornire strumenti
di controllo e di discernimento sul commercio di armi che, se lasciato come ora in balia di
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Le ragioni e le proposte per costruire le alternative alle guerre, ai muri ed alla violenza
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dinamiche prettamente economiche e di interesse politico di breve termine, diventa elemento
esplosivo in tutte le dinamiche di conflitto. Non basta quindi un testo internazionale vincolante,
ma servono forti regole, strumenti di implementazione e di controllo.
•Disarmo Nucleare
– Si tratta di un tema per anni rimasto sullo sfondo delle azioni disarmiste, ma che mostra ancora
la sua importanza come ha dimostrato l’incapacità della Conferenza di revisione del TNP nel
2015 di giungere ad una dichiarazione finale condivisa. Prosegue invece il percorso di
“Iniziativa Umanitaria” per la messa al bando degli ordigni nucleari, percorso stimolato da
numerose realtà internazionali della società civile (oggi riunite nella campagna internazionale
ICAN di cui alcuni nostri organismi fanno parte) raccolto da un grande numero di Stati
preoccupati dall’impatto che anche un piccolo conflitto nucleare potrebbe avere per tutto il
mondo. Per il 2017 è stata avanzata un proposta di conferenza di Stati con l’obiettivo di
elaborare il testo di un trattato che metta al bando le armi nucleari.
•Azione sulle Private Military and Security Companies
– Tra le varie campagne che stiamo conducendo in accordo con diverse realtà internazionali c’è
anche quella per una regolamentazione delle Compagnie militari e di sicurezza private. Una
discussione in tal senso é già attiva dal 2010 all’interno del consiglio per la tutela dei diritti
umani presso gli Uffici ONU a Ginevra. Si tratta di un’azione di pressione politica (nazionale ed
internazionale) che non va dimenticata perché i conflitti del futuro saranno sempre più “agiti”
dagli Stati tramite realtà terze e su cui il controllo democratico sarebbe ancora più difficile.
Alcune nostre realtà hanno già elaborato proposte di legge e di convenzioni internazionali
inviate all’attenzione dei “Parlamentari per la Pace”.
•Campagna internazionale Stop Killer Robots
– Si tratta di una campagna internazionale nata pochi anni fa e che ha già ricevuto dei primi
risultati in ambito internazionale alla CWC di Ginevra. La società civile si è data questo
obiettivo anche per provare, per una volta, a mettere al bando un sistema d’arma inumano e
problematico prima che esso venga sviluppato. Già attualmente l’uso di droni è da considerarsi
altamente negativo, in particolare considerando che alcune porzioni del territorio italiano stanno
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Le ragioni e le proposte per costruire le alternative alle guerre, ai muri ed alla violenza
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diventando uno snodo per questi sistemi d’arma, ma pensare a macchine in grado di decidere
autonomamente se potere o meno uccidere una persona è ancora più straniante.
•Azione contro il MUOS
– Il Mobile User Objective System è un sistema di comunicazione militare che potrà coprire
tutto il mondo a supporto del dispiegamento di truppe Usa e che vede uno dei principali punti di
snodo negli impianti di Niscemi in Sicilia. L’azione delle realtà territoriali che si sono occupate
della campagna in questione hanno già mostrato la pericolosità (in termini anche di minacce
future) di tale installazione oltre che la sua valenza strategica per quanto riguarda le strutture di
guerra a livello mondiale. E’ necessario supportare ed intensificare le azioni contro il MUOS,
per le numerose valenze che questa linea di mobilitazione porta con sé.
• Fondo 58/01 per le azioni umanitarie contro le mine e le cluster bombs
– Il fondo creato su spinta della società civile nel 2001 è uno strumento prezioso che opera nelle
linee guida delle Convenzioni di riferimento per dare continuità di impegno alle azioni
umanitarie e di universalizzazione dei Trattati stessi. In relazione con le attività correlate alle
Convezioni Mine e Cluster sarebbe certamente auspicabile che il disegno di legge sul cosiddetto
“disinvestment” volto a stabilire il divieto di finanziamento delle imprese che svolgono attività
di produzione, commercio, trasporto e deposito di mine antipersona, munizioni e sub-munizioni
a grappolo venisse approvato al più presto anche dal Senato.
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Le ragioni e le proposte per costruire le alternative alle guerre, ai muri ed alla violenza
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SAHARA OCCIDENTALE
L’occupazione militare da parte del Marocco dell’ex colonia spagnola del Sahara Occidentale
dura ormai da più di quarant’anni. Il Sahara Occidentale è l’ultima colonia in Africa.
L’Onu e l’Unione Africana hanno più volte riaffermato il diritto del popolo sahrawi
all’autodeterminazione. Il Consiglio di Sicurezza ha elaborato un piano di pace e inviato una
missione di caschi blu delle Nazioni Unite per organizzare un referendum di autodeterminazione
(MINURSO), ma è l’unica missione di pace dell’Onu che non prevede la protezione della
popolazione civile. Di conseguenza i territori occupati dal Marocco vivono una situazione di
repressione continua e di gravi violazioni dei diritti fondamentali.
Nell’ultimo anno il Marocco si è caratterizzato per una politica di totale chiusura all’accesso del
territorio occupato nei confronti sia del segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, che così non
ha potuto incontrare i caschi blu ivi impegnati, che delle delegazioni di parlamentari e di
consiglieri locali e delle missioni delle associazioni umanitarie e per il rispetto dei diritti umani,
che sono state tutte indistintamente espulse nell’assordante silenzio dei governi dei paesi
d’origine, Italia inclusa. Inoltre il Marocco ha espulso il personale civile della MINURSO, che,
malgrado il sollecito del Consiglio di Sicurezza, non è stato ancora completamente reintegrato.
L’Europa ha una particolare responsabilità nei confronti del Sahara Occidentale. Nel dicembre
2015 la Corte europea di giustizia ha annullato l’Accordo Agricolo UE-Marocco per la parte che
riguarda i territori occupati, non riconoscendo la titolarità del Marocco su quella parte del
Sahara Occidentale. Marocco e UE vi hanno fatto opposizione, e si è in attesa del verdetto
finale. È tempo che l’UE cessi di sfruttare comunque le risorse naturali del Sahara Occidentale
occupato.
L’UE e l’Italia devono promuovere una politica più attiva per una soluzione del conflitto che
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Le ragioni e le proposte per costruire le alternative alle guerre, ai muri ed alla violenza
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oppone il popolo sahrawi al Marocco. In particolare devono impegnarsi per:
· Riaffermare il diritto del popolo sahrawi all’autodeterminazione.
· Esigere la tenuta del referendum di autodeterminazione
· Esigere il rispetto dei diritti umani nei territori occupati e la fine della repressione
· Esigere la liberazione di tutti i prigionieri politici
· Esigere il ritorno alla piena funzionalità della MINURSO, con il ritorno del personale
espulso dal Marocco
· Dotare la MINURSO del mandato della protezione dei diritti umani, superando
l’opposizione della Francia che in Consiglio di Sicurezza minaccia il veto.
· Salvaguardare le risorse naturali dei territori occupati, a cominciare dalla revisione
dell’Accordo di pesca col Marocco che consente ai pescherecci dell’UE, Italia compresa,
di pescare nelle acque del Sahara Occidentale occupato.
· Sospendere la vendita di armi e la collaborazione militare col Marocco, poiché sono
diventate strumenti della repressione.
· Esigere la libertà di ingresso nei territori occupati delle delegazioni di osservazione delle
organizzazioni per la difesa dei diritti umani, di parlamentari e delle associazioni della
società civile.
· Garantire gli aiuti umanitari ai sahrawi che vivono nei campi profughi in Algeria.
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Le ragioni e le proposte per costruire le alternative alle guerre, ai muri ed alla violenza
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PALESTINA: PACE, GIUSTIZIA, LIBERTÀ, DIRITTI
Dal lancio della Piattaforma della Rete della pace: Un Passo di Pace, a Firenze nel Settembre del
2014, la situazione in Palestina ed Israele è andata sempre più degradando e sempre più
abbandonata dalla Comunità Internazionale, occupata nelle crisi economiche e politiche, in
guerre ed in lotta al terrorismo.
Nel frattempo la società israeliana si è sempre più radicalizzata nel nazionalismo e nel razzismo
verso i palestinesi ma anche al proprio interno nei conflitti fra i vari gruppi religiosi e non solo.
L’ultimo governo Netaniyahu, è riconosciuto da tutti come il governo peggiore per una
soluzione della questione palestinese e israeliana che possa vedere la realizzazione di due stati
con Gerusalemme capitale condivisa. Gran parte dei ministri sono religiosi o coloni
fondamentalisti, sostenuti ed incitati in questo dal loro premier. Le voci del dissenso sono trattati
come traditori o come ebrei che odiano gli ebrei.
Questa deriva nazionalista, che non è solo ideologia ma praticata in fatti concreti, come la
colonizzazione crescente dei territori, la demolizione di case palestinesi, la repressione delle
lotte di resistenza nonviolenta, arresto di giovani attivisti nella Cisgiordania e in modo
particolare a Gerusalemme Est, dove crescono i coloni nei quartieri palestinesi , non viene
fermata, né da movimenti interni, anche se sempre di più voci di ex-militari o
dell’establishment che aveva sostenuto la linea due popoli due stati, sorgono critiche e domande
su quale futuro possa avere Israele con una simile politica, né tantomeno dalla Comunità
Internazionale che si limita a denunciare o condannare la crescita della colonie, ma continua a
premiare Israele (vedi i 38 miliardi di dollari in aiuti militari decisi dagli Usa o le promesse di
Donald Trump che ne caso di vittoria riconoscerebbe immediatamente Gerusalemme come
capitale unica e indivisibile dello stato di Israele). Le esecuzioni sommarie di giovani palestinesi
che nella rabbia e disperazione cercano di accoltellare soldati ai checkpoint, vengono applaudite
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Le ragioni e le proposte per costruire le alternative alle guerre, ai muri ed alla violenza
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da gran parte della popolazione ed in alcuni casi ai figli nascituri si da il nome del soldato
indagato per una esecuzione sommaria.
Tra i palestinesi cresce la rassegnazione e muore la speranza, intrappolati da una quotidianità
dove la mancanza di libertà, di movimento, la sottrazione di risorse, la disoccupazione, la
costrizione a lavorare negli insediamenti e la continua repressione (più di 7.000 prigionieri
palestinesi tra loro molti minori e centinaia in detenzione amministrativa. Cresce anche la
sfiducia e la critica ad una leadership che viene vista come inadeguata e non in grado di
difendere la popolazione dall’aggressione dell’esercito occupante, ma che anzi in nome della
sicurezza collabora con Israele e comunque una leadership divisa che non sa trovare l’unità
necessaria e fondamentale per riunire Gaza e la Cisgiordania in un unica Palestina. I comitati
popolari per la resistenza nonviolenta sono stati decimati dalla repressione israeliana e non
aiutati nel loro sviluppo dalle forze politiche a diventare un movimento nazionale, malgrado ciò
continuano a resistere e ad essere una forza importante per arginare la deriva della
rassegnazione.
Tutto questo impone a noi una responsabilità enorme e la necessità di una forte mobilitazione ,
affinchè il nostro governo, l’ Unione Europea e la Comunità Internazionale possano essere forze
determinanti per sbloccare questa situazione che può portare solo nuove tragedie.
E’ dal 1980 con il vertice di Venezia, che l’Unione Europea sostiene la fine dell’occupazione
militare israeliana
e indica la strada della soluzione della questione palestinese con la creazione di due popoli due
stati, per applicare le risoluzioni 242, 338, 194 delle Nazioni Unite.
Sono passati 36 anni e non solo non si è creato lo Stato di Palestina, ma è cresciuta a dismisura
la colonizzazione dei territori occupati militarmente nel 1967.
L’Unione Europea continua a proclamare la necessità dei due popoli e due stati, continua la
denuncia delle violazioni dei diritti umani da parte del governo israeliano, considera illegale la
costruzione delle colonie, denuncia la violenza dei coloni, non riconosce Gerusalemme come
capitale dello Stato d’ Israele e continua a sostenere che Gerusalemme Est deve essere la
capitale dello Stato di Palestina.
Ma nulla è stato messo in atto per fermare la politica di colonizzazione israeliana. A 69 dalla
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Le ragioni e le proposte per costruire le alternative alle guerre, ai muri ed alla violenza
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“Nakba” e dalla nascita dello stato di Israele, dopo ormai cinquant”anni di occupazione militare
e a ventitre anni dagli accordi di Oslo, Israele continua nella totale impunità a violare i diritti, a
compiere crimini contro la popolazione civile di Gaza e della Cisgiordania.
L’operazione Margine protettivo terminato dopo 51 giorni e che ha visto l’uccisione di 2194
palestinesi, di cui 643 bambini, la distruzione di case, scuole infrastrutture ospedali, non è
isolata ma strettamente connessa all’attacco alla terra, alla libertà nella Cisgiordania dove si
intensificano gli arresti, le demolizioni di case, i check point e la confisca delle terre palestinesi
per fare posto alle colonie, nasta sapere che dagli accordi di oslo ad oggi i coloni che erano
170mila, sono oggi circa 700mila e che lì’esercito israeliano è composto da più del 40 per cento
di giovani provenienti dalle colonie.
E’ tempo di pace per palestinesi e israeliani, è tempo di giustizia, di libertà e diritti per il popolo
palestinese
Noi chiediamo che la Comunità Internazionale agisca per imporre ad Israele il ritiro dai territori
occupati palestinesi e, così come chiesto dalla Corte Penale Internazionale dell’ Aja, lo
smantellamento del Muro dell’apartheid e la fine dell’annessione coloniale, indispensabili e
irrimandabili condizioni per portare pace, sicurezza e rispetto dei diritti per la Palestina e per
Israele.
Il cessate il fuoco tra Hamas e Israele, negoziato al Cairo da tutte le forze politiche dell’Olp oltre
ad Hamas con la mediazione dell’Egitto, non ha risolto i problemi perché l’assedio di Gaza non
è cessato e la popolazione continua a restare chiusa nella gabbia di Gaza.
Chiediamo al governo italiano e all’ Unione Europea:
· cessare ogni di cooperazione, ricerca, vendita di armi tra le quali gli M346 ad Israele;
· sollecitare i paesi terzi affinché non forniscano armi, munizioni ed assistenza militare
alle parti in conflitto;
· sospendere l’accordo di associazione Ue – Israele, sulla base dell’articolo 2 che prevede
la sospensione dell’accordo nel caso il paese contraente violasse i diritti umani;
· applicare le linee guida, in riferimento ad Israele, che fanno divieto di avere rapporti
politici, culturali e commerciali con le colonie: nessun prodotto delle colonie deve
entrare in Europa, nessuna esportazione deve andare nelle colonie;
· agire come forza di mediazione per la fine dell’occupazione militare israeliana la
colonizzazione dei territori e l’autodeterminazione per il popolo palestinese;
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· dare maggior forza alla cooperazione italiana con lo Stato Palestine
· riconoscere lo Stato di Palestina, tenuto conto che l’ Italia ha votato a favore del suo
riconoscimento nella risoluzione delle Nazioni Unite
· il governo Italiano si renda parte attiva nella convocazione di una conferenza
internazionale per la ripresa dei negoziati cosi come proposto dalla Francia.
Da parte nostra, ci impegnamo:
· a sostenere i Comitati popolari per la resistenza popolare nonviolenta contro
l’occupazione civile e militare dei territori palestinesi organizzando anche speaking tour
in Italia
· a dare voce e sostegno alle persone e ai gruppi che in Israele si battono per la pace e
contro l’occupazione militare;
· a sostenere la campagna per la libertà di Marwan Barghouthi e dei prigionieri palestinesi;
· ad agire per la fine dell’assedio di Gaza e la libertà di movimento di persone e merci
nella Palestina occupata
· a difendere i diritti fondamentali dei lavoratori palestinesi ed immigrati in Israele;
· a promuovere interventi civili di pace in Palestina;
· a denunciare e condannare ogni azione che metta in pericolo la vita della popolazione
civile palestinese ed israeliana;
· a fare pressioni sul nostro governo e sulle istituzioni europee affinchè Israele non resti
impunita per le violazione dei diritti umani e la legalità internazionale;
· a sostenere iniziative e campagne contro la commercializzazione in Italia dei prodotti
delle colonie e per il disinvestimento nelle imprese insediate nelle colonie o che
finanziano l’occupazione dei territori palestinesi.
· ad organizzare viaggi di conoscenza e solidarietà in collaborazione con
AssoPacePalestina, per rendere consapevoli e vedere con i propri occhi la realtà
dell’occupazione militare israeliana e rafforzare le nostre relazioni
Rete della Pace – Marcia Perugia – Assisi – 9 ottobre 2016
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CORPI E INTERVENTI CIVILI DI PACE
Nell’ottica di costruire alternative all’uso della forza in particolare durante le crisi internazionali,
sosteniamo l’urgenza di organizzare Interventi Civili di Pace in zone di conflitto, tramite Corpi di
volontari e operatori professionali. Questi sostengono, in qualità di terze parti, gli attori locali nella
prevenzione e
trasformazione dei conflitti. L’obiettivo degli interventi è la promozione di una pace positiva, intesa
come cessazione della violenza ma anche come affermazione di diritti umani e benessere sociale.
Chiediamo alle istituzioni il riconoscimento dell’impegno civile e la valorizzazione del
patrimonio di esperienze maturato dalla società civile italiana in questo campo soprattutto dagli
anni 90 durante le guerre nei Balcani e in Medioriente. I risultati prodotti sul campo dagli operatori
di pace, pur in assenza di una formazione strutturata per mancanza di risorse, hanno evidenziato
come si possano proteggere efficacemente vita e sicurezza dei civili senza imbracciare armi.
Proprio la scelta nonviolenta e la netta distinzione dai contingenti militari rendono credibile
l’indipendenza e la non-partigianeria dei Corpi Civili di Pace (CCP), e consentono loro di declinare
la costruzione della pace in una miriade di attività, in prevenzione ma anche durante e dopo lo
scoppio del conflitto: monitoraggio dei diritti umani e denuncia delle violazioni, monitoraggio
elettorale, sostegno ai processi di pace e riconciliazione, mediazione, facilitazione e costruzione
della fiducia tra le parti, interposizione non armata, accompagnamento nonviolento di difensori dei
diritti umani e persone minacciate, educazione alla pace, formazione e sostegno alla società civile
locale che lavora per la trasformazione nonviolenta dei conflitti, lavoro di pace nell’aiuto
umanitario e nella cooperazione allo sviluppo.
Crediamo importante, come Rete della Pace, promuovere un lavoro di rete, tra civile , il mondo
della ricerca e le istituzioni per rendere gli interventi sempre più efficaci e sostenibili, e
implementare questa proposta prima possibile a livello europeo.
Chiediamo alle istituzioni i seguenti passi di pace:
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f. Avviare quanto prima la sperimentazione di Corpi Civili di Pace tramite il Servizio Civile
Italiano, come approvato in legge finanziaria già a dicembre 2013
g. Accogliere la proposta della Campagna Difesa Civile, che prevede l’istituzione di Corpi
Civili di Pace in un apposito dipartimento, assieme a un Istituto Nazionale di Ricerche su
Pace e Disarmo che orienti gli interventi e la formazione dei CCP
h. Ammettere il peacebuilding civile tra le attività proprie della cooperazione allo sviluppo,
come da linee guida OECD-DAC, modificando in tal senso la nuova legge della
cooperazione
i. Incoraggiare sperimentazioni di CCP a livello europeo, similarmente a quanto fatto in
campo umanitario con i nuovi European Voluntary Humanitarian Aid Corps
j. Promuovere nell’Unione Europea la dimensione civile della Politica di Sicurezza e Difesa
Comune, ascoltando le raccomandazioni della società civile raccolte dallo European
Peacebuiling Liaison Office, perché la sicurezza umana dei cittadini europei non può
dipendere solo dal progetto di un esercito unico
k. Lanciare un programma formativo nazionale di educazione alla pace ed alla nonviolenza,
come parte integrante delle attività curricolari per la cittadinanza e la convivenza civile.
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LE GUERRE IN AFRICA
Due anni fa lanciammo l’allarme per la guerra nella regione del Kivu nella Repubblica Democratica
del Congo,(RDC) dove preziosi minerali, come cobalto, uranio, oro, coltan (indispensabile per i
nostri cellulari), fanno da sfondo ad una guerra che dura decenni e che non si può dire del tutto
spenta, anche perché alimentata dalla domanda dei mercati occidentali mai sazi di materie prime e
di profitti. La presenza di caschi blu, qui come altrove, non è servita a portare la pace. Interessi
locali e strategie internazionali continuano a moltiplicare i focolai di guerra, dal Sud Sudan al
Burundi.
L’economia africana, malgrado qualche accenno di crescita in settori limitati e circoscritti, continua
ad essere fondamentalmente un’economia di guerra. Con i suoi interessi, infatti, l’economia
africana mantiene uno stato permanente di tensioni e di conflitti sociali, nutriti dalla povertà e
dall’ingiustizia distributiva, e “giustifica” una sempre maggior presenza di capitali e forze armate
straniere, incluse le milizie private, per garantire all’Occidentale e a potenze come Cina e Russia
l’accesso alle risorse naturali e l’accaparramento di terre e oceani.
Dalla stagione delle indipendenze a cavallo degli anni Sessanta del secolo scorso, l’Africa non ha
mai conosciuto un solo anno senza che le guerre insanguinassero una parte del suo territorio. E non
si contano più le transizioni alla democrazia fallite, le riconciliazioni sfociate nella riapertura di
vecchi e nuovi conflitti, le “primavere” di ogni stagione e latitudine seguite dall’autunno dei fragili
spazi di libertà appena raggiunti.
Solo nell’anno in corso, molteplici prove elettorali sono degenerate in brogli, in contestazione dei
risultati delle urne, il consolidarsi di “dinastie” repubblicane (grazie alla proroga “costituzionale”
del rinnovo dei mandati presidenziali), il ricorrente balletto tra derive autoritarie del vincitore e
tentazioni golpiste o da guerra civile del candidato sconfitto.
Persino le missioni di pace dell’Onu e dell’Unione Africana e di paesi singoli, come la Francia, si
sono macchiate di crimini abominevoli come lo stupro, le violenze e lo sfruttamento sessuali contro
le popolazioni locali. Coloro che sono inviati per proteggere i civili, ne diventano i carnefici. Non
proprio casi “individuali”, come si ha invece la tendenza a classificarli, ma fatti strutturali che
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dimostrano la diffusione di una cultura della violenza e dell’impunità nei confronti dei più deboli.
L’Africa delle guerre è anche questa impudica, insolente e soprattutto violenta politica di
“mantenimento” della pace e delle “forze di pace”, ma di quale pace?
E c’è l’Africa della guerra al terrorismo, terreno di caccia di nuovi interventi stranieri. Ma è anche
l’Africa dove il terrorismo non è solo il prolungamento della crisi mediorientale, ma è frutto
autoctono di una crisi sociale e identitaria, aiutata certo, come altrove, da interessi, stranieri e non, a
manifestarsi in alcune direzioni particolari. E il terrorismo in Africa è intrecciato al contrabbando, al
mercato delle armi e delle persone. L’Africa, continente serbatoio degli schiavi, ha costruito una
parte della sua economia sul più importante commercio mondiale di persone: migranti,
prostituzione, turismo sessuale, bambini soldato, corpi per l’espianto di organi.
Se gli strumenti della politica internazionale appaiono inappropriati non è tanto per la loro
debolezza o inadeguatezza, problemi che pure sono reali, ma per la volontà di talune potenze di
giocarsi liberamente i propri interessi nel campo economico, nel commercio delle armi, nel
mantenere privilegi di natura coloniale. La diplomazia internazionale, e quella europea in modo
particolare, priva di una visione condivisa e di un ancoraggio saldo ai valori della dignità, della pace
e dei diritti umani, ha fatto dell’Africa un terreno di scontro, dove nessun colpo è escluso a danno
delle popolazioni africane.
In questo quadro come Rete della Pace ci impegniamo a promuovere un’attenzione all’Africa
più costante e meno episodica, a cominciare dal monitoraggio delle politiche del nostro
governo e dei governi dell’UE, in modo particolare del commercio delle armi, dal rinsaldare
l’alleanza strategica con la società civile africana, vivace ma facile preda della repressione da
una parte e dell’indifferenza dall’altra, da una consapevolezza maggiore dei nostri
comportamenti come consumatori, compresi quelli come turisti, e del loro impatto
sull’ambiente, la società e la cultura africane.
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L’INTRECCIO PERVERSO: PETROLIO, ENERGIA, CLIMA
In questi anni, quasi sempre, al di là di controversie territoriali, scontri ideologici, appartenenze
etnico-religiose, sbandierate come cause dei conflitti, a scatenare guerre e attacchi terroristici c’è la
lotta per l’accaparramento delle risorse energetiche e ambientali. Sia perché i cambiamenti
climatici rendono inabitabili vaste aree del pianeta e trasformano acqua, suolo fertile, equilibri
ambientali, biodiversità un bene scarso e prezioso. Sia perché il superamento del picco del
petrolio e il successo delle fonti energetiche pulite stanno creando contraddizioni e fibrillazioni
che sfociano in conflitti armati per il controllo delle fonti fossili.
Di questo intreccio perverso la guerra in Siria è l’esempio più drammatico ed eclatante.
Dal 2006 al 2011 la Siria è stata colpita dalla più grave siccità degli ultimi due secoli. Crisi agricola,
impennata dei prezzi alimentari, esplosione della povertà provocano la rivolta del 2011.
A complicare la situazione sul paese in crisi si scaricano “insospettabili” interessi energetici. Nel
2011 viene reso pubblica la scoperta di giacimenti al largo delle coste siriane, capaci di almeno 1,7
mld di barili di petrolio e 3,5 trilioni di m³ di gas naturale, che farebbero parte di un sistema di
giacimenti nel Mediterraneo orientale, che coinvolge più Stati: il Leviathan (536 mld di m³) e il
Tamar (282 mld di m³), di fronte a Israele, e lo Zohr (850 mld di m³) scoperto dall’ENI in Egitto.
Giacimenti che possono modificare la dipendenza dell’Europa dal gas russo e rinforzare
l’autonomia energetica di Israele. Il controllo di queste risorse diventa un obiettivo fondamentale
della strategia Usa-Europa per l’approvvigionamento energetico.
Inoltre in Siria si gioca anche un’altra “competizione energetica” che riguarda il percorso di due
gasdotti, quello “sciita”, l’Islamic Gas Pipeline, voluto da Iran, Iraq e Siria, che avrebbe dovuto
portare in Europa il gas dell’Iran, bypassando la Turchia, e quello “sunnita”, sostenuto dagli Stati
Uniti, che dovrebbe portare il gas dal Qatar all’Europa, passando per la Siria e la Turchia. E’
l’intreccio di questi fattori che rende “irrisolvibile” il conflitto siriano.
Lo scenario globale è determinato dal fatto che siamo in una fase di profondi cambiamenti. E’ finita
l’era del petrolio di facile accesso e a buon mercato, dai bassi costi di produzione. E’ dal 2005 che
«la crescita di offerta viene garantita dallo sfruttamento di categorie di petrolio provenienti da
giacimenti non convenzionali, più costose sia in termini economici che in termini energetici». Il
petrolio non sta finendo, ma costa di più produrlo. Ciò scatena la competizione per mantenere le
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Le ragioni e le proposte per costruire le alternative alle guerre, ai muri ed alla violenza
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quote di mercato esistenti, mentre si accende il conflitto per il controllo di nuovi giacimenti. La
situazione è stata poi aggravata dalla crescita del prezzo del greggio che ha prodotto grandi
investimenti: dal 2000 al 2014 si passa da circa 100 mld $ (valore 2014) a più di 700 mld $,
soprattutto nel settore dello shale gas e dello shale oil, grazie ai quali gli USA raddoppiano quasi la
propria produzione in due anni e diventano il primo produttore al mondo. La reazione dell’Opec,
guidato dall’Arabia Saudita, impone il crollo del prezzo del greggio per mettere in difficoltà la
produzione USA, suo antico alleato, ed impedire il rientro dell’Iran, suo grande competitore
regionale. Il gioco degli interessi energetici sposta alleanze tradizionali e fa emergere aspirazioni
egemoniche delle potenze regionali.
Il crollo del prezzo blocca gli investimenti e crea instabilità e nuovi conflitti: i signori del petrolio
sono i signori della guerra. Iraq, Libia, Sud Sudan, Nigeria, Siria, Yemen: le guerre del petrolio si
susseguono a ritmo incalzante, e senza soluzione di continuità dal 2003. Al centro di tutte le
tensioni è il Medio Oriente, che possiede il 47,7% delle riserve accertate di greggio nel mondo.
Anche dietro l’azione dell’Isis c’è il petrolio. Il controllo di alcuni grandi campi estrattivi in Iraq
consente all’Isis di entrare a pieno titolo nella strategia petrolifera dei saudito-sunniti, di cui gode il
sostegno, e di garantirsi l’autofinanziamento con il contrabbando di petrolio, che secondo la
Russia nei primi sei anni ha fruttato circa 2 mld $ all’anno, attraverso colonne (non invisibili) di
decine di migliaia di autocisterne in viaggio verso i porti turchi del Mediterraneo e da qui in
Europa.
L’Europa, intanto, si dimostra del tutto impotente, perché dipende dalle fonti fossili controllate
dagli stessi regimi che sostengono il terrorismo. Succube del ricatto energetico russo, in cui si è
inserito anche Erdogan con il recente accordo con Putin in cui ha rimesso in campo il gasdotto
Turkish stream, che consolida la dipendenza dell’Europa dalla Russia, liberando quest’ultima dal
rischio Ucraina. Strozzata dall’alleanza storica con le potenze regionali sunnite, che sostengono
l’Isis, da cui i paesi europei comprano il petrolio di contrabbando, finanziando così,
paradossalmente non solo il Califfato e la sua guerra, ma anche gli attentati nelle città europee.
La prima risposta per ridurre, se non azzerare, i rischi di guerra è ridurre rapidamente il peso
delle fonti fossili nell’approvvigionamento energetico mondiale, con l’effetto sinergico, non
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secondario, di riuscire, in questo modo, a porre le premesse per un serio contrasto ai cambiamenti
climatici.
La rivoluzione energetica in corso ci offre un’occasione unica. Secondo la International Energy
Agency (IEA) le rinnovabili saranno la prima fonte di elettricità nel 2040, la crescita della domanda
di energia sarà garantita molto più dalle rinnovabili e dall’efficienza (per la IEA la domanda di
elettricità del mondo crescerà meno che nel passato (l’1%) per merito dell’efficienza) che dalle
fossili, in un modello distribuito e diversificato.
Il contrasto ai cambiamenti climatici e l’accordo di Parigi della COP21 rappresentano quindi la
porta stretta attraverso cui passa anche l’inversione di questa drammatica escalation bellica.
Rivoluzione energetica e giustizia climatica sono due facce della stessa medaglia, attraverso cui è
possibile combattere la fame e la povertà, garantire i diritti dei migranti e la democrazia, porre le
premesse per la costruzione di una pace duratura.
Ecco perché le manifestazioni del 29 novembre (2015), a Roma e nel mondo, all’apertura della COP
21 sono state la prima uscita di un nuovo movimento pacifista, che assume la complessità e gli
intrecci tra politica, economia, ambiente, diritti schierandosi e sostenendo la necessità di un nuovo
paradigma di sviluppo, quale condizione imprescindibile per costruire giustizia e pace.
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Le ragioni e le proposte per costruire le alternative alle guerre, ai muri ed alla violenza
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CONFLITTI E MIGRAZIONI:
FERMARE LE STRAGI, GARANTIRE IL DIRITTO DI ASILO
Il 3 ottobre 2013 368 migranti sono morti nei pressi di Lampedusa nel tentativo di raggiungere le
coste dell’Europa. Tra di loro molte donne e molti bambini. E’ solo una delle più gravi stragi che
attraversano il Mediterraneo: nel 2015 sono 3771 le persone che hanno perso la vita nel
Mediterraneo. Nel 2016 questo numero sarà certamente più alto perché, ad oggi, sono 3498 i morti
nel tentativo di attraversare il braccio di mare che separa l’Africa dall’Europa.
Le guerre e le numerosi crisi internazionali in corso causano migliaia di vittime civili nei paesi di
origine, ma costringono anche milioni di persone a fuggire dal rischio di torture, persecuzioni e di
perdere la propria vita.
I profughi siriani che hanno abbandonato il proprio paese hanno raggiunto i 5 milioni e nel 2015 i
profughi e gli sfollati in tutto il mondo sono quasi 65 milioni (dati UNHCR): una emergenza
umanitaria senza precedenti dal dopoguerra ad oggi. Si tratta di persone che sono costrette a cercare
protezione internazionale in un paese diverso da quello di origine.
Le politiche del rifiuto hanno assunto sino ad oggi come priorità il controllo delle frontiere e il
contrasto delle migrazioni “illegali” causando la morte di migliaia di persone. Ma anni di
chiusura delle frontiere, di controllo dei mari, di respingimenti illegittimi, di detenzioni arbitrarie,
di violazioni dei diritti umani non hanno fermato gli arrivi dei migranti e delle persone che cercano
protezione internazionale in Europa.
La garanzia del diritto di asilo, la promozione di politiche di accoglienza e di inclusione sociale dei
profughi e dei rifugiati devono dunque diventare una priorità del governo italiano e dell’Unione
Europea. Le politiche di cooperazione con i paesi “terzi” non possono essere subordinate alla loro
collaborazione nel controllo delle frontiere esterne e nelle attività di contrasto dell’immigrazione
“irregolare”. L’Italia e l’Europa possono avere un futuro solo se rifiutano ogni forma di
discriminazione e ripudiano la xenofobia e il razzismo.
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Il recente vertice europeo di Bratislava ha segnato uno dei punti più bassi degli ultimi anni in
materia di politiche per l’accesso al diritto d’asilo. L’unico argomento discusso e sul quale si riesce
a trovare un accordo è impedire alle persone di mettersi in salvo, chiudere ulteriormente ogni via di
fuga e sostenere economicamente e politicamente quei governi che collaborano nel fermare i flussi
e accogliere (quasi sempre in centri di detenzione o carceri) le persone rimpatriate forzatamente.
Chiediamo dunque al Governo italiano e all’Unione Europea di:
– Garantire il diritto di arrivare e di chiedere asilo
a) introducendo la possibilità d’ingresso “legale” per motivi di lavoro e di ricerca di lavoro;
b) riformando il Regolamento Dublino III con l’abolizione dell’obbligo di presentare richiesta di
asilo nel primo paese europeo di arrivo;
c) aprendo, con il coinvolgimento delle Nazioni Unite, canali d’ingresso protetto per le persone
bisognose di protezione internazionale;
d) rafforzando le operazioni di ricerca e soccorso in mare per evitare che migliaia di persone
perdano la vita nel Mediterraneo.
– Applicare la Direttiva Europea sulla Protezione temporanea (2001/55/CE)
La Direttiva prevede, tra le altre cose, la possibilità di offrire una tutela immediata e temporanea
alle persone sfollate quando vi è il rischio che, a causa dell’intensificarsi degli arrivi, il sistema di
asilo non possa farvi fronte senza effetti pregiudizievoli per il suo corretto funzionamento e peri
diritti delle persone coinvolte (Art.2).
In questo senso la Direttiva consente l’emissione di un titolo di soggiorno europeo temporaneo, un
piano d’accoglienza europeo, canali d’accesso umanitari e la possibilità di attivare risorse
aggiuntive.
– Sospendere gli accordi esistenti con i paesi terzi che non offrono adeguate ed effettive
garanzie del rispetto dei diritti umani
La firma di accordi con paesi terzi in materia di flussi migratori e di rimpatri (quindi in materia di
libertà personali), deve essere sottoposta al vaglio delle Assemblee Parlamentari, per verificare il
rispetto del diritto di asilo, del divieto di espulsioni collettive e il rispetto del principio di nonrefoulement
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Uniformare gli standard di accoglienza di profughi e richiedenti asilo in tutti i paesi europei e
giungere ad una programmazione comune e coordinata dell’accoglienza che consenta di ripartirne le
responsabilità tra tutti i paesi membri. In particolare occorre evitare il ricorso a strutture di
accoglienza grandi che producono, confinamento, separazione e stigmatizzazione, oltre che sprechi
di risorse pubbliche e forme di illegalità diffusa.
– Ratificare la Convenzione sui diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie
e delle Convenzioni OIL n° 47 e n° 143
La Convenzione sui diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie è stata adottata
dall’Assemblea delle Nazioni Unite il 18 Dicembre del 1990 ma non è stata ancora ratificata da
parte di nessun paese europeo. La piena garanzia di alcuni diritti fondamentali dei lavoratori
migranti (tutela contro lo sfruttamento e il lavoro forzato, libertà personale e sicurezza sul lavoro,
diritto all’assistenza medica, diritto all’istruzione dei figli, diritto all’unità familiare) è, in assenza
della ratifica della Convenzione, compromessa.
Come pure le convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, a protezione dei
lavoratori migranti, a tutt’oggi ratificate solamente da un ristrettissimo numero di stati membri
dell’UE (Italia, Portogallo, Svezia, Slovenia).
– Chiudere i centri di detenzione
Tutti i paesi europei si sono dotati di strutture di detenzione presidiate dalle forze dell’ordine nelle
quali sono detenuti i migranti senza documenti inattesa del loro rimpatrio nel paese di origine per un
periodo che può raggiungere i 18 mesi. Spesso si tratta di richiedenti asilo e/o di minori.
La detenzione amministrativa non ha alcuna efficacia sulla riduzione della presenza dei migranti
senza documenti, è all’origine di numerose violazioni di diritti umani fondamentali e comporta un
cospicuo investimento di risorse pubbliche che potrebbero essere meglio investite nelle politiche di
accoglienza e di inclusione sociale.
– Garantire i diritti di cittadinanza
E’ necessario facilitare l’acquisizione della nazionalità del paese di residenza ai cittadini di paesi
terzi stabilmente presenti in Italia e in Europa e riconoscere il loro diritto di partecipare alle
decisioni che riguardano la vita della comunità nella quale risiedono attraverso l’introduzione del
diritto di voto attivo e passivo almeno amministrativo.
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I MOVIMENTI PER LA PACE E L’EUROPA
Il progetto europeo come fu pensato dai suoi costituenti sta vivendo una profonda crisi con il rischio
di nuove rotture, divisioni e ritorni al passato. Il processo di allargamento delle funzioni politiche,
economiche e amministrative alle istituzioni europee da parte degli stati membri è paralizzato e
l’Unione Europea è sempre più percepita dai suoi cittadini come un grande apparato burocratico e
tecnocratico, pronto a porre limiti e freni alle politiche nazionali, mentre il suo sistema di decisione
è invece fortemente condizionato dalla logica intergovernativa al cui interno prevalgono gli interessi
dei paesi più forti. Le inchieste non fanno altro che segnalare i livelli di sfiducia crescente nelle
istituzioni europee e la voglia di ritornare alle monete e nei confini nazionali. La politica di austerità
ha esasperato la distanza tra le economie forti e quelle più deboli, impedendo a queste ultime di
recuperare occupazione e consumi, imponendo tagli alla spesa pubblica, tagli ai diritti economici e
sociali. Una politica sanzionatoria e repressiva a difesa di alcuni stati e priva della logica virtuosa
della solidarietà indispensabile per uscire insieme dalla crisi. La stessa logica ha prevalso nella
gestione della più grande emergenza umanitaria che l’Europa ha dovuto affrontare dalla sua nascita
ad oggi, data dal flusso migratorio di uomini e donne che fuggono dai paesi dell’Africa Subsahariana,
dai paesi del Nord Africa e dal Medio Oriente, a causa di guerre, povertà, repressione,
disastri ambientali che, in modi più o meno diretti, si collegano alle nostre economie o hanno radici
nelle ripartizioni e processi di decolonizzazione del secolo scorso. Assenza di solidarietà e di
preparazione a gestire un’emergenza ed un flusso migratorio che in termini di numeri e di
percentuali sarebbe invece alla portata dell’Unione europea, per ricchezza e per popolazione.
Prevalgono, invece, gli allarmismi e la costruzione di uno scenario apocalittico, l’invasione dello
straniero cui si reagisce con la protezione e il respingimento. Italia e Grecia non trovano la
solidarietà degli altri stati membri. Si chiudono le frontiere e si stipulano accordi con Turchia per
trattenere chi fugge dalla Siria e dall’Oriente. Si offrono aiuti agli stati africani in cambio della
chiusura delle loro frontiere. Questo modello di Europa non avrà pace e non avrà futuro.
Noi crediamo nell’Europa e nel progetto dei suoi costituenti, nel superamento dei confini e dei
muri, e per questo ci dobbiamo impegnare per il rilancio del progetto politico europeo, contro
l’ondata xenofoba e di chiusura che sta attraversando i nostri paesi. Per questo intendiamo proporre
alle istituzioni e alla politica europee le seguenti azioni:
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l. rilanciare il dibattito sulla riforma delle Nazioni Unite sostenendo in particolare l’iniziativa
per un’assemblea parlamentare delle Nazioni Unite (UNPA) e la creazione di un organismo
sovranazionale per il monitoraggio e l’attuazione degli Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile
e delle decisioni adottate a Parigi nel COP21. Chiediamo in particolare al governo italiano,
come membro non permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, di presentare
un piano di riforma dell’ONU al prossimo Segretario Generale
m. promuovere azioni europee per una posizione comune a sostegno di un graduale disarmo
internazionale. Tale azione dovrà inizialmente concentrarsi su regole europee comuni in
materia di controllo nella produzione e vendita delle armi convenzionali eventualmente sotto
forma di una cooperazione strutturata permanente.
n. rendere contestualmente l’Europa una “Zona libera da armi nucleari” anche come traino per
rendere il Medioriente (come già ipotizzato da accordi internazionali) anch’esso una regione
mondiale liberata da queste armi di distruzione di massa
o. aprire un dibattito sul superamento progressivo del Trattato dell’Alleanza del Nord Atlantico
(NATO) nella prospettiva di un’organizzazione del mondo in aree di integrazione regionale
allo scopo di garantire la cooperazione, la distensione e la pace. L’Europa può e deve essere
un modello in tal senso, sia per quanto riguarda la propria struttura istituzionale interna sia
per le possibili azioni verso altre regioni del mondo
p. promuovere una politica estera e di vicinato volta a costruire una regione Mediterranea di
pace, di democrazia, di convivenza, di cooperazione e di libera circolazione delle persone,
applicando politiche e accordi coerenti con la nostra Carta Europea dei Diritti Umani e con
la Carta Sociale europea, investendo risorse e generando opportunità di un nuovo modello di
sviluppo per l’intera regione mediterranea
q. sostenere una politica di immigrazione e d’asilo che elimini la distinzione fra persone che
fuggono dalle guerre e persone che fuggono dalla fame e dai disastri ambientali. Chiedere in
questo spirito la revisione della Convenzione delle Nazioni Unite del 1951
r. rilanciare con forza, in vista del G7 e del G20 sotto presidenza europea nel 2017 (Italia: G7
– Germania: G20), l’elenco delle sfide di cooperazione internazionale che non hanno avuto
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ancora risposte adeguate: dalla tragedia della fame che può trovare una soluzione sapendo
che il problema non è la scarsità del cibo ma la volontà e la capacità di distribuirlo
equamente, all’educazione, alla qualità dell’ambiente considerando l’ambiente come volano
per lo sviluppo, alla promozione degli investimenti sociali di lunga durata, al commercio
equo, alla lotta per i diritti fondamentali, al lavoro dignitoso, al ruolo della donna, per
ripensare la cooperazione fra l’Europa ed il continente africano e il sud del mondo
assicurando l’avvio di un nuovo modello di sviluppo
s. accelerare la creazione di un Corpo Volontario Europeo come previsto dall’art. 214 del
Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea, e prevedere che svolga anche interventi
civili di pace in zone di conflitto, coerentemente con le linee guida dell’OCSE secondo cui
talune azioni di peace-building e disarmo rientrano nei criteri degli Aiuti allo Sviluppo. In
tal caso il Corpo Volontario Europeo diverrebbe il primo nucleo di un sistema europeo
diffuso di Difesa Civile
t. trasformare il Servizio Volontario Europeo in un Servizio Civile Europeo in sinergia e
coordinamento con i servizi civili nazionali e porre le basi per un reddito europeo di
cittadinanza
u. adottare una Politica Estera comune dell’Europa che rafforzi la componente civile della
Politica di Sicurezza e Difesa comune, e costruisca in un’ottica di disarmo graduale il
percorso verso l’unificazione dello strumento militare dell’Unione. Una scelta che potrebbe
liberare fin da subito miliardi di euro con i quali rilanciare non solo l’economia ma anche la
gestione civile delle crisi e la salvaguardia dei diritti di tutti i cittadini europei, con un
approccio nonviolento al tema della difesa e della sicurezza
v. creare uno spazio pubblico europeo di dialogo e dibattito sul futuro dell’Unione con
l’obiettivo di trasformare l’attuale sistema in un Comunità democratica e solidale secondo il
modello federale indicato dai confinati antifascisti Spinelli, Rossi e Colorni nel Manifesto di
Ventotene del 1941
Per realizzare questi obiettivi, decidiamo di contribuire all’avvio di un’ampia mobilitazione
popolare a livello europeo anche in vista del sessantesimo anniversario della firma dei Trattati di
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Roma e siamo pronti a partecipare alla manifestazione per un’Europa democratica, solidale e
federale che avrà luogo a Roma il 25 marzo 2017.
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IRAQ – PER TREDICI ANNI, DALL’INVASIONE AMERICANA DEL 2003, LA GUERRA
NON SI È MAI FERMATA
L’Iraq continua oggi a consumarsi nello scontro tra fazioni politiche e comunità, quasi tutte dotate
di proprie milizie che commettono gravi violazioni dei diritti umani, mentre si prepara la grande
offensiva militare per liberare Mosul da Daesh (IS). L’esercito iracheno e i peshmerga curdi
dovranno combattere assieme, coperti dai raid aerei della coalizione internazionale a guida USA,
ma i combattenti di Daesh hanno scavato tunnel e trincee in tutta la città e immagazzinato
abbastanza cibo da resistere degli anni. In ogni caso sarà un‘operazione militare lunga, che rischi di
provocare decine di migliaia di vittime e oltre 1 milione di nuovi sfollati. Né l’ONU né le ONG né
gli enti locali iracheni sanno come potranno accoglierli, visto che sono ancora 3,3 milioni gli sfollati
iracheni dalle precedenti fasi del conflitto, fuggiti anche dai bombardamenti governativi sulle città
sunnite. La comunità internazionale fornisce armi ai combattenti ma copre solo metà dei
finanziamenti chiesti dall’ONU per soccorrere i 10 milioni di iracheni che hanno bisogno di
assistenza umanitaria.
L’attuale governo di Al-Abadi è stato eletto dopo oltre 8 anni di dominio del Primo Ministro Al-
Maliki, che con l’appoggio di Iran da una parte e Stati Uniti dall’altra ha trasformato il paese in una
semi-dittatura e soffocato nel sangue ogni opposizione interna. L’arrivo nel 2014 di Daesh, che in
due mesi ha conquistato militarmente due terzi del paese, ha più che raddoppiato una crisi
umanitaria che era già in corso, e alzato il livello di scontro in un paese che già era in guerra.
L’ONU calcola che 23.600 civili iracheni siano stati uccisi da gennaio 2014 ad oggi in atti di
terrorismo, violenza e conflitto armato. Inoltre le donne e i bambini rapiti e ridotti in schiavitù da
Daesh sono ancora oltre 2000, e molti di più potrebbero essere gli uomini delle minoranze uccisi
barbaramente per aver opposto resistenza o aver rifiutato di convertirsi.
Nonostante questo quadro desolante, la società civile irachena continua a lottare con campagne e
manifestazioni per la difesa dei diritti. Nel 2015 i sindacati sono finalmente usciti dall’illegalità con
l’approvazione del nuovo Codice del Lavoro, il più avanzato nel mondo arabo, a seguito della loro
pressione. Inoltre, dal luglio 2015 ogni venerdì migliaia di persone scendono in piazza per
protestare contro la corruzione e il confessionalismo del governo e dei partiti politici. Movimenti
studenteschi, associazioni laiche e gruppi sciiti seguaci di Muktada al-Sadr si sono uniti in una
campagna di lotta nonviolenta per delegittimare l’attuale leadership politica e costruire dal basso
un’alternativa democratica, per un Iraq laico e unito. Attribuiscono alle politiche delle istituzioni
irachene la colpa dell’arrivo di Daesh e sostengono quindi che per sconfiggere il terrorismo sia
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necessario – e sufficiente – cambiare il governo scegliendo politici che possano avviare un processo
di dialogo e riconciliazione nazionale.
Questo conflitto, che si è sviluppato e acuito gradualmente dopo l’invasione americana del 2003, a
seguito di scelte politiche esecrabili della comunità internazionale e della condotta criminale dei
governi iracheni che si sono succeduti, non ha soluzione militare.
Il movimento per la pace italiano si impegna a rafforzare gli sforzi per gli aiuti umanitari ai
rifugiati iracheni – con particolare attenzione alle minoranze cristiane, yazide, turcomanne e shebak
– e per il sostegno alla società civile irachena nelle sue campagne, in coordinamento con la
coalizione internazionale Iraqi Civil Society Solidarity Initiative e con il Forum Sociale Iracheno.
Il governo italiano, che per tutta risposta alla crisi ha inviato vecchi arsenali di armi ai Peshmerga,
centinaia di militari a presidiare un cantiere italiano sulla diga di Mosul, e reso ancor più difficile
l’ottenimento di visti Schengen per i residenti nella provincia di Mosul, (coloro che più avevano
bisogno di protezione) deve cambiare radicalmente orientamento.
Alle istituzioni italiane ed europee chiediamo i seguenti passi di pace:
– garanzia che qualsiasi azione di interposizione e di contrasto a Daesh venga prevista nel quadro
del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con mandato ONU;
– interruzione dell’invio di armamenti a forze armate irachene o kurde, in ottemperanza alla legge
185/90, ritiro delle truppe italiane dalla diga di Mosul e maggiore impegno di intelligence per
fermare l’invio di armi e finanziamenti a Daesh;
– destinazione di cifre più alte al soccorso umanitario di profughi e sfollati iracheni, senza sottrarre
fondi ad altre emergenze come quella dei rifugiati siriani, che rimane grave;
– monitoraggio e pressione diplomatica sul governo iracheno affinché ascolti e soddisfi le richieste
dei manifestanti di Piazza Tahrir, nomini nuovi ministri in base alle competenze, e affronti il
processo di dialogo nazionale per sciogliere le dispute interne;
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– monitoraggio e pressione diplomatica sul governo regionale del Kurdistan Iracheno affinché
ristabilisca pieno funzionamento e democraticità del Parlamento regionale, e affinché i Peshmerga
non commettano abusi e trasferimenti forzosi delle famiglie arabe;
– sostegno alla società civile irachena in programmi di costruzione della pace, nella denuncia delle
violazioni a cui sono soggetti i civili, e affinché divenga parte attiva e riconosciuta nel processo di
dialogo nazionale, al fine di proteggere libertà di stampa, di espressione e di associazione, equità di
genere, diritti umani e giustizia sociale;
– apertura delle frontiere europee agli iracheni vittime di persecuzione, poiché membri di
minoranze o difensori dei diritti umani, offrendo loro particolari tutele e accoglienza nel
nostro paese.
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EDUCARE ALLA PACE E AI DIRITTI UMANI – I LUOGHI DELLA FORMAZIONE TRA
PACE E NONVIOLENZA
I temi della pace e del pacifismo per un ragazzo che oggi vive le nostre scuole e le nostre università,
nato quindi al più ad inizi anni ‘90, rievocano probabilmente un passato mai vissuto, una serie di
eventi e manifestazioni di cui ha forse sentito parlare nel corso della propria adolescenza, ma che
non costituiscono altro se non processi lontani che nulla hanno a che vedere con quello che ha
realmente vissuto. Riuscire a coniugare e a risemantizzare questi termini per renderli fruibili e
sensati anche per le nostre generazioni è la sfida da vincere nelle nostre scuole, nelle nostre
università e nella nostra vita quotidiana. Costruire una nuova cultura della pace, che sappia
valorizzare ciò che è stato il movimento pacifista e le sue battaglie, costituisce un nodo
fondamentale che dovrebbe interrogarci tutti.
Ad oggi, le spese militari e l’intervento armato, e, all’opposto, la pace e la nonviolenza (intesa non
come semplice negazione dell’uso della forza, ma come processo e costruzione di una strategia
alternativa di gestione dei conflitti), godono di una rappresentazione differente per le nuove
generazioni rispetto a quella dei genitori. Se, da un lato, i simboli della pace e il senso stesso del
pacifismo, appaiono più come evocazioni che come reale alternativa, dall’altro, gli interventi
militari sono considerati un pericolo per la risoluzione dei conflitti e ritenuti delle ingerenze esterne
motivate da interessi economici per i quali vengono sacrificate la vita e la dignità di migliaia di
civili. La retorica della “guerra infinita” è una costante all’interno della nostra educazione; l’idea
che l’unica soluzione possibile sia il conflitto armato rende difficile anche solo immaginarsi un
futuro nonviolento. La guerra viene vista non come una scelta ben precisa, preparata, costruita a
volte a tavolino, ma come un accidente impossibile da prevedere.
D’altronde, nessuno di noi ricorda un anno senza conflitti, senza disordini in una zona del mondo
dal Medio-Oriente all’Africa, fino all’Europa o agli Stati Uniti degli ultimi anni in cui la guerra e il
terrorismo hanno violentemente fatto breccia nelle nostre vite. Quando si parla di risemantizzare e
attualizzare i termini di pace e pacifismo si intende tornare a parlare della guerra in maniera critica a
partire dalle scuole, mettere a sistema una critica storica che smantelli e decostruisca la retorica
della guerra infinita, a guardare, cioè, agli eventi storici come a dei processi, e non a compartimenti
stagni di date e nozioni, rappresentare ciò che hanno significato per le popolazioni, per i vinti, per
l’economia e lo sviluppo politico e sociale. Con i se e con i ma non si fa certamente la storia, ma
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avere i mezzi per possedere una coscienza dialettica di ciò che è stato, di mettersi nei panni
dell’altro, anche fuori da noi stessi (intesi come occidentali bianchi), è già un passo avanti non da
poco.
Le scuole non possono essere laboratori asettici entro i quali veniamo riempiti di nozioni, ma
devono essere le fucine di un nuovo modello di società, di un nuovo modo di intendere i processi
storici e il passato che sia in grado di decostruire l’idea che la pace sia solo una prospettiva
utopistica. Ci si deve proporre, dunque, di riappropriarsi di un approccio plurale, di dar vita ad una
didattica alternativa che sappia intrecciare le tematiche e le testimonianze, provando ad
abbandonare l’etnocentrismo con il quale troppo spesso si giudicano i fatti, e di ricostruire una
storia sociale.
Il ruolo dell’istruzione è fondamentale nella capacità di ridare una prospettiva di senso ai movimenti
pacifisti e alla nostra capacità di guardare ai conflitti oggi in corso smentendone l’aura di
ineluttabilità. Inoltre, vi è la necessità di una problematizzazione dei conflitti che sappia svelare
quali sono gli interessi in campo, smascherando il ritorno del “fardello dell’uomo bianco” che deve
esportare la democrazia e difendere le popolazioni in mano a terroristi d’ogni sorta. I conflitti sono
dovuti quasi sempre a questioni economiche e la nostra generazione ha visto con i propri occhi
l’inizio di una guerra ingiusta, inutile e dannosa per tutti noi come la guerra in Iraq. Oggi, infatti, è
chiaro l’effetto di una guerra finalizzata al controllo del secondo più grande bacino petrolifero e
fondata sulle menzogne dell’amministrazione Bush: un’instabilità ancora maggiore nei paesi del
Medio-Oriente, alla base della nascita dello Stato Islamico (vedi Rapporto Chilcot).
Bisogna quindi investire nell’istruzione e nell’educazione e pensare ai luoghi della formazione
come motori per un altro modello di sviluppo, che abbandoni il petrolio, il gas naturale e le fonti
fossili, il cui accaparramento è ed è stato alla base delle guerre in Medio Oriente. Vogliamo un
modello che preveda l’educazione ad una cultura della pace in grado di valorizzare la cooperazione
e la solidarietà internazionale, l’autodeterminazione dei popoli, e le potenzialità di corpi civili di
pace nella gestione delle controversie e dei conflitti. Non si potrà certo avere una prospettiva simile
fino a quando nelle nostre scuole potranno svolgersi giornate di orientamento all’esercito, o nelle
nostre università saranno esposte in bella vista armi (il caso di Bari) o sottoscritte convenzioni con
aziende produttrici di armamenti o che si rendono complici dell’occupazione illegale di interi
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Le ragioni e le proposte per costruire le alternative alle guerre, ai muri ed alla violenza
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territori. Impedire ogni forma di propaganda militarista nelle nostre scuole e università deve essere
una prospettiva da assumere necessariamente.
Attraverso l’educazione alla cultura della pace e alla risoluzione dei conflitti con la nonviolenza, si
pongono le basi per comprendere che pace non significa solo abbandono delle armi, ma accoglienza
dei migranti e libera circolazione delle persone, affiancata dalla garanzia di accesso incondizionato
a tutti i gradi dell’istruzione per tutti e tutte attraverso borse di studio e sostegni di vario tipo;
significa abbandono di un modello energetico vecchio e inquinante; gestione reale dei cambiamenti
climatici oltre gli slogan delle annuali conferenze sul clima; sostegno per l’autodeterminazione dei
popoli, soprattutto delle donne che devono poter decidere delle proprie vite; ripresa dal basso dei
propri territori contro la loro militarizzazione, e lì dove questa sia già avvenuta per una bonifica e
un recupero sociale di essi; riappropriazione della decisionalità dal basso contro una gestione
autoritaria e antidemocratica degli interventi in zone di guerra.
L’istruzione è un diritto umano! A chiunque desideri imparare deve esserne data la possibilità. Per
questo le nostre istituzioni educative devono essere aperte a chiunque stia fuggendo da situazioni di
conflitto, terrore, carestia e violazione dei diritti umani.
Dobbiamo cooperare a livello globale per rafforzare la comunità universitaria. Dobbiamo fare
appello alla solidarietà ed è nostra responsabilità accogliere coloro che sono stati obbligati a fuggire
dalle loro case e dare loro l’opportunità di vivere degnamente, ma anche di sostenere la costruzione
di condizioni di pace nei loro paesi di provenienza per permettere loro di tornare in un luogo sicuro,
qualora intendessero farlo in futuro, e di condannare qualsiasi attacco razzista, fomentato da chi
sfrutta la paura per alimentare odio e consenso elettorale.
Gli studenti sono una risorsa importante per la ricostruzione dei paesi e delle società che si trovano
ora in situazioni di conflitto. Riteniamo che l’educazione debba essere considerato lo strumento
principale contro la chiusura mentale che porta alla discriminazione razzista.
Recuperiamo dunque il valore dell’istruzione e riapriamo i luoghi della formazione a tutte e tutti,
compresi i migranti, affinché da qui parta un cambiamento reale e concreto, che sia in grado di
ridare viva voce ai movimenti pacifisti e nonviolenti, riuscendo ad immaginare un nuovo modello di
sviluppo, un nuovo modello economico e di società che ribalti i rapporti di forza e abbandoni
definitivamente le armi.
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