Intervista a Madre Ignazia Angelini ,
abbadessa del monastero di Viboldone (Milano)
(DOMENICA 3 FEBBRAIO 2013 la Repubblica di MICHELE SMARGIASSI)
“C’è un dispiacere tra noi
per il ruolo perduto
delle donne nella Chiesa
Eravamo importanti,
ora al massimo
siamo considerate
delle brave bambine”
“Monaco viene da monos,
che significa unico
Ma quando vai su Internet
non sei unico né autentico
Se qualcosa può scardinare
la nostra scelta alla radice,
è questo lo strumento”
“Le lacrime», dice madre Ignazia
col suo sorriso leggero, misurato,
saggio. Quasi cinquant’anni
trascorsi fra queste mura dell’abbazia
hanno addolcito nel ricordo il pianto improvviso di
quella novizia entusiasta ma umanamente spaesata.
Le assegnarono un lettuccio nella camerata che
era diventata questa nobile stanza della musica, nel
vecchio edificio del Priore, fra gli antichi affreschi,
qui, sotto il graffito Hic fuit Leonardus che potrebbe
essere proprio di mano di quel Leonardo, ma per lei
la magia di quel posto era poter intravedere anche
di notte, dal finestrone, la facciata della chiesa,
«consolazione nei momenti di smarrimento». Tanti?
Risponde scegliendo le parole: «Siamo donne.
Non siamo angeli misteriosi».
Clausura. Mito potente. Scatenatore di immaginari
laici e credenti, romanzeschi e teologici, malevoli
e benevoli, tutti fondati sul nulla. «L’icona della
donna nascosta, velata, silenziosa e solitaria, in fuga
dal mondo, è un mito che purtroppo fa breccia
anche nell’immaginazione di tante giovani consorelle.
Ma tutta questa idea della solitudine dell’uomo
di fronte a Dio è un equivoco, viene dalla cultura
romantica, e ancora prima dal pensiero plotiniano…
». Era studentessa di filosofia, nel Mondo, Ignazia
Angelini. Prima di scegliere.
Il cancello sul parcheggio è aperto. Il luogo comune
della clausura vacilla fin da qui. C’è pure un
campanello. Un vialetto di ghiaia. Edifici bassi color
ocra, senza pregio, attorno alla chiesa antica. È
lei in persona, la badessa Ignazia, ad aprire il portone:
«Siamo poche, dobbiamo fare tutto da noi».
Dentro, arredi da linda parrocchia, vecchie tele di
soggetto sacro, incongrui libri del Touring Club su
un tavolino. Dalla cucina, rumore di stoviglie. Squilla
a lungo un telefono. Suoni ordinari di qualsiasi
comunità senza mistero. La navata romanico-gotica
della chiesa risuona dei nostri passi. «Il libro che
ha letto è nato qui. Passiamo ore e ore, in chiesa, tra
Lectio Divina e Vespro…». Nella luce invernale fioca
che cade dal rosone, indica: «Ecco, quello è il mio
posto». Una seggiola fra le altre, nella navata sinistra,
di fianco all’altare e di fronte all’affresco della
Preghiera di Gesù nel Getsemani. «Lo guardo spesso,
mentre preghiamo: vede, quei discepoli siamo
noi, addormentati di fronte al mistero di Cristo che
prega con grida e lacrime lottando contro la necessità
della morte». Possiamo fotografarla qui, al suo
posto? «No. Sarebbe una falsità. Io non sono mai sola,
quando sono qui. Lei è venuto per conoscermi,
non è così? Bene, deve accettare che io parli di me
solo nella relazione con le sorelle. Lasci perdere
quel che immagina sulla clausura: il cuore di questa
scelta è vivere sempre, e solo, nella relazione. Costruire
tra noi una relazione stabile, in questo mondo
di rapporti mobili e smarriti, può essere molto faticoso.
Noi non viviamo assieme perché ci troviamo
simpatiche, per affinità elettive, ma per sostenerci
nel cercare Dio». La monaca è un noi. Le domande
biografiche infastidiscono madre Ignazia. Avrebbe
perfino voluto non firmare Mentre vi guardo, il libro
che Einaudi le ha proposto e che lei, dopo qualche
esitazione, ha scelto di scrivere. Per ribaltare il nostro
sguardo confuso. Per far capire a noi, che guardiamo
alla clausura, curiosi, alcuni anche morbosi,
che invece è la clausura che guarda noi.
Madre Ignazia è una monaca, e viene pure da
Monza. Ma la cupa storia del Manzoni nel suo caso
si ribaltò da così a così. Fu lei, diciannovenne, una
mattina nebbiosa del ’64, a insistere per farsi portare
qui, fra i fossi e le marcite di un’umida campagna
lombarda, «un luogo impossibile» per un convento.
Alla guida della 600 rossa, suo padre non voleva
proprio. «Quando scese la sbarra del passaggio a livello
mi disse: ecco, vedi, è il Signore che ti manda
un segno, torniamo a casa. Io dissi: papà, il Signore
ha già scelto». Quei binari furono la soglia simbolica
della sua nuova vita: non le grate di ferro. Le inferriate,
simbolo stesso della clausura, alimento più
che ostacolo alle fantasie dei laici, qui a Viboldone
c’erano, almeno in chiesa, fino a otto anni fa. «In
questo punto della navata. Impedivano ai fedeli,
durante la messa, di vedere le monache. Le togliemmo
per un restauro del pavimento. E non le rimontammo
più…». Dimenticanza consapevole.
«Le grate sono un simbolo equivoco e pericoloso. Il
popolo di Dio non può essere diviso mentre prega,
il Vaticano II ce l’ha insegnato. E la nostra separatezza,
se non la costruiamo dentro di noi come un
valore, non sarà difesa da barriere fisiche». A volte
farebbero comodo, le grate. «Alla fine delle messe,
quando vorremmo restare concentrate nella meditazione,
la gente ci viene addosso, ci chiede, un po’
ci soffoca». In verità, il Mondo bussa sempre più
spesso alla porta del convento. «La parrocchia non
è più un riferimento stabile, i sacerdoti sono pochi
e sempre in giro, le canoniche hanno orari rigidi e
sono spesso chiuse». La porta del monastero invece
si apre sempre. Sono storie, richieste di conforto,
di aiuto materiale e morale, drammi di malati, di
emarginati, di disperati, a volte duri, sempre umani.
A volte invece sono provocazioni, sfide. «Vengono
per dirci: ma cosa fate ancora chiuse qui dentro,
uscite, vivete nel mondo, tra le sue sofferenze…».
Atei irridenti? Il sorriso ora ha una punta d’ironia:
«Anche alcuni preti…».
Il Mondo è ambiguo, oggi, col monastero. Lo
idealizza, vi cerca conforto, ma ne ha anche fastidio,
lo aggredisce. «Vivere nell’orbita di Milano è un
grande rischio, si sente il peso di un modello di vita
antitetico al nostro». Il convento ne è investito come
da un vento del deserto. Bene culturale per le
istituzioni, consumo da weekend per i turisti, esotismo
intellettuale new ageper annoiati, beauty farm
dell’anima per coscienze depresse. Il Mondo ha armi
destabilizzanti, seducenti. Internet, per esempio,
rischia di sfondare là dove la tivù si fermò. «La
televisione c’è da tempo, in monastero. Ma non la
guardiamo quasi mai, qualche telegiornale mentre
laviamo i piatti». Internet invece non si lascia tenere
a cuccia. Qui è entrato come tecnologia di lavoro.
Le monache benedettine di Viboldone adempiono
il secondo corno dell’ora et labora restaurando libri
antichi, sono diventate vere professioniste, la biblioteca
Ambrosiana si fida di loro, hanno avuto per
le mani i codici di Leonardo, digitalizzano le pergamene,
sono straordinarie con Photoshop, e le mettono
online. «Internet è comodo, utile. Sempre a disposizione,
compiacente, seduttivo… Sembra governabile:
una email che male fa? Posso leggerla
quando voglio… E invece Internet è l’antimonastico
per eccellenza. Monaco viene da monos, che significa
unico, integro, autentico. Ma quando “sei su
Internet” non sei né unico né autentico, sei solo una
parte, una superficie, un’immagine virtuale. Se
qualcosa può scardinare la nostra scelta alla radice,
è questo strumento». Il Mondo sciaborda alle porte
del convento, e il convento vacilla. «Eravamo una
sessantina negli anni Sessanta, oggi siamo ventiquattro.
Mettiamo nel conto di non esserci più, prima
o poi». Rassegnate? «Consapevoli. L’esistenza
del monastero non è garantita da nulla. In Cappadocia,
culla del monachesimo, non ci sono più conventi
». Il monastero non serve più al mondo contemporaneo?
«Ci sono monasteri fortemente identitari,
molto legati a movimenti ecclesiali, o guidati
da capi carismatici fortemente autoritari, che attirano
molte vocazioni. Sopravviveranno meglio di
noi. Ma intanto lasciano qualche maceria umana
sul loro cammino, ne sappiamo qualcosa noi, che a
volte le raccogliamo».
I monasteri degli uomini si sono «ormai clericalizzati
», tra frati e preti non c’è più tanta differenza.
Ma le donne nella Chiesa non hanno altra scelta. Il
loro posto è solo qui. Custodi dello spirito più puro
del monachesimo, ma a rischio di «farci trasformare
in mummie» dalla «retorica dell’immolazione
della donna a causa di Dio». Nel suo libro, madre
Ignazia ha parole taglienti per la «tutela gerarchica
maschile» sugli ordini religiosi femminili, per «lo
sguardo indagatore dei signori di curia», per la condizione
sempre più stretta dello «stare sotto i preti».
C’è un fermento, nei conventi femminili, che i media
interpretano come “femminismo nella Chiesa”
ma forse è altra cosa. Madre Ignazia arriva a profetizzare
che «le incongruenze esploderanno prima o
poi». Ma al solito, quel che il mondo vede del monastero,
come se ci fossero ancora le grate, è un’immagine
parziale. «C’è dispiacere tra noi per il ruolo
delle donne nella Chiesa, è vero. Per un ruolo perduto.
Nelle prime comunità cristiane le donne erano
importanti. Del resto, una donna fu scelta per dare
l’annuncio della Resurrezione. Poi nei secoli
qualcosa è successo, qualcosa non ha funzionato. A
noi è rimasto solo il ruolo di “brave bambine” della
Chiesa, il fiore all’occhiello dei chierici. Ed è stato un
grande spreco». E dunque? «Dunque, se lei immagina
cortei di protesta, rivendicazioni, manifestazioni,
bene, non accadrà. Il nostro ruolo non è diritto,
è grazia. Non si rivendica: si cerca. Il sacerdozio
femminile, per esempio. La via è oggettivamente
aperta, non vedo ostacoli prettamente teologici.
Ma non mi par di vedere che lo avremo presto. Non
ci sono le condizioni antropologiche ed ecclesiali. E
poi, le donne per prime scadono continuamente
nel gregarismo. Ci vorrebbero, radicate nell’oggi,
donne coraggiose e appassionate al vissuto della fede,
come la Chiesa ne ha avute e non sembra avere
più, donne come Chiara d’Assisi, Ildegarde, Caterina,
Brigida di Svezia, Teresa…».
Le mani intrecciate, esile, ferma, madre Ignazia
fa strada verso l’uscita. Affrescati sotto un arco, volti
medievali di donne. «Le hanno dipinte qui perché
ammonissero le monache ogni volta che entravano
in chiesa. Sono le vergini folli e le vergini sagge della
parabola». Difficile distinguere a colpo d’occhio
le une dalle altre: altere, severe, belle, si somigliano
un po’. Ma solo una di loro ti guarda negli occhi, ferma,
interrogativa, con un leggero misurato sorriso
saggio, dal suo convento di pietra.
“Le grate impedivano ai fedeli
di vedere le monache
durante le funzioni
Le togliemmo quando
facemmo i restauri,
e non le abbiamo
più messe”
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