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Noi Siamo Chiesa

Sezione italiana del movimento internazionale “We Are Church” per la riforma della Chiesa cattolica

La segreteria di Stato censura la Civiltà Cattolica su Galileo

Censurato il gesuita che difende la scienza  di Riccardo Chiaberge 

Si riapre il caso Galileo, la Chiesa ci ripensa. Vent’anni dopo le scuse di Wojtyla, “La civiltà cattolica” rifiuta un articolo di padre Ennio Brovedani. Ordini del Vaticano?

Eppur si muove. Sì, ma all’indietro, come i gamberi. Sulle scuse a Galileo la Chiesa ci ripensa, e vent’anni dopo la storica svolta di Wojtyla (31 ottobre 1992) nel mondo cattolico tornano ad affiorare malumori e contrasti. L’organo dei gesuiti “La Civiltà Cattolica” ha respinto un articolo sull’argomento di padre Ennio Brovedani, che dello scienziato pisano è appassionato studioso e che nel maggio del 2009 promosse un memorabile convegno a Firenze con i massimi esperti mondiali, atei e credenti, alla presenza di Giorgio Napolitano. Ordinaria amministrazione, si dirà. La censura, nel clero e nei suoi organi di stampa, è cosa di tutti i giorni. Ma il caso Brovedani fa più scalpore del solito, per il tema e la statura del personaggio.

E poi ogni pagina di “Civiltà Cattolica” è sottoposta al vaglio preventivo della Segreteria di Stato, sicché dietro la bocciatura qualcuno intravede la manina del Cardinal Bertone. A quanto pare, insomma, il Vaticano che benedice il tecnico Monti (già studente modello di un liceo dei gesuiti) non ha ancora digerito, dopo ben quattro secoli, il tecnico Galileo. Ma ecco i fatti. Nell’aprile scorso escono gli atti del Convegno fiorentino (editi da Olschki) e “Civiltà Cattolica” invita padre Ennio, presidente della Fondazione Stensen e animatore dell’iniziativa, a scrivere un saggio che riassuma i risultati salienti di quei cinque giorni di discussione. Lui ci lavora a lungo, e per essere tranquillo manda il testo in lettura ad alcuni dei partecipanti, tra cui il filosofo superlaico Paolo Rossi Monti (che ci ha lasciati, a ottantotto anni, il 14 gennaio), e tutti apprezzano l’equilibrio della sua sintesi. Confortato da questi pareri, Brovedani manda il pezzo alla rivista dei gesuiti, ma – sorpresa! – nel rivedere le bozze ci trova dei tagli che non gli sembrano casuali, o dovuti a pure ragioni di spazio.

Salta per esempio un passo sul significato attuale della condanna di Galileo nel quadro dei rapporti Stato-Chiesa, che ribadiva « il rispetto dovuto alla libertà di coscienza e all’autonomia e responsabilità personali, che dal punto di vista antropologico e teologico, rappresentano la manifestazione più alta della dignità e creaturalità umane ». La libertà di coscienza più importante della Verità di cui il papa si proclama unico custode? Zac! Lo storico Alberto Melloni, alla luce del Concilio, metteva in guardia dal rischio che « la mentalità che aveva presieduto all’errore del 1633 si riproponesse su temi nuovi » come la contraccezione? Zac. Una bella sfoltita anche al discorso di padre Coyne, ex-direttore dell’Osservatorio vaticano, che si soffermava un po ’ troppo sulle liti tra i membri della commissione di studio istituita da Giovanni Paolo II e presieduta dal Cardinale Poupard (quello, per intenderci, che avrebbe poi celebrato le nozze Briatore-Gregoraci, alla presenza di Berlusconi): non per niente i lavori durano undici anni, e il documento finale è zeppo di reticenze e di omissioni.

Il fatto che le conclusioni vengano affidate a un discorso solenne del Papa, nota il sacerdote-astronomo, genera « profondi contrasti e perplessità » all’interno della Commissione. Zac. Più avanti, citando ancora Coyne, Brovedani scrive che « l’ammonizione del Card. Bellarmino avrebbe giocato un ruolo chiave nella condanna di Galileo nel 1633. Quali sarebbero state – si chiede – le conseguenze se, in questo caso, invece di esercitare la sua autorità la Chiesa avesse sospeso il giudizio?». Che domande. Ri-zac! Le forbici dei gesuiti non risparmiano neppure il paragrafo finale sui modi per prevenire nuovi “casi Galileo”: sparisce il cenno alla « crescente interculturalità e interreligiosità » della civiltà contemporanea, termini espunti dal dizionario ratzingeriano. Già così, erano censure pesanti. Ma da buon servitore di Cristo, padre Ennio si era ormai rassegnato a inghiottirle, quando qualcuno dalla redazione lo allertò che la faccenda non finiva lì, e che ulteriori modifiche e tagli sarebbero stati richiesti dalla Segreteria di Stato. Beh, questo è troppo, protesta Brovedani.

Cosa diranno quelli che hanno letto e approvato il testo originale? E poi, che c’è di male nel mio articolo, peraltro sollecitato da voi? Errori dottrinali? Espressioni offensive verso la Chiesa o il Papa? Niente di tutto questo. E il Convegno non era stato salutato come un’anticipazione del “Cortile dei Gentili”, lo spazio comune tra atei e credenti voluto dal Cardinale Ravasi? Fiato sprecato. I guardiani della “Civiltà Cattolica” non si lasciano commuovere. Confabulano a lungo e alla fine decidono che, onde evitare incidenti, è meglio soprassedere. Quell’articolo non uscirà mai. E dire che il nuovo direttore della rivista dei gesuiti, il 45 enne Antonio Spadaro, insediato da pochi mesi, ha fama di innovatore. Un cyber-teologo onnipresente sul Web, con blog su Flannery O’Connor e la rivista online “Bombacarta”. « Il cristiano – sostiene – è chiamato a compiere un’opera di mediazione tra il Logos e la cultura digitale ».

Evidentemente, ci sono mediazioni che non riescono neanche a lui. La verità è che per la Chiesa di Ratzinger il caso Galileo non è affatto chiuso. Sarebbe troppo comodo relegarlo in un lontano passato, “contestualizzarlo” nel quadro di un’epoca di conflitti religiosi esasperati, come se non avesse più nulla da insegnarci. Il rischio dello scontro scienza-religione è sempre in agguato, specialmente con gli sviluppi vertiginosi delle tecnologie biomediche, l’ingegneria genetica, la ricerca sulle staminali, la fecondazione assistita, che vanno a intaccare i capisaldi della filosofia naturale cattolica.

E mentre il biologo miscredente (e grafomane) Edoardo Boncinelli ci spiega che La scienza non ha bisogno di Dio (Rizzoli, quattro miliardi di anni di evoluzione in 164 pagine) e nessuno lo censura, uomini di fede come padre Brovedani si sforzano di conciliare il Vangelo con la libertà di ricerca. E per questo vengono ridotti al silenzio. Proprio ieri, intervenendo al convegno della Cei su “Gesù nostro contemporaneo” presso l’Università della Confindustria a Roma, l’arcivescovo di Milano Angelo Scola ha detto che « ogni censura fatta alla storia è condannata a fallire, proprio perché è una sorta di attentato oggettivo contro la libertà ». Perfetto, eminenza. Provi a dirlo al suo collega Bertone.

Saturno (inserto del Fatto quotidiano), 10 febbraio 2012

Il “caso Galileo” dopo 400 anni

P. Ennio BROVEDANI sj

(l’articolo, della primavera 2011, non è mai stato pubblicato dalla “Civiltà Cattolica)

[Evidenziati in neretto i tagli operati dalla redazione di Civiltà Cattolica; altri tagli, incluso possibili modifiche, avrebbero potuto essere operati dalla Segreteria di Stato]

L’evento culturale forse più atteso e singolare che ha caratterizzato le celebrazioni dell’Anno Internazionale dell’Astronomia, indetto per il 2009 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e diversamente commemorato nel mondo intero, è stato il Convegno Internazionale di Studi – Il “Caso Galileo”, una rilettura storica, filosofica e teologica, che si è svolto a Firenze dal 26 al 30 maggio 2009 e a cui hanno partecipato i massimi esperti mondiali. I relativi Atti sono stati pubblicati nell’aprile scorso dall’Editore Leo S. Olschki di Firenze (1). Nel 2009, infatti, ricorreva l’anniversario (1609) dell’utilizzazione astronomica da parte di Galileo Galilei (1564 -1642) del cannocchiale, – per la prima volta se ne serviva per osservare il cielo – con la scoperta dell’esistenza di nuovi fenomeni e corpi celesti, che contribuirono all’affermazione di una nuova concezione dell’universo e alla dissoluzione di quella aristotelica – tolemaica. Le ricerche e le scoperte di Galileo, come è ormai ampiamente documentato, suscitarono accesi dibattiti e contrastanti conflitti istituzionali, che approdarono nel 1616 alla condanna della teoria di Niccolò Copernico (1473-1543) e il 22 giugno 1633 al processo a Galileo, condannato dal Tribunale dell’Inquisizione come «veementemente sospetto di eresia, cioè d’aver tenuto e creduto dottrina falsa e contraria alle Sacre e divine Scritture». Una teoria scientifica, in altri termini, veniva giudicata “erronea nella fede”: una condanna difficilmente comprensibile per noi oggi, educati a distinguere diversi “ordini di conoscenza”, per loro natura e metodo non sovrapponibili. Tutti sappiamo però quanto questa condanna abbia storicamente pesato nel delicato rapporto tra ragione e fede, scienza e teologia, ricerca tecno-scientifica e Magistero ecclesiastico, nonostante le sincere e accorate parole pronunciate da Giovanni Paolo II, il 10 novembre 1979 (“ebbe molto da soffrire – non possiamo nasconderlo – da parte di uomini e organismi della Chiesa”) e la richiesta di perdono, il 12 marzo 2000, “per l’uso della violenza che alcuni cristiani hanno fatto nel servizio della verità”. Benché numerosi progressi siano stati compiuti in questi ultimi decenni nella corretta contestualizzazione e interpretazione storica del problema e delle sue diverse implicazioni, la “vicenda galileiana”, come spesso viene designata, si è trascinata, con toni alterni, per circa quattro secoli, assumendo a volte la valenza di una costitutiva inconciliabilità tra ricerca scientifica e esperienza religiosa. Essa ha generato disagio e profonde lacerazioni in molte coscienze.

La proclamazione del 2009 quale Anno Internazionale dell’Astronomia, da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, diveniva così un’occasione non solo propizia, ma anche opportuna per un riesame del “Caso Galileo” alla luce delle più recenti ricerche storiche, filosofiche e teologiche condotte in proposito: un Convegno Internazionale che richiamasse i massimi esperti del campo. L’idea e il relativo progetto, proposto dalla Fondazione Niels Stensen dei padri Gesuiti di Firenze, ha ottenuto l’adesione e la partecipazione di ben 19 istituzioni nazionali e internazionali, dal Pontificio Consiglio della Cultura all’Accademia dei Lincei, dalla Pontificia Accademia delle Scienze e dalla Specola Vaticana alle Università di Firenze, Padova e Pisa e a numerose altre prestigiose Istituzioni, storicamente coinvolte, in maniera diretta o indiretta, nella “vicenda galileiana”. Per la prima volta dopo 400 anni esse si sono trovate insieme e hanno costituito il Comitato Istituzionale del Convegno (2).  

1. Gli obiettivi del Convegno

Il Convegno, secondo l’intento del Comitato Promotore, si è proposto una «rilettura» del «caso Galileo» in chiave storica, filosofica e teologica, con l’obiettivo di far innanzitutto dialogare le principali istituzioni scientifiche, culturali e religiose storicamente coinvolte ed espressione di quei sistemi di pensiero che, nel corso di quattro secoli, hanno generato e, in parte, alimentato il «caso Galileo». La vicenda galileiana in quanto tale, per l’insieme dei conflitti che ha suscitato è rimasta per lo più contestuale. Non sono neppure emerse nuove o significative evidenze documentarie in grado di gettare ulteriore luce sui fatti processuali del 1616 e del 1633 – evidenze di cui non vi è neppure necessità, come più volte è stato ribadito, se non nel senso di una più precisa ricognizione del quadro interpretativo. Tra i diversi meriti del Convegno, infatti, vi è indubbiamente quello di aver fatto il punto sulla fitta trama di relazioni scientifiche, teologiche e filosofiche che ha fatto da sfondo all’attività di Galileo prima e dopo la condanna, individuando così un quadro interpretativo di grande complessità e irriducibile a facili schematismi, spesso espressione di luoghi comuni o di interpretazioni apologetiche.

Come ha sottolineato il prof. Paolo Rossi nella sua lectio magistralis inaugurale, non ci si poteva attendere dal Convegno alcun giudizio storico definitivo sulla “vicenda galileiana”, che difatti non c’è stato, e tanto meno una “svolta storica”, anche se nel mondo degli studiosi è a volte possibile “giungere a conclusioni comuni, indipendenti dai presupposti filosofici e religiosi”. La storia però non è un tribunale con il compito di “distribuire i torti e le ragioni” o di “stabilire il modo corretto di ricordare e definire un determinato evento storico”. L’idea di una separazione chiara e definitiva tra la realtà oggettiva e indiscutibile dei fatti e il carattere soggettivo e discutibile delle loro interpretazioni “appartiene ad una cultura che è diversa da quella che caratterizza la grande maggioranza degli storici di professione”. A prescindere, infatti, dal più che lodevole proposito di una serena ridiscussione del “caso Galileo”, il rischio di una riflessione “guidata da finalità non disinteressate” è sempre possibile.

Lo scopo del Convegno, pertanto, non era quello di giungere a un giudizio finale attraverso il confronto, per quanto aggiornato, delle diverse posizioni ideologiche implicate o delle interpretazioni iperspecialistiche dei cosiddetti “galileologi”. Il Convegno è stato fondamentalmente “scientifico”, ossia, “un’occasione di confronto e di discussione tra studiosi che non la pensano tutti allo stesso modo, che provengono da studi diversi e che hanno una formazione culturale diversa”. Un aggiornamento e una discussione sulle “mille sfaccettature” della “vicenda galileiana”, sulle domande e sui “tanti significati che quella condanna ha avuto nella cultura e nella società europea sia in età moderna che in età contemporanea”, in relazione anche ai futuri assetti politico istituzionali nazionali (rapporto Stato e Chiese) e internazionali (l’etica e la politica della ricerca e sperimentazione tecno-scientifiche). I valori in gioco, infatti, – come è stato sottolineato soprattutto nel dibattito finale, – non sono dell’ordine della “non-negoziabilità”, secondo un’impropria espressione spesso diffusa in certi “mass-media”, ma, a differenza dei valori economici soggiacenti alle relazioni contrattuali e per ciò stesso “negoziabili”, essi sono di natura etico-morale e, in quanto tali, evocano la proiezione ideale di un “dover essere” proposto e mai imposto, in ragione del rispetto dovuto alla libertà di coscienza e all’autonomia e responsabilità personali, che, – è bene ribadirlo – dal punto di vista antropologico e teologico, rappresentano la manifestazione più alta della dignità e creaturalità umane.  

2. I processi del 1616 e del 1633

Le sessioni della prima giornata, dedicate all’analisi dei due processi a Galileo nel 1616 e nel 1633, hanno ricevuto contributi molto interessanti, relativamente all’allargamento delle nostre conoscenze sul contesto, sui protagonisti che sono intervenuti, non solo quelli diretti e principali, ma anche quelli che compaiono sullo sfondo, e di cui si può immaginare che siano o testimoni o protagonisti di aspetti tutt’altro che marginali. L’affinamento di alcune tesi interpretative ha consentito, per esempio, una ricognizione più precisa del significato generale di alcune affermazioni di Galileo nelle famose Lettere copernicane (1613-1615), ossia, le celebri lettere al padre Castelli, a monsignor Dini e alla Granduchessa Cristina di Lorena sui principi generali della relazione tra esegesi biblica e teorie scientifiche; in particolare, un’analisi molto più approfondita e in certi casi chiarificatrice del significato che in quei testi assume il rapporto tra Natura e Sacra Scrittura, il gran Libro della Natura e i Libri sacri.

Solo per citare alcuni contributi particolarmente significativi, molto illuminante in proposito è la relazione “Natura e Scrittura” di Pietro Redondi, che nell’analisi della lettera alla Granduchessa Cristina mette in evidenza come, per Galileo, tra natura e Rivelazione sussistesse un riferimento comune all’unica verità, manifestata da entrambe. Redondi rileva inoltre come l’autore del Sidereus Nuncius (1611) – l’opera in cui Galileo annunziò al mondo le sue strabilianti scoperte, in seguito all’utilizzo del cannocchiale (il cannone-occhiale) nell’osservazione della volta stellata – si fosse mosso su più fronti «critici» per evidenziare tale consonanza o “concordismo” (un’interpretazione della scrittura rivolta a stabilire una corrispondenza positiva con le scienze naturali): non solo affrontando la portata dirompente delle nuove scoperte astronomiche, ma prendendo in considerazione anche le riflessioni sulla consistenza ultima della materia, che Galileo, com’è noto, riteneva composta da atomi. Galileo, infatti, “riporta in auge l’atomismo” con una concisa dichiarazione epistemologica appuntata tra le carte di un trattato di idrodinamica archimedea. “Rileggere Galileo lungo la frontiera tra la fede e la scienza, annota Redondi, è un banco di prova che impone di dimenticare il criterio di demarcazione tra scienza e non scienza che si è da tempo codificato”.

Un altro aspetto, tanto controverso quanto fondamentale, lungamente dibattuto nell’ambito e nel contesto della “vicenda galileiana”, riguarda la natura e l’interpretazione del linguaggio della Scrittura, in relazione a evidenti o apparenti contraddizioni o inconciliabilità con il “Libro della Natura”. Il prof. Michele Camerota, nella relazione “Galileo e la accomodatio copernicana” analizza accuratamente la questione dell’opportuno “aggiustamento” (accomodamento) del linguaggio delle Scritture, allo scopo di favorire la “comprensione degli incolti. Questa regola ermeneutica (il principio dell’accomodamento), non costituiva una novità all’epoca, ma ha una lunga storia. Essa “svolse un ruolo fondamentale nell’ambito del dibattito sulla cosmologia copernicana” e venne, infatti, “largamente invocata dai sostenitori della teoria eliocentrica quale valida difesa contro le denunce del dissidio sussistente tra il nuovo sistema del mondo e molti luoghi del testo biblico”. Secondo Camerota, fatto salvo il presupposto della ‘‘inerranza’’ dei sacri testi, Galileo elabora in maniera del tutto peculiare l’idea di “accomodatio” portata avanti dai copernicani, citando ampiamente il De Genesi ad litteram (La Genesi alla lettera) di S. Agostino (354-430): “lo Spirito Santo, non intendeva insegnare agli uomini la costituzione intima  

delle cose […] la quale del resto non aveva alcuna utilità per la salvezza”. Non sono pochi, infatti, “i luoghi della Scrittura che, presi alla lettera, contengono assurdità o si trovano in radicale contrasto con verità scientifiche accertate”. In questo modo Galileo si collocava all’interno di una precisa corrente esegetica, che assumeva il ‘‘principio dell’accomodamento’’ come un “correttivo delle insufficienze proprie dell’opzione letteralistica”. Galileo, tuttavia, richiama con insistenza i connotati differenziali dei codici espressivi della Scrittura e della Natura, cioè dei due diversi modi di ‘‘procedere’’ del Verbo divino. Proprio questo aspetto – più epistemologico che esegetico – “rende significativamente peculiare l’accomodatio galileiana, e la distingue da quella degli altri autori copernicani, qualificandola come un contributo originale e di grande impatto teorico”. Laddove la conoscenza naturalistica si qualifica come ‘‘irrevocabile’’, tale cioè, da non poter esser (etimologicamente) ‘‘richiamata’’ o piegata ad altri sensi, “il dettato biblico – in forza della densità espressiva propria di ogni linguaggio di parola – è passibile di aggiustamenti di significato, cioè soggetto ad interpretazione”. A differenza di ciò che si è scritto più volte negli ultimi anni, “l’accomodatio” galileiana, conclude Camerota, “tende a qualificarsi più come il portato di un’assunzione di tipo epistemologico, che come l’esito di un’opzione ermeneutica”. Risulta pertanto inadeguato, se non proprio un errore storiografico, qualificare Galileo come “esegeta avvertito e sensibile”, precursore dell’esegesi contemporanea.

In “Teologie e Copernicanesimo”, il prof. Paolo Ponzio affronta il problema del rapporto delle nuove scoperte astronomiche con la Rivelazione biblica e, quindi, con la riflessione teologica, attraverso l’analisi della posizione di “tre autori che in misura differente costituiscono altrettanti punti di riferimento nell’intera vicenda galileiana”: il card. Roberto Bellarmino, il carmelitano Paolo Antonio Foscarini e il domenicano Tommaso Campanella. Il quadro che ne emerge, in relazione all’allargamento delle nostre conoscenze sul contesto dei due processi, è quanto mai sorprendente, in quanto il pensiero teologico del tempo non risulta affatto essere così monolitico, come si potrebbe ingenuamente pensare, e “del tutto avverso alle novità introdotte dalle scoperte astronomiche galileiane”. Mentre il Bellarmino, nella valutazione dell’impatto delle scoperte astronomiche sull’esegesi scritturistica assume una serie di posizioni “volte a salvaguardare alcuni aspetti specifici della teologia cattolica post-tridentina” (la questione decisiva della verità delle affermazioni bibliche non proviene dalla funzione che esse hanno all’interno del progetto salvifico divino, ma dalla semplice appartenenza al dato scritturistico), Campanella si affretta a spiegare che “sono due i codici attraverso cui Dio si è rivelato”, quello della Natura e quello della Scrittura, e che “occorrerà comprendere quali siano per entrambi i criteri interpretativi”; anche se poi – in linea con i decreti del Concilio e con la teologia post-tridentina – richiama l’attenzione “a non interpretare allegoricamente quei passi della Scrittura che possono essere spiegati attraverso il solo senso letterale”, suggerendo una scala gerarchica, che ha nell’interpretazione letterale il suo punto di partenza. Foscarini, invece, “è pienamente convinto della superiorità conoscitiva delle Scritture” e dell’inadeguatezza dei mezzi umani “nell’intendere compiutamente il dettato scritturistico”. Nei casi di conflitto interpretativo, “è più certa la cognitione, che si ha per fede”.

Purtroppo, sottolinea Ponzio, nonostante la ricchezza di contenuti e la varietà di prospettive in continua evoluzione e ampiamente documentate, “tutta la vicenda sviluppatasi attorno alle scoperte galileiane ha subito una piega ben precisa che avrà il suo triste epilogo prima con il decreto di condanna del 1616 e, poi, con l’abiura di Galileo nel 1633”. Al centro dell’intera “vicenda galileiana”, pertanto, riscontriamo il “mancato dialogo tra metodologia scientifica e teologica”: da una parte la scienza  

galileiana, che non ha avvertito l’esigenza di distinguere l’approccio scientifico alle questioni naturali dalla riflessione teologica sulla natura, partendo dal presupposto che “le due strade con cui si conosce il reale non possono mai contraddirsi, sebbene procedano secondo modalità differenti”; dall’altra, la scienza teologica post-tridentina che, pur ispirata da una maggiore cautela epistemologica, “è caduta nel medesimo equivoco, ritenendo che vi fosse una sostanziale identità tra la struttura della realtà e quanto espresso nella Scrittura a tal proposito”. Non si è trattato, dunque, – conclude Ponzio – “di un’opposizione tra scienza e fede”, ma di una problema metodologico, ossia, “del mancato riconoscimento di una diversità di metodi che permettessero una inesorabile revisione dell’intero sistema del sapere all’interno di un lento mutare del paradigma scientifico della modernità”.

3. La nascita e lo sviluppo del “mito” Galileo

La “vicenda galileiana” non si esaurisce nell’analisi dei due processi a Galileo del 1616 e del 1633 e nella valutazione dei molteplici problemi e quesiti scientifici, filosofici, teologici e giuridici ancora in sospeso, oppure che emergono o si ripropongono nel corso del progredire delle ricerche storiografiche, con l’apporto di documentazione inedita. Un secondo aspetto, altrettanto importante, ai fini di una valutazione storica delle ricadute sociali della “vicenda galileiana”, del suo impatto sulla cultura e le relazioni politico-istituzionali, a prescindere anche dalle questioni più specificamente scientifiche e teologiche, riguarda la genesi e lo sviluppo del “caso Galileo” a seguito della condanna, ossia, la complessa e ancora largamente inesplorata dinamica che segna la nascita, la formazione, l’addensamento e infine il tramonto di una serie numerosa di “miti” di Galileo, manifestatisi fin dal tempo del processo e assurti a vessillo ora dell’una ora dell’altra istanza, soprattutto in Italia, ma anche in Europa. La fortuna del “mito” Galileo, fino ai giorni nostri, costituisce il nucleo tematico principale del Convegno (due giornate su tre), perché, ancora più del fatto della condanna, spesso è risultata importante la connotazione, che le si è attribuita, di momento decisivo, ossia, di spartiacque della storia culturale del nostro Paese.

Sulla genesi e lo sviluppo del cosiddetto “mito” Galileo, il Convegno ha apportato contributi veramente originali, spesso fondati su inediti documenti finemente analizzati e sullo sviluppo di una serie di novità interpretative che nei prossimi anni segneranno sicuramente l’avvio di una proficua stagione di ricerca. Ne consegue una migliore conoscenza della dinamica dell’utilizzazione mitica, iconica e simbolica di Galileo, che puntualmente rispecchia l’evoluzione del dibattito culturale e civile, con al centro non solo la questione dei rapporti tra scienza e teologia, Chiesa e Istituzioni, ma anche la libertà di pensiero e l’autonomia della ricerca, attraverso l’intera storia dell’età moderna in Italia e nell’intero continente europeo. Così, dalla prima formulazione di un “mito” di Galileo sinceramente pentito dei propri errori e cristianamente redento dall’abiura, – operazione dei discepoli di Galileo per chiudere quel caso e ritagliarsi uno spazio di ricerca dopo la condanna (cfr. Franco Motta, “Il caso Galileo nell’Italia del 600”) – assistiamo ad una loro molteplice riproduzione, con radicali caratteri distintivi e contrapposizioni di immagini: l’immagine dell’eroe o del martire della fede, che viene confrontata con quella del temerario e aggressivo sostenitore di teorie non dimostrate o del sonnambulo, illusoriamente avveduto, che si muove nelle profonde tenebre della conoscenza; il fondatore del metodo sperimentale, contrapposto all’immagine dello scienziato che fraintende gli elementi  

essenziali del vero metodo della scienza e ne equivoca la natura e i fini; il coraggioso difensore della libertà di ricerca, contrapposta all’immagine dell’eversore che vuole proditoriamente sbarazzarsi delle tradizioni più consolidate e accreditate.

Anche l’età Barocca, quella dei Lumi, il Risorgimento, la Restaurazione, il Positivismo, l’Idealismo, vari movimenti politici come il Marxismo, o movimenti intellettuali come la fenomenologia trascendentale, movimenti associativi e politici, come la Massoneria, il Fascismo, il Nazismo hanno ognuno fabbricato un’immagine mitica, speculare e a loro modo conveniente del volto e del contributo di Galileo, non solo scientifica, ma spesso “ideologica”, e, in quanto tale, non del tutto disinteressata. Si può insomma sostenere e adeguatamente documentare l’esistenza di una cronologia e di una relativa geografia dei miti di Galileo, che illumina importanti fasi, non solo della cultura, ma anche della storia dell’età moderna. Relativamente a questi aspetti, il Convegno ha offerto una serie di arricchimenti documentari e interpretativi ai quali va conferito un grandissimo valore, stimolo a ulteriori ricerche (3).

Nella ricognizione e valutazione storico-sociologica del “mito” di Galileo assumono ovviamente un ruolo centrale le tensioni tra la scienza e la teologia, le diverse motivazioni e i propositi civili, i posizionamenti filosofici e epistemologici, le riflessioni sui fini e sulla natura della scienza e dell’uomo e molti altri fattori e problemi non solo teorici. E in quest’ampio orizzonte, si osserva l’uso e il ricorso a linguaggi e simboli diversi, non solo testi, pamphlet o trattati, ma anche la costruzione di monumenti statuari celebrativi, l’intensa produzione di opere grafiche e pittoriche che veicolano una pluralità di idee e possibili interpretazioni (4).

4. I dibattiti all’interno della Chiesa Cattolica

Nello sviluppo della “vicenda galileiana”, infine, in particolare nel corso della tarda età moderna e fino ai nostri giorni, un ruolo importante hanno avuto le discussioni e i vivaci dibattiti all’interno della Chiesa cattolica e di altre confessioni cristiane, non solo sulla genesi storica, il contesto e le implicazioni filosofiche e teologiche del “caso Galileo”, ma anche e soprattutto sul modo in cui sono stati affrontati i due processi del 1616 e del 1633, i problemi e i quesiti emersi in seguito al proseguire delle ricerche storiografiche e teologiche, al reperimento di documentazione inedita e al conseguente e frequente riproporsi del “caso Galileo” nelle epoche successive, in relazione agli sviluppi delle conoscenze scientifiche e astronomiche. Nelle ultime due sessioni del Convegno, diversi contributi hanno evidenziato questa presenza di posizioni non del tutto convergenti e a volte anche irriducibilmente contrastanti all’interno della stessa Chiesa, tra i sostenitori dell’opportunità di un adeguamento del Magistero ecclesiastico agli esiti delle nuove ricerche, per favorire e promuovere la cultura moderna, – in particolare il dialogo tra scienza e teologia – e coloro che, invece, ritenevano necessaria una strenua difesa della Tradizione e in particolare del principio dell’inerranza magisteriale.

Il prof. Francesco Beretta, in “L’affaire Settele (1820-1835): fine della controversia?”, sulla base di un abbondante documentazione conservata negli archivi della Congregazione per la Dottrina della Fede, ricostruisce la vivace discussione e il contesto estremamente conflittuale, poco appariscente allora, della vicenda del canonico Giuseppe Settele, professore di astronomia alla Sapienza di Roma, che aveva richiesto l’autorizzazione alla pubblicazione del secondo volume della sua opera “Elementi di ottica e di astronomia”, in cui presentava il sistema copernicano, ossia il moto della terra, come un fatto e non più come un’ipotesi astronomica. Fin dagli inizi  

del XVIII secolo, infatti, la comunità scientifica cominciava a considerare il movimento della terra un fatto reale e non più teorico-ipotetico. Si poneva allora il problema di come situarsi rispetto alla proscrizione dell’eliocentrismo, da parte di Paolo V nel 1616, ritenuto “dottrina falsa e contraria alle Sacre e divine Scritture”, e alla successiva condanna di Galileo, costretto ad abiurare la dottrina copernicana, pronunciata da Urbano VIII nel 1633. Il rifiuto da parte del Maestro del Sacro Palazzo Filippo Anfossi di consentire la pubblicazione dell’opera di Settele, poiché sosteneva il moto della terra, e la sua successiva pubblicazione nel 1822, a condizione di sottolineare alcune incongruenze e errori nelle prime osservazioni del sistema copernicano, tali da giustificarne la censura, suscitò un ampio e vivace dibattito all’interno della Chiesa nella Roma della Restaurazione.

Beretta analizza vari aspetti di questo controverso dibattito, come pure le reazioni conseguenti alla derubricazione dall’Indice (Index librorum prohibitorum), – in seguito alla revisione del medesimo, sotto il pontificato di Gregorio XVI, – del Dialogo di Galileo e di tutte le altre opere che trattavano del movimento della terra, senza fornire alcuna spiegazione e nominativamente presenti nell’edizione del 1758. Il nuovo catalogo uscirà nel 1835 “senza che le opere di Copernico, Foscarini, Galileo e Keplero siano menzionate”. Anche in questo caso è documentabile un vivace dibattito interno tra Maurizio Benedetto Olivieri, professore di Antico Testamento alla Sapienza di Roma, il consultore Mauro Cappellari, – futuro Gregorio XVI – e il Maestro del Sacro Palazzo Filippo Anfossi. Si assiste a un confronto tra due domenicani, dotati di formazione e strumenti di ricerca molto differenti: l’Anfiossi, più vecchio di vent’anni, con una formazione scolastica classica, e l’Olivieri, che conosce molto bene i problemi sollevati dall’esegesi e si interessa alla storia della Chiesa. Beretta conclude la sua dettagliata analisi sostenendo che i vari decreti del Sant’Uffizio del 1820-1822 e la revisione dell’Indice non segnano de jure o de facto una revisione della condanna d’eresia, ma semmai, “l’inizio di una controversia che si amplificherà nel XIX secolo e che permane ancora oggi attuale”.

Tutt’altro che convergenti, per rivenire alla nostra epoca, erano anche le discussioni all’interno del Concilio Vaticano II (1962-1965), come documentano i verbali relativi all’elaborazione e approvazione delle diverse costituzioni e decreti conciliari. Il prof. Alberto Melloni, nella relazione “Galileo al Vaticano II – Storia d’una citazione e della sua ombra”, mostra come fosse presente tra i cardinali la preoccupazione di scongiurare un nuovo “caso Galileo” e nota come i padri conciliari avessero a più riprese chiesto di ritornare sulla sua condanna, che in quegli anni da più parti era stata rievocata in seguito alla riabilitazione della figura di mons. Pio Paschini, che aveva dedicato a Galileo una biografia, condannata dal Sant’Uffizio nel 1944 e pubblicata poi postuma, nel 1964, due anni dopo la sua morte, e sottoposta a una “revisione” non del tutto innocente, ma, a parere di alcuni storici, “pesantemente ideologica”. Pio Paschini scrisse la sua “Vita di Galileo” su sollecitazione prima di mons. Angelo Mercati e poi di p. Agostino Gemelli, in occasione del terzo centenario della morte di Galileo nel 1942, da una parte per “mettere finalmente in buon ordine un dossier documentario” sul “caso Galileo” piuttosto intricato e controverso e, dall’altra, per “celebrare la necessaria ‘armonia’ fra fede e scienza”, tema tanto caro al fondatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, P. Gemelli. Melloni osserva, però, che per i vescovi e per i teologi del Vaticano II “il nome di Galileo è evocativo di un danno notorio, dentro e fuori la chiesa” e che la “vicenda Galileiana” costituisce semmai “un paradigma legato alla vita della chiesa, più che ad una considerazione astratta dei rapporti fede-scienza”, almeno fino all’inizio del 1964. 8

Secondo la dettagliata ricognizione documentale operata da Melloni, il tema di Galileo al concilio Vaticano II è stato “più evaso che studiato”, con la conseguenza di ridurlo a un “esito testuale”, ossia a una breve “frase della Costituzione Pastorale sulla Chiesa nel Mondo Contemporaneo, Gaudium et spes”, con una minuscola nota che rinvia alla “Vita di Galileo” di Pio Paschini. Melloni traccia la tormentata storia di quest’”esito”, ossia di questo sorprendente “passaggio dalla più volte invocata riabilitazione, alla menzione, e, infine, alla riduzione a nota” che, nel suo intricato e spesso confuso dipanarsi, – nel corso del sofferto e polemico dibattito che ha portato all’approvazione della Costituzione Gaudium et spes, – “consente a ciascuno di leggervi ciò che crede”: da un risarcimento dovuto a Galileo, a una onorificenza conferita alla biografia di mons. Paschini; da una beffa atroce inflitta agli uomini delle condanne, a “un assurdità che sostiene l’autonomia della ricerca citando un libro postumo e manipolato dal censore”. Una pluralità di interpretazioni, in altri termini, che Giovanni Paolo II, membro della commissione che nel 1965 redasse quel contestato paragrafo, “ha interpretato accrescitivamente prima con i famosi atti che originano la Commissione Poupard, poi soprattutto nel mea culpa quaresimale del grande giubileo del 2000, facendo capire ciò che al Concilio interessava e di cui quella nota 7 al n. 36 di Gaudium et spes era solo una spia che allora come oggi lampeggia solo per chi la vuol vedere”.

Anche Melloni contesta – a premessa della sua analisi – la “tribunalizzazione della storia’’, ossia la pretesa di giudicare i fatti del 1616 e del 1633 “a partire da una progressiva acquisizione critica delle carte del processo inquisitoriale”. La storia del “caso Galileo” si presta, infatti, “a produrre compensazioni, autoindulgenze e, anche in momenti vicini a noi, autoassoluzioni plateali, come quella secondo la quale Galileo aveva ragione sull’esegesi, mentre l’inquisizione aveva ragione sul nodo della prova scientifica”. Per i padri del Vaticano II, invece, la “vicenda galileiana” diventa, simbolicamente e paradossalmente, un “cannocchiale” con il quale scrutare l’abuso, “l’impianto teologico che lo ha sorretto”, la resistenza a rinnegarlo, il danno che ha causato “non tanto alla reputazione della chiesa, ma alla sua trasparenza evangelica”, il rischio che “la mentalità che aveva presieduto all’errore del 1633 si riproponesse addirittura Concilio durante su temi nuovi (l’esegesi storico-critica, Teilhard de Chardin, la contraccezione, la psicanalisi) e infine “la possibilità di ricavare da quella storia una lezione” sulla natura del rapporto fra “fede e scienza”.

Il 3 luglio 1981, Giovanni Paolo II istituì una Commissione per lo studio dei rapporti intercorsi tra Galileo e la Chiesa nel quadro della controversia tolemaico-copernicana dei secoli XVI-XVII, nota anche come «Commissione Galileo» o “Commissione Poupard”, in quanto a presiederla venne chiamato il Cardinale Paul Poupard, all’epoca presidente del Pontificio Consiglio della Cultura. Fin dal 1979, infatti, intervenendo alla Sessione Plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze, in occasione del centenario della nascita di Albert Einstein, auspicava che “teologi, scienziati e storici, animati da uno spirito di sincera collaborazione, approfondiscano l’esame del caso Galileo e, nel leale riconoscimento dei torti, da qualunque parte questi provengano, rimuovano le diffidenze che quel caso tuttora frappone, nella mente di molti, alla fruttuosa concordia tra scienza e fede, tra Chiesa e mondo”. La Commissione, pertanto, si proponeva un riesame e un approfondimento dell’intera “vicenda galileiana”, nella corretta contestualizzazione storica dei fatti e dei relativi documenti, in conformità con la cultura dell’epoca e “nel leale riconoscimento dei torti”, come auspicava Giovanni Paolo II; non tanto la revisione dei due processi, – di cui non vi era obiettiva necessità, dopo circa quattro secoli di ricerche e analisi storico-documentalistiche, – ma una riflessione possibilmente serena e documentata in  

sintonia con l’attuale congiuntura storico-culturale. I principali esiti del decennale lavoro della Commissione furono presentati dal Cardinale Poupard il 31 ottobre 1992 alla Pontificia Accademia delle Scienze riunita in sessione plenaria, in un’allocuzione che ha preceduto quella del Papa, – più incentrata sull’armonia tra scienza e fede, – in cui si sottolinea “l’errore soggettivo di giudizio” che condusse i giudici di Galileo “ad adottare un provvedimento disciplinare di cui Galileo ebbe molto a soffrire” e il dovere di “riconoscere questi torti con lealtà”, come richiedeva Giovanni Paolo II.

A conclusione dell’ultima sessione del Convegno, il P. George V. Coyne sj, dell’Osservatorio Vaticano, in una relazione valutativa sui metodi e risultati conseguiti dalla Commissione Poupard, di cui era componente per la sezione scientifica ed epistemologica (“Galileo judged: Urban VIII to John Paul II”), sulla base di un recente dettagliato rapporto sui documenti di archivio di Artigas e Sánchez de Toca (Galileo e il Vaticano. Venezia, Marcianum Press, 2009), descrive il travagliato iter della Commissione e, in particolare, come non fosse giunta “a delle nuove ed importanti conclusioni” e funzionasse più “come terreno di incontro e punto di collegamento” tra i responsabili di sezione. Fin dal primissimo incontro, infatti, “i diversi membri della Commissione espressero dei dubbi su quali nuove scoperte potessero essere rivelate e su quale effetto il lavoro della Commissione avrebbe potuto avere sulle relazioni della comunità scientifica con la Chiesa”. La decisione di concludere il lavoro della Commissione con un discorso solenne del Papa, “sembra fosse basata sulla volontà di coinvolgere un pubblico più vasto piuttosto che un gruppo ristretto di studiosi, dato che la Commissione non aveva effettivamente stilato alcuna conclusione”, benché fossero state avanzate diverse proposte sul modo in cui portare a termine il lavoro. Non sono mancati, in proposito, profondi contrasti e perplessità tra i membri della Commissione, in quanto si operava uno spostamento di responsabilità dalla Commissione stessa al Papa.

Quasi a prevenire dei possibili malintesi sul senso della sua analisi, quale doverosa premessa ad ogni ulteriore considerazione sulla storia e gli esiti della Commissione, P. Coyne evidenzia in prima istanza l’abissale e più che secolare contrasto tra quanto affermato da Giovanni Paolo II il 31 ottobre 1992, nella solenne udienza alla Pontificia Accademia delle Scienze, a conclusione dei lavori della Commissione, e quanto, invece, circa 350 anni prima ha affermato Urbano VIII, nel dichiarare che Galileo si era reso colpevole “di un’opinione falsa e erronea che ha scandalizzato l’intero mondo cristiano”. Dal “caso Galileo”, ha sostenuto Giovanni Paolo II, si può trarre una più corretta comprensione dell’autorità propria della Chiesa e, soprattutto, “un insegnamento che resta d’attualità in rapporto ad analoghe situazioni che si presentano oggi e possono presentarsi in futuro”. Il contrasto “tra questi due giudizi ufficiali della Chiesa, separati da circa 350 anni di storia, è enorme”, rileva P. Coyne, e sarebbe banalmente riduttivo designarlo come “riabilitazione”, senza tenere conto delle complesse dinamiche e interessi storici, politici, culturali e istituzionali soggiacenti e conseguimenti alla genesi e successiva evoluzione del “caso Galileo”.

Ma può ancora il “caso Galileo”, interpretato con accuratezza storica, “offrire l’opportunità di arrivare a comprendere la relazione tra la cultura scientifica contemporanea e la cultura ereditata dalla religione?”, si chiede ancora P. Coyne. Tra l’autorità della Chiesa e l’autorità della scienza sussiste infatti un’intrinseca incompatibilità, dovuta al fatto che la prima “deriva dalle Scritture e dalla Tradizione che sono ufficialmente interpretate solo dalla Chiesa”, mentre la seconda “deriva essenzialmente dall’evidenza empirica, che è il criterio definitivo della verità della teoria scientifica”. L’anomalia delle due condanne risiede nel fatto che la Chiesa ha esercitato la sua autorità prima su un’idea scientifica nel 1616 e poi in  

quell’ammonizione data dal card. Bellarmino a Galileo. Quell’ammonizione “avrebbe giocato più tardi un ruolo chiave nella condanna di Galileo nel 1633 come veementemente sospetto di eresia”. Quali sarebbero state le conseguenze se, in questo caso, invece di esercitare la sua autorità la Chiesa avesse sospeso il giudizio?

5. Fine di una “secolare querelle”?

La questione è stata appena sfiorata nel dibattito conclusivo alla Villa il Gioiello. Come tutti i fatti storici, soprattutto quando hanno suscitato abbondanti commenti, differenti interpretazioni e appassionate polemiche, il “caso Galileo” rimane – e rimarrà – aperto alla ricerca, alla riflessione, allo studio e al dibattito. Nessun ulteriore dibattito, pertanto, potrà “chiuderlo”, anche se sul piano strettamente storico e in parte giuridico si può ritenere che i fatti siano stati ormai adeguatamente ricostruiti e contestualizzati. La “vicenda galileiana”, tuttavia, con tutto ciò che ne è conseguito, assume simbolicamente la valenza di un libro aperto, se non proprio di un “manifesto”, che aiuterà a prevenire la ricorrente tentazione dell’ideologizzazione, ossia della pretesa di disporre di un sapere (rivelato o meno) e di un conseguente unico e onnicomprensivo criterio di giudizio, che attribuisce ai propri fini e valori una portata praticamente assoluta, incluso il diritto ad essere perseguiti a qualunque prezzo, spesso incurante di fondamentali principi, quali la libertà di coscienza e il rispetto della dignità culturale altrui. Una tentazione che oggi non riguarda solo la religione, memore degli errori, delle ingenuità e delle incongruenze del passato, ma anche l’impresa scientifico-tecnologica contemporanea, non sempre immune da un ingenuo scientismo che sbrigativamente liquida come oscurantista ogni genere di preoccupazione morale, sociale, religiosa e civile. Ciò di cui la civiltà attuale ha bisogno, in particolare nella prospettiva della crescente interculturalità e interreligiosità, è il superamento degli esclusivismi e orgogli ideologici, per promuovere un lavoro serio in cui scienziati, moralisti, filosofi e teologi compiano lo sforzo di “porsi all’altezza” delle nuove e inedite situazioni prodotte dagli sviluppi della tecno-scienza, complementando e integrando i rispettivi punti di vista e finalità. Si eviterà in tal modo che la riflessione etica diventi il luogo di un nuovo “caso Galileo”.

(1) Il Caso Galileo – Una rilettura storica, filosofica, teologica, Leo S. Olschky Editore, Firenze, Aprile 2011, pp. 1-520.

(2) L’inaugurazione pubblica del Convegno è avvenuta nella basilica di Santa Croce a Firenze, pantheon dei sommi italiani, dove si trova la tomba di Galileo Galilei, alla presenza del Presidente della Repubblica, di molte personalità del mondo politico, ecclesiastico e culturale, di oltre 200 studiosi provenienti dal mondo intero e di numeroso pubblico. Il Convegno, svoltosi nel Palazzo dei Congressi, si è poi concluso in un altro luogo altamente simbolico, la Villa il Gioiello ad Arcetri (Firenze), dove Galileo trascorse gli ultimi anni della sua vita. Comitato Istituzionale del Convegno:

1. FONDAZIONE NIELS STENSEN (Firenze) – Ente promotore e organizzatore

2. ACCADEMIA DEI LINCEI (Roma)

3. ARCHIVIUM HISTORICUM SOCIETATIS IESU (AHSI – Roma)

4. COMITATO NAZIONALE PER LE CELEBRAZIONI GALILEIANE (Firenze)

5. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE (CNR – Roma)

6. DOMUS GALILAEANA (Pisa)

7. ISTITUTO E MUSEO DI STORIA DELLA SCIENZA (Museo Galileo – Firenze)

8. ISTITUTUM HISTORICUM SOCIETATIS IESU (IHSI – Roma)

9. ISTITUTO NATIONALE DI ASTROFISICA (INAF- Roma)

10. ISTITUTO NAZIONALE DI STUDI SUL RINASCIMENTO (Firenze)

11. OSSERVATORIO ASTROFISICO DI ARCETRI (Firenze)

12. PONTIFICIA ACCADEMIA DELLE SCIENZE (Città del Vaticano) 11

13. PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA CULTURA (Città del Vaticano)

14. SCUOLA NORMALE SUPERIORE DI PISA (SNS – Pisa)

15. SPECOLA VATICANA (Città del Vaticano)

16. UNIVERSITA’ DI FIRENZE (Firenze)

17. UNIVERSITA’ DI PADOVA (Padova)

18. UNIVERSITA’ DI PISA (Pisa)

19. UNIVERSITA’ GREGORIANA DEL COLLEGIO ROMANO (Roma)

(3) Ci limitiamo qui a citare i contributi rispettivamente di Isabelle Pantin, dell’École Normale Supériuere di Parigi, sulle ripercussioni dell’ “Affaire Galilée” negli ambienti filosofici e libertini francesi, di Franco Giudice, dell’Università di Bergamo, sugli echi del ‘‘caso Galileo’’ nell’Inghilterra del XVII secolo, di Jean-Robert Armogathe, dell’École Pratique des Hautes Études di Parigi, sulla recezione e le interpretazioni della condanna di Galileo, di Vincenzo Ferrone, dell’Università di Torino, sul “caso Galileo” e l’Illuminismo, di Massimo Bucciantini, dell’Università di Siena-Arezzo, su Galileo e le passioni del Risorgimento, e di Volker R. Remmert dell’Università di Mainz (non inclusa negli atti) che ha descritto quale fosse stato l’utilizzo del “caso” Galileo da parte di esponenti nazisti in relazione alla pressione esercitata sul regime da Pio XI con la lettera enciclica Mit brennender Sorge (Con viva ansia) del 1937 e con la progettata e mai pubblicata Humani generis unitas (L’unità del genere umano): il “caso Galileo” divenne strumento d’attacco contro una chiesa cattolica presentata come oscurantista e contraria al progresso della scienza.

(4) François De Vergnette, per esempio, descrive e interpreta l’iconografia francese del processo a Galileo nel XIX secolo, d’ispirazione tardo romantica, in cui prevale l’idea di un Galileo vittima della Chiesa e risaltano le drammatiche scene della prigione e dell’abiura davanti al Sant’Uffizio. Gli artisti erano motivati a trattare questo tema in quanto il processo a Galileo consentiva di “prendere posizione sul ruolo della Chiesa nella storia” e sui suoi rapporti con la scienza, questioni particolarmente dibattute in Francia nel XIX secolo.


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