Intervista con il vescovo Luigi Bettazzi, con Pax Christi ideatore
dell’evento
La marcia di Capodanno,
dal Sessantotto in cammino per la pace
a cura di Marco Bellizi
"La pace non è americana, come non è russa, romana o cinese: la
pace vera è Cristo": così diceva padre David Maria Turoldo, in una
espressione che fu assunta come titolo della prima marcia della Pace
di Capodanno organizzata nel 1968 da Pax Christi a Sotto il Monte,
nel paese natale di Giovanni XXIII. Una marcia voluta allora per
contestare l’impostazione consumistica della festa di fine d’anno e
per affermare, in anni nei quali si andava in carcere per renitenza
alla leva, la legittimità dell’obiezione di coscienza. La marcia è
dunque a ridosso dei suoi quarant’anni: un percorso attraverso il
quale si può facilmente rintracciare il filo della storia italiana e
mondiale, delle grandi questioni che si sono poste all’attenzione
dell’opinione pubblica di tutti i Paesi, attraverso il tema che gli
organizzatori di anno in anno hanno scelto, sempre riferendosi al
messaggio che dal 1967 il Papa ha inviato a tutti gli uomini in
occasione della Giornata mondiale della Pace. Oggi la marcia è
organizzata, oltre che da Pax Christi, dalla Cei, dalla Caritas
italiana e dalle diocesi che di volta in volta ospitano l’evento. La
prima marcia fu però ideata su iniziativa dell’attuale vescovo
emerito di Ivrea Luigi Bettazzi, già presidente di Pax Christi
italiana dal 1968 al 1978 quando ne divenne presidente
internazionale rimanendo in carica fino al 1985. E dopo aver
partecipato a tre sessioni del Concilio Vaticano II. Anni delicati,
quelli della presidenza di Pax Christi, in Italia e nel mondo, anni
di guerra fredda e terrorismo. Gli anni della contestazione. Oggi
monsignor Bettazzi ricorda molto bene l’atmosfera che si respirava
allora. E, oggi come allora, ritiene che la pace ha bisogno di
giustizia e che non si può essere pacifisti senza agire.
Nel 1968 nasce la marcia della Pace. Mentre è di moda l’eskimo,
anche nelle élite intellettuali, e a Parigi debutta la
contestazione, i cattolici rivendicano la loro idea di pace. Come è
nata questa esperienza?
Furono i giovani stessi di Pax Christi a chiedere in anni difficili
come quelli del 1968 un Capodanno alternativo: un momento di
riflessione e di digiuno, un’iniziativa il cui ricavato potesse
essere destinato in opere di solidarietà in Italia e all’estero. Si
era ancora nell’atmosfera della “Pacem in terris”. Non fu semplice
organizzarla, qualche ostacolo lo trovammo. Alla fine ci ritrovammo
nella cappella del seminario di Bergamo. Furono momenti molto
intensi. Si continuò poi a confrontarci con la sfida dell’obiezione
di coscienza al servizio militare e alla guerra. Era ancora molto
forte l’eco delle questioni sollevate dall’azione di padre Ernesto
Balducci e di don Lorenzo Milani. Alla fine si pensò di organizzare
la seconda edizione della marcia presso il carcere di Peschiera dove
allora era rinchiuso un buon numero di obiettori. La questione
dell’obiezione era molto sentita, volevamo fortemente portare la
nostra testimonianza. Si discuteva di questioni complesse, come
quella di Filetto di Camarda, il paesino vicino L’Aquila, dove ci fu
l’episodio del capitano Matthias Defreger, poi divenuto vescovo
ausiliare di Monaco, che fece uccidere diciassette partigiani
salvando così il paese dalla rappresaglia nazista. Riuscimmo a
manifestare a Condove, nel 1971, dove un’azienda di riparazione di
carri ferroviari si stava per convertire in fabbrica di carri
armati. La lotta degli operai conseguì alla fine la vittoria:
l’azienda venne riconvertita a produzione civile.
Insomma, un esordio impegnativo su temi che allora sembravano
appannaggio solo dei movimenti terzomondisti e della contestazione.
Quale fu la linea che seguiste?
La Chiesa seppe collocarsi in modo appropriato all’interno del
movimento pacifista. Con la “Populorum progressio”, di cui si è
celebrato quest’anno il quarantennale, si fece un cammino che portò
alla realizzazione del Pontificio Consiglio per la Giustizia e Pace.
Noi eravamo le avanguardie. Quando poi la responsabilità
dell’organizzazione della marcia nel 1981 passò alla commissione
giustizia e pace della Cei, divenne più facile recarsi in tutti i
luoghi d’Italia. L’impegno poi si è diversificato, abbiamo girato
tutto il Paese, dal Belice, al Friuli a Sarno. Siamo stati a Varese,
per protestare contro la produzione ed il commercio delle armi,
abbiamo testimoniato la necessità del dialogo interreligioso.
La pace in ogni luogo e sotto ogni declinazione: anche in Italia,
come accennava, la questione ha assunto diverse forme. Ne ricorda
qualcuna in particolare?
L’impegno contro le mafie è stato particolarmente articolato. Nel
2001 siamo stati a Locri, ad esprimere la nostra solidarietà e la
nostra vicinanza a monsignor Bregantini. Ma siamo stati ugualmente
presenti a Palermo, nel 1984, a Reggio Calabria nel 1987, a Ragusa
nel 2004.
Questioni richiamate anche nel tema scelto per il convegno
nazionale di Pax Christi a Brescia, "Sicurezza fra bisogno e
pretesto", un tema legato alla pace?
Certamente. Quest’anno andremo prima a Brescia, per il convegno di
Pax Christi, poi nel paese natale di Giovanni XXIII per la nostra
marcia.
A Brescia lei parlerà della "Populorum progressio" in un intervento
intitolato "Sicuri perché giusti". Come intendere oggi la pace?
Quali sono i luoghi dove principalmente va difesa?
La pace va difesa e promossa ovunque: è un atteggiamento dello
spirito. Ma in ogni caso non va difesa con la violenza. Come diceva
Giovanni XXIII nella “Pacem in terris” ritenere che le guerre
possano portare alla giustizia è fuori dalla ragione. Bisogna
pensare alla non violenza attiva: non rassegnarsi, essere attivi ma
in modi non violenti. È un po’ la stessa concezione, se vogliamo, di
Gandhi. Bisogna favorire i movimenti che parlano al cuore degli
uomini. L’intervento radicale non è sempre indicato. Prendiamo ad
esempio la questione della polizia internazionale, legata a sua
volta al concetto di sicurezza preventiva: perché un intervento di
polizia sia accettato da tutti, e compreso, occorre che sia ed
appaia espressione di una autorità superiore realmente sopra le
parti. Molti dei problemi che oggi si vivono nell’azione delle
organizzazioni internazionali dipendono proprio dal fatto che esse
sono fatalmente gestite dai Paesi più ricchi, dall’Occidente.
Attualmente ci sono nuovi movimenti che si battono per la
giustizia: i movimenti no global, i disobbedienti. Come si colloca
oggi l’azione della Chiesa per la pace in questo contesto?
Credo che il primo esempio concreto di collaborazione con i
movimenti laici pacifisti rimanga la marcia Perugia-Assisi. Al suo
inizio in verità c’era all’interno di questa iniziativa anche uno
spirito anticlericale. Non a caso il percorso era ideato in modo
tale da passare sotto il seminario regionale di Assisi, e
puntualmente arrivavano epiteti vari. Oggi ci si è resi conto che la
componente religiosa è imprescindibile per un discorso realistico
sulla pace. E ritengo che la Tavola della pace di Assisi sia un
esempio estremamente positivo di colloquio proficuo. Le basi
comunque sono state gettate da molto tempo. Ricordo che feci anche
una spedizione a Belgrado alla quale partecipò l’Arci. Anche per il
Vicino Oriente sono state diverse le occasioni di collaborazione: a
Betlemme, con la grande spedizione nel corso della quale incontrammo
anche la comunità dei “Rabbini per la pace”, a dimostrazione che si
possono gettare ponti con chi è disposto al dialogo. Certe volte poi
bisogna inserirsi anche fra parti in conflitto. Subito dopo la prima
guerra del Golfo fummo tra le prime organizzazioni di interposizione
fra i belligeranti.
La pace, specialmente in questi anni, passa inevitabilmente
attraverso il dialogo interreligioso. Su cosa puntare per giungere a
dei risultati?
Penso all’intuizione di Giovanni XXIII, che volle un Concilio non
dogmatico ma pastorale. Un colloquio pastorale parte dalla gente.
Certo bisogna tenere conto che noi siamo portatori di verità
dogmatiche, tuttavia bisogna prima di tutto lavorare sulla persona
per trovare, il seme, l’elemento comune a tutti gli essere umani. Io
credo che questo possa essere rappresentato dall’attenzione e
dall’amore per il prossimo, un principio presente in molte
religioni. Bisogna incoraggiare la parte migliore di ognuno di noi e
valorizzare quello che di buono ci è trasmesso anche da mondi che ci
appaiono diversi.
Il dialogo talvolta è turbato da incomprensioni legate anche ai
timori reciproci di proselitismo. Come evitare queste accuse senza
rinunciare alla missione evangelizzatrice?
La distinzione è questa: evangelizzazione significa portare l’amore
di Cristo. Fare proselitismo significa credere che questo amore si
realizzi subito nei modi che noi pensiamo. L’esempio di san Paolo è
in questo senso emblematico, quando ha affermato che si può
diventare cristiani pur essendo gentili, senza passare per
l’ebraismo. Io aggiungo anche una parafrasi di san Giovanni, dicendo
non che "Chi crede in Cristo sarà salvato" ma "chi crede, in Cristo
sarà salvato".
Tornando al tema della marcia 2007, da quali riflessioni si può
partire?
La marcia di quest’anno è dedicata alla famiglia, comunità di pace e
accoglienza, luogo di amore, strumento di pace che illumina la
Chiesa. Un tempo la famiglia era il primo grande agente educativo.
Oggi il suo ruolo sembra essere sempre più marginalizzato, a favore
dei grandi mezzi di comunicazione, internet in testa. Il sistema
educativo che passa attraverso i computer troppo spesso disegna un
mondo nel quale è prioritaria la valorizzazione di se stessi, il
principio del successo, del dominio sull’altro, fatalmente sul più
debole. Bisogna perciò riscoprire la funzione educativa della
famiglia, sia al suo interno sia nella società, magari attraverso
modalità associative. Contiamo molto su questa marcia e sulla
partecipazione di molte persone, famiglie in testa. Perché la
famiglia è, appunto, il primo agente di pace. Questo è suggerito nel
messaggio di Benedetto XVI, che però si apre con insistenza anche
all’appello per il disarmo nucleare e a una maggiore attenzione
all’ecologia.
(da “L’Osservatore Romano” – 30 dicembre 2007)
Lascia un commento