LEGGEREZZA
Questo quaderno raccoglie numerose testimonianze di pretioperai e di amici, tra cui Armido Rizzi, che per tre giorni si sono incontrati a Bergamo. Lasciano trasparire una fede radicata, provata, profonda. Valga per tutti la parola del più anziano tra noi, Gino Piccio, che così concludeva il suo intervento:
“Amici, voi come me, avete il carbone acceso tra le mani, niente ci può far paura, vince Berlusconi o no, perdono gli altri, non dobbiamo aver paura. Abbiamo un grande messaggio, dobbiamo puntare in alto. Sogno le montagne anche se ho la ghiaia sotto i piedi, continuo a sognare le montagne e l’immensità del mare, ma credo a questo grandioso stile e messaggio di vita”.
Si sente forza in queste parole, parole nate dalla vita, cresciute all’aria aperta, esposte all’intemperie, fuori dalle sagrestie. E’ quello che sottolineava Beppe di Lucca:
“Per me è importante perché se si vive in sacrestia, si muore in sacrestia, con tutto quell’odore di incensi, che caratterizza proprio quell’ambiente. Bisogna respirare un’altra aria, scoprire che si respira meglio fuori, imparando a portare fuori un po’ di sacrestia, invece che viceversa”.
Una fede forte, ma con la leggerezza del respiro, della gratuità e quindi libera e liberante. L’insieme delle testimonianze lascia trasparire la conspiratio, come si diceva nelle prime comunità cristiane evocando l’alito di Dio, cioè quell’intesa profonda che si manifestava con il bacio.
Molti anni fa, al convegno nazionale dei pretioperai di Firenze nel 1986, per illustrare il processo che investiva la nostra fede, abbiamo utilizzato una figura attinta da Arturo Paoli:
“ «Nella mia terra lucchese ho assistito e partecipato molte volte agli scassi degli uliveti, quell’operazione durissima attraverso la quale il contadino metteva a nudo la radice degli ulivi. Un’operazione indispensabile perché le radici prendano aria e siano alimentate dall’ossigeno e dalla luce, rinnovandosi, rivivendo. Oggi si useranno altri metodi, ma lo scasso è comunque condizione di rinascita dell’uomo» (Facendo verità, Torino Gribaudi 1984, 89).
La vita quotidiana di lavoro, questo stato di necessità nel quale ci si viene a trovare con le relazioni e le scelte che si impongono, è la situazione in cui avviene lentamente lo scasso che porta alla luce le radici che sostengono l’esistenza. La condizione materiale, le solidarietà, le delusioni, la ribellione, le sconfitte, le piccole vittorie, l’inutilità che talvolta prende…mettono a nudo la nostra fede oltre che la nostra pasta umana.
La fede perde l’onnipotenza e la presunzione. Perde la chiacchiera. Coi compagni, col padrone o il dirigente, nel sindacato, nei conflitti da affrontare nasce una fede più povera, inutile, gratuita. Anche la preghiera riduce le parole.
Ecco: la fede deve essere interrogata, provocata, scossa: ridotta a nudità completa. Come è avvenuto per Gesù…L’esistenza del P.O. è già una risposta teologica diversa”[1].
Di questa fede ne basta un granello di senapa (Mt 17,20). E’ quello che il titolo di copertina annuncia: la forza della leggerezza.
Noi pensiamo che l’opera di “scasso” sia necessaria anche alla chiesa: deve investire le sue relazioni interne ed esterne, l’organizzazione, le strutture, gli impianti ideologici e gli stili di vita nell’abitare il mondo.
E’ inevitabile che il fluire del tempo depositi delle incrostazioni che rendono opaca anche la cosa più bella e vitale. Pure il cristianesimo con la sua lunga storia non sfugge a questa inerzia. L’errore più grave è fingere che non sia così oppure immaginare a priori che l’amalgama che si è prodotto nei secoli e millenni sia tutto della stessa pasta del filone dorato della rivelazione.
Insomma: quella distinzione che Gesù sistematicamente propone quando libera il precetto di Dio dalle ruggini delle tradizioni umane (Mt 15, 1ss) deve sempre essere compiuta di nuovo, anche nel tempo della chiesa.
Ci soffermiamo su queste tematiche seguendo una recente parola del card. Martini con la quale richiama al dovere di esercitare la libertà di parola nella chiesa: “Dobbiamo chiedere a Dio il dono della libertà. Siamo richiamati ad essere trasparenti, a dire la verità. Ci vuole grande grazia. Ma chi ne esce è libero”[2].
Recentemente ho ripreso in mano alcuni documenti fioriti nel contesto del Vaticano II. In particolare mi ha colpito il testo sulla povertà della chiesa, sottoscritto da oltre 500 padri conciliari, che il card. Lercaro, assolvendo al mandato ricevuto, consegnò a Paolo VI, tramite il card. Cicognani. Accantonato al tempo dei lavori conciliari verrà ignorato nei decenni successivi.
Nell’introduzione si afferma che il tema della povertà della chiesa è posto, che anche tra i vescovi è diffusa l’aspirazione a passare dalle parole agli atti… e tuttavia ci si ritrova in una situazione di impotenza, sia sul piano dottrinale che a livello pratico:
Eravamo in pieno Concilio. C’è stato il coraggio di confessare con lucidità l’allontanamento dallo spirito del Vangelo come realtà riguardante non solo i singoli, ma la chiesa stessa, comunità e strutture ecclesiastiche.
Anche dell’opzione di molti vescovi dichiarata in un impegno solenne verso la fine del Concilio si sono perse le tracce:
“Noi cercheremo di vivere secondo la standard di vita ordinario delle nostre popolazioni per quel che riguarda l’abitazione…”[4]
Il peso di una storia di potenza continua a gravare. I palazzi vescovili in tutta Italia sono segni di una chiesa signora, impotente a rinunciare alle insegne della secolare signoria…
Vi devo confessare che la ripresa di queste letture, oltre ad avermi colpito, mi ha donato un respiro, una consolazione. In fondo tutta la storia del post-concilio era stata in qualche modo profetizzata. Se si percepisce l’impotenza al cambiamento nell’ambito dello stesso Concilio, nel momento decisionale più alto della chiesa, allora non c’è da stupirsi che questi ostacoli interni continuassero, anzi si aggravassero, negli anni e decenni successivi. Vuol dire che il bisogno di riforma della chiesa è davvero molto profondo, continua ad esserlo. Da quanti secoli la parola riforma è echeggiata nella chiesa? Però è strada davvero dura e irta di ostacoli.
Ne deriva una luce chiara sul cammino da noi intrapreso, proprio in quegli anni. Questi testi ci dicono che il nostro sforzo è andato in quella direzione. E’ stato un cammino di spoliazione: quello che pare impossibile alla chiesa. Oltre alla nostra esistenza umana, ha investito anche la fede e gli strumenti culturali e teologici dei quali siamo stati attrezzati, nonché il ruolo e la stessa collocazione nella chiesa e nel mondo. E’ stato un processo di semplificazione. Al di là dei nostri limiti, la direzione presa è quella giusta, quella che ha cercato di interpretare istanze emerse nel Concilio che di fatto sono rimaste congelate. Nel nostro piccolo abbiamo dato carne a quegli orientamenti, immaginati per la chiesa tutta, ma che, almeno nella nostra chiesa occidentale, in Italia in particolare, giacciono nascosti e sepolti.
Da molti anni mi ritorna alla mente uno degli ultimi messaggi di Mario Cuminetti. Si trova in quelle poche pagine che portano il titolo “Per Mario”, diffuse poco dopo la sua morte. E’ un breve “abbozzo” sotto forma di appunti che chiudono il libretto. Sono pensieri su cui si stava affaticando “per ripensare il tutto”. Lui, ecclesiologo, va alla radice del pensare la chiesa, nel suo rapporto con il Signore, denunciando la sua insostenibile pretesa di varcare la soglia invalicabile, la condizione di limite che appartiene alla condizione umana, per riempire il vuoto lasciato da Dio, la cui presenza si riveste di assenza.
Vi è una forma di presenza, di occupazione, che di fatto diventa sottrazione di quello spazio che appartiene unicamente a Dio e che viene sostituito con qualcosa che Dio non è.
Il vero Dio non è quello che puoi possedere, o pretendere di rappresentare in maniera adeguata. Non è un oggetto del quale ci si può servire come principio di conoscenza di tutto il reale. E’ un Dio diverso.
Credo che nel profondo del nostro percorso biografico, non ancora compiuto, vi sia il segreto di questo spazio libero e vuoto. L’essere entrati “nella condizione di tutti”, nel terreno dell’umanità dispersa per sentieri della vita ci ha fatto esistere al di qua della soglia, nella condizione laica, fuori da quel recinto dove “il Vangelo (è incorporato) entro istituzioni giuridiche e burocratiche”(I. Illich). L’essere “cani perduti senza collare” è diventata una condizione privilegiata, in cui il vuoto era di casa, un vuoto certamente non riempito “dalla presenza della chiesa”. E’ un recupero di laicità e quindi del “lutto”, per
Tutto questo per contrastare il relativismo, il nichilismo e la riduzione dell’uomo a natura “che non possono affermarsi pienamente e diventare davvero egemonici finché la fede cristiana è viva e riesce a generare cultura” [7].
Non credo che questo tentativo di rovesciamento dialettico sia produttivo. Temo anzi che sia dannoso. Che si intende quando si dice Dio? Quale Dio?
Questa parola ha una storia troppo lunga e pesante per poterla semplicemente nominare in questo modo. Non è possibile dimenticare le parole di Martin Buber:
“Ci si potrebbe domandare …se il cristiano non debba temere di gran lunga di più il teismo che l’ateismo. Quest’ultimo infatti lascia sempre libero il posto per Dio, ne lascia integro il concetto, in ogni caso non lo sfigura. Il problema dell’ateismo è infatti soltanto (se così si può dire) quello dell’esistenza di Dio. Mentre il teismo, che fa centro sulla natura di Dio, ci pone un’idea di Dio, e un’idea che dopo Voltaire, sappiamo essere fatta a nostra immagine e somiglianza. E l’idolo è proprio questo (eidōlon specchio che ci rinvia a noi stessi, senza alterità) è falso dio al servizio dei nostri bisogni e interessi […] Il teismo, essendo una costruzione dello spirito umano, si avvicina a «questi dei d’argilla fatti dalle nostre mani », è una forma intellettuale di idolatria, in cui il mio spirito si compiace delle sue costruzioni” [10].
Ora la figura del potere è troppo appesantita e insanguinata per esibire trascendenza. E’ opaco, ammalia e impone, attira lo sguardo bloccandolo su di se. Esso cattura, imprigiona e non è icona di nulla. E’ invasivo e, in ultima istanza, vuole la sottomissione.
Dalle riflessioni teologiche scaturite a partire dal male radicale che si è manifestato ad Auschwitz, l’interrogazione ha investito in pieno l’essere stesso di Dio e il suo modo di intenderlo secondo la filosofia greca. Il suo pesantissimo silenzio può essere pensato solo ricorrendo alla rivelazione biblica
“grazie ad una teologia della croce che, nel suo silenzio, intende la sua passione in tutti i sensi del termine”. Il Dio della Bibbia è pienamente coinvolto nel dolore insensato che attraversa la storia umana e la figura di Gesù è il racconto e la promessa di questo misterioso accompagnamento del “Dio con noi” aperto a tutte le creature. Con uno stile ed una forma inaudita che ci viene presentata nella Scrittura:
E’ la forma e lo stile che occorre assumere, abbandonando quella che Theobald chiama “la forma politica della chiesa” che si manifesta come un potere che esige obbedienza. Il tutto basato “sul presupposto di ontologia teologica della chiesa latina: la concezione dell’obbedienza che sostiene la sua immagine di Dio e la sua propria struttura”.
E’ giunto il tempo che la chiesa tutta, anche nelle sue strutturazioni e nelle sue dinamiche interne si conformi alla forma ed allo stile che emerge con chiarezza dal Vangelo. Un compito che non riguarda solo dei “figli della chiesa”, ma la struttura stessa ed il modo di concepire le relazioni, i ministeri, la presenza nel mondo.
Per questo deve avvenire uno “scasso” che investa la chiesa nel suo insieme, discernendo il comandamento di Dio dalle incrostazioni che sono solamente tradizioni ed inerzie di uomini che si sono depositate e sacralizzate.
L’autore citato ritiene che:
La presenza della chiesa nel mondo di oggi, se vuole testimoniare il Dio della rivelazione che si è adempiuta in Gesù, deve rovesciare in sé il “concetto di trono” orientando la sua presenza verso una “paradossale capacità di irraggiamento” in direzione messianica.
Questo ha delle conseguenze sulla forma e lo stile “ad intra” ed anche sul modo di porsi della chiesa nei confronti di tutti gli altri:
***
Per chiudere, mi sembra importante fare almeno un riferimento alla situazione italiana.
Poco dopo le elezioni politiche, che hanno visto il trionfo della destra, si è tenuto la rituale Assemblea Generale della CEI con la visita e l’intervento di Benedetto XVI°. Mi hanno francamente stupito le parole da lui usate riferendosi alla “nuova” situazione politica italiana:
Il panorama che osserviamo, guardando le cose dal basso, ci mostra l’escalation della disumanità e del sopruso legalizzato, l’esaltazione della furbizia disonesta, il prevalere della legge della forza, il disprezzo dei più deboli e delle minoranze, il trionfo del bene privato e lo sfinimento del bene comune, il proposito di continuare a privare i cittadini della facoltà di scegliere mediante il voto i propri rappresentanti, la presa in giro dei lavoratori precari, lo smantellamento della scuola pubblica, il brodo di coltura dove il razzismo trova facile sviluppo…la omologazione nella stupidità indotta da decenni di dominio televisivo, compreso il reclamizzato baciamani del premier al papa, che ha bloccato la digestione a tante persone.
Altrochè gioia!
Le parole dei profeti mantengono viva l’indignazione, mentre i salmi di lamentazione sono il genere letterario più adatto per esprimere lo stato d’animo e la preghiera. E’ il lamento anche per una direzione di chiesa che appare complice di una rinnovata alleanza tra trono e altare: zavorra di piombo che grava sull’Evangelo.
Roberto Fiorini
[1] Bollettino di collegamento dei Pretioperai n. 0 1987, 25.
[5] “come se Dio non esistesse”
[6] “come se Dio esistesse”
[9] Non si può mai dimenticare il passato europeo del cristianesimo. Si parla abbondantemente di “radici cristiane dell’Europa, ma non si fa cenno alle perversioni a cui è stato soggetto il cristianesimo e alle lacerazioni tremende che hanno investito per secoli il continente: “In seguito alle guerre di religione che hanno prodotto scontri sanguinosi fra confessioni cristiane, si prende coscienza dell’impossibilità di fondare una vita comune su una fede divisa in se stessa. Le società realizzano così un nuovo consenso minimale, basato su una concezione razionale e morale di Dio, fondatrice dei loro legami politici e dei diritti individuali. A metà del XIX secolo anche questa ipotesi religiosa viene abbandonata. La mentalità scientista o positivista, che regna ormai dappertutto in Europa, elimina ormai ogni riferimento all’assoluto, oppure lo traspone allo Stato-nazione, concepito in durissima opposizione al cristianesimo e, addirittura, a tutte le religioni. […].
La questione dell’identità del cristianesimo si pone dunque, nel secolo XIX con un’esigenza del tutto nuova […] non riguarda più semplicemente un aspetto particolare del dogma, ma concerne la fede nella sua totalità”. (C. Theobald, Rivelazione, Editrice Dehoniane Bologna 2006, 43-45).
[11] C. Theobald, Rivelazione, 165
[15] cit. in R. Dazzi "Anche nella Curia romana ciascuno vuole essere di più. Ne viene una certa inconscia censura nelle parole. Certe cose non si dicono perché si sa che bloccano
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