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Noi Siamo Chiesa

Sezione italiana del movimento internazionale “We Are Church” per la riforma della Chiesa cattolica

Leggi l’efficacissima arringa di Andrea Grillo nei confronti di Ladaria che insiste ancora nel dire che il ministero femminile non sarebbe possibile perché lo dice il Vangelo.

Ladaria e il sesso femminile: teologia d’autorità con ‘ratio’ troppo fragile

di Andrea Grillo

Pubblicato il 30 maggio 2018 nel blog: Come se non  

Con un intervento apparso oggi sull’”Osservatore Romano” (qui), il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Mons. Luis Ladaria, interviene per ribadire il carattere definitivo della esclusione della donna dalla ordinazione sacerdotale. E dice di farlo perché “desta seria preoccupazione veder sorgere…delle voci che mettono in dubbio la definitività di questa dottrina” e per evitare confusioni sul sacramento dell’ordine e dubbi sul magistero della Chiesa. In realtà, gli argomenti che egli porta a sostegno di questo “chiarimento” mi sembra che aumentino la confusione anziché diminuirla. Mi limito ad indicare alcuni punti deboli della argomentazione, cui faccio seguire considerazioni più articolate di ermeneutica dei documenti più recenti.

  1. Inizio dalla fine dell’articolo: citando Gv 15, 10, Ladaria scrive a proposito di Cristo che “solo la fedeltà alle sue parole, che non passeranno, assicura il nostro radicamento in Cristo e nel suo amore”. E’ curioso che, alla fine di un testo che vuole confermare con autorità l’impedimento alla ordinazione sacerdotale della donna, ci si riferisca alla “fedeltà alla parola di Cristo”, trascurando il fatto, qui decisivo, che sul tema specifico Cristo non ha detto assolutamente nulla. Il silenzio interpretato come parola esplicita, e il fatto tradotto in discorso normativo, non appare una soluzione teologica capace di sostenere con autorevolezza la pretesa di una tradizione “irreformabile”. Come spiegava J. Ratzinger, alla uscita del documento del 1994, occorre spiegare non solo “che” tutti i 12 erano maschi, ma anzitutto “perché” Gesù avrebbe detto e voluto che fossero ordinati solo battezzati di sesso maschile. Pensare di risolvere tale questione con il riferimento insostituibile al “maschile” per la “rappresentazione di Cristo sposo” appare una via troppo fragile,che liturgicamente risulta oggetto di ampia discussione.
  2. In secondo luogo, si asserisce che il “sesso maschile” farebbe parte della “sostanza del sacramento” dell’ordine. E Ladaria allega, a riprova di questa affermazione apodittica, la citazione di un passo che il Concilio di Trento dedica non all’ordine, ma all’eucaristia, e nel quale si afferma che “la Chiesa ha sempre avuto il potere di stabilire e modificare nell’amministrazione dei sacramenti, fatta salva la loro sostanza, quegli elementi che ritenesse più utili per chi li riceve…” (DH 1728). Questo testo dovrebbe servire, secondo Ladaria, a provare che appartiene alla sostanza del sacramento dell’ordine il sesso maschile dell’ordinando. Ma, come è evidente, il testo citato non parla affatto del sacramento dell’ordine, ma formula semplicemente una distinzione tra sostanza immutabile e forme modificabili, che lascia del tutto impregiudicato se il sesso maschile sia “sostanziale” per la ordinazione. Anzi, il contesto del passo tridentino potrebbe giustificare proprio una lettura capovolta: se il Concilio di Trento dice che è possibile che “le due specie eucaristiche” non siano “di sostanza” nel rito di comunione, come potrebbe il sesso femminile non essere incluso nella “sostanza” nel rito di ordinazione? In altri termini, se dove Gesù ha parlato con estrema precisione, abbiamo potuto sentirci liberi di cambiare, come è possibile che dove ha taciuto ci sentiamo assolutamente vincolati a non cambiare? Qui si sarebbe forse potuto citare il CJC 1024 (“Riceve validamente la sacra ordinazione esclusivamente il battezzato di sesso maschile”), che tuttavia non è affatto immodificabile, essendo giustificato solo da fatti e da silenzi, non da parole esplicite.
  3. La questione della fedeltà a Cristo, dunque, viene risolta con un doppio passaggio che appare altamente problematico: da un lato si interpreta un fatto – il sesso maschile dei 12 apostoli – come una indicazione normativa; dall’altro si pensa il sacramento introducendo nella sua sostanza un “sesso maschile” che escluderebbe ogni margine di modificabilità da parte della Chiesa. Ma la prima affermazione è congetturale, mentre la seconda è una costruzione sistematica del tutto discutibile. Sarebbe del tutto plausibile pensare che oggi – nelle condizioni storiche e culturali di buona parte del mondo -possa rappresentare una grave forma di infedeltà verso il Signore non riconoscere gradualmente tutta la ricchezza ministeriale e carismatica che battezzate di sesso femminile potrebbero riservare alla azione e alla autorità della Chiesa. E che invece la vera fedeltà possa essere scoperta nella capacità della Chiesa di uscire dalle proprie consuetudini storiche, riconoscendo di averle identificate a lungo, ma oggi erroneamente, come tradizioni normative vincolanti.

4.Sul tema del rapporto tra ordo et sexus mi pare che i limiti della posizione espressa dal Prefetto meritino di essere chiariti, in modo tale che un dibattito ecclesiale ampio e articolato possa aiutare a guardare più lontano e a procedere con passo più sicuro. Infatti, proprio nel dibattito che ha accompagnato i lavori della Commissione vaticana sul diaconato femminile, un bell’articolo di p. Giancarlo Pani, su “La Civiltà Cattolica” (3999/2017, 209-221), ha toccato due punti su cui vorrei brevemente proporre ora qualche riflessione:

  1. a) Prima osservazione: quando la tradizione attesta dei “fatti”, se ne può desumere prudentemente la possibilità o la necessità. Ma quando ad essere attestata è una “assenza di fatti”, non sempre è prudente desumerne la non necessità o la impossibilità. Citando questa bella espressione di Y. Congar, Pani mette in guardia da facili generalizzazioni, oggi assai diffuse.
  2. b) Ci si chiede, poi: il pronunciamento di Ordinatio Sacerdotalis, che dice nel 1994 una parola forte sulla esclusione delle donne dal ministero, a che livello di autorevolezza deve essere collocato? La breve discussione riportata da Pani riaccende l’interesse sulle implicazioni che, indirettamente, quella soluzione comporta nella discussione sul diaconato femminile.

Come è noto, le questioni intorno alla “ordinazione delle donne” sono sorte ufficialmente, nel cattolicesimo, molto tardi: dal 1975 prima papa Paolo VI, poi Giovanni Paolo II sono intervenuti con documenti di alta autorità, ma non impegnando il livello massimo del magistero irreformabile. Su questo punto la mancanza di chiarezza della recezione dipende dalla non linearità degli stessi pronunciamenti magisteriali.

  1. Una breve ricostruzione della sequenza di pronunciamenti può essere qui utile:
  2. a) Nel 1975 Rescritto di Paolo VI alla lettera dell’Arcivescovo di Canterbury
  3. b) Nel 1976 Inter Insigniores Dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della fede
  4. c) Nel 1994 Ordinario Sacerdotalis Lettera Apostolica di papa Giovanni Paolo II
  5. d) Nel 1995 La Congregazione per la Dottrina della fede risponde a un dubbio sul grado di autorevolezza magisteriale di OS
  6. e) Sempre nel 1995 viene pubblicato un Commento “chiarificatore” alla risposta della Congregazione per la Dottrina della fede
  7. f) Negli ultimi anni è sorta anche la pretesa da parte di alcune voci di estendere la esclusione pronunciata da OS anche al diaconato.
  8. E’ evidente che il grado massimo della “irreformabilità”, garantito dal magistero infallibile, viene qui elaborato su due fronti:
  9. a) da un lato si fa valere la tradizione uniforme, che sempre, ovunque e da tutti sarebbe stata osservata, nella esclusione della possibilità di ordinazione della donna. Ciò, tuttavia, non tiene strutturalmente conto che, a partire da Pacem in terris, il ruolo della donna viene ufficialmente considerato in modo nuovo, teologicamente e antropologicamente, e che questo elemento, riconosciuto come tipicamente moderno, introduce criteri di giudizio, forme di attribuzione di autorità e gradi di libertà dei soggetti che prima erano semplicemente impensabili e inauditi. Le risposte univoche della tradizione fino al XIX secolo, si potrebbe dire, rispondono ad una domanda diversa dalla nostra. E risultano poco utili per rispondere, significativamente, alla domanda nuova.
  10. b) d’altro lato, troviamo un pronunciamento autorevole da parte del magistero del sommo pontefice, che avrebbe potuto intervenire ex cathedra per stabilire la posizione della Chiesa, ma che ha scelto invece di farlo “in modo negativo”, non assumendo positivamente la propria autorità nella decisione, ma anzi negando a sé la facoltà di intervenire. Anche qui, si potrebbe dire: se avesse voluto utilizzare la sua massima autorità, il papa avrebbe potuto farlo. Poiché invece non lo ha fatto, che cosa dobbiamo desumerne? Prudenza? Riserbo? Cautela? Lungimiranza?
  11. Si può osservare che ognuno dei lati della possibile “definitività irreformabile” non appare garantito a sufficienza dai documenti pubblicati in questi 40 anni. E ciò per un duplice motivo:
  12. a) La tradizione universale implicita, proprio poiché sente il bisogno di un pronunciamento in materia, non può presumere di risolverlo immediatamente nella evidenza dei fatti della tradizione. Se i fatti di tradizione fossero stati davvero univoci, se le opinioni fossero state così pacifiche, se la fede fosse rimasta così serena, se avessimo trovato incontestato – sempre, ovunque e da tutti, anche nell’ultimo secolo – l’orientamento di escludere dal ministero sacerdotale la donna, perché mai ci sarebbe stato bisogno di questa serie di documenti?
  13. b) D’altra parte i documenti nuovi, pretendendo di assumere un “dato pacifico”, e quindi di spostare nel passato la questione e la sua soluzione, non si attribuiscono il potere di definirlo, ma semplicemente si limitano a dichiarare la propria assenza di autorità” di fronte ad una tradizione che presumono di ricostruire come lineare e aproblematica. Forse questi testi non hanno ascoltato la domanda nuova e per questo possono ritenere che sia sufficiente la risposta classica, formulata con tutta la certezza dovuta, ma per rispondere ad una domanda diversa! La domanda di “ministero al femminile” non scaturisce come un capriccio in una tradizione che la ignora nella indifferenza, bensì si presenta come la crescita di una coscienza culturale, sociale ed ecclesiale, che deve essere onorata e alla quale la Chiesa è tenuta a rispondere assumendola francamente, senza evasività o indifferenza. Se la vuole negare, la neghi: ma ha l’onere della prova. E deve offrire argomenti solidi, non meri fatti o assenze di fatti.
  14. La fatica della argomentazione che sto segnalando mi pare che brilli in modo particolare in un passaggio del “chiarimento” offerto dalla Congregazione per la Dottrina della fede, a precisazione della sua stessa risposta al dubbio intorno a OS. Si noti: la Congregazione prima scrive una risposta ad un dubbio e contestualmente allega un commento a chiarificazione della risposta che essa stessa ha redatto. Nel testo del “Commento” si può notare chiaramente questa impressionante oscillazione tra le pretese di chiarezza di una tradizione – in realtà divenuta problematica – e la assenza di autorità che il papa riconoscerebbe a se stesso sul tema:

“Va quindi sottolineato che il carattere definitivo ed infallibile di questo insegnamento della Chiesa non è nato dalla Lettera Ordinatio sacerdotalis. In essa, come spiega anche la Risposta della Congregazione per la Dottrina della Fede, il Romano Pontefice, tenuto conto delle circostanze attuali, ha confermato la stessa dottrina mediante una formale dichiarazione, enunciando di nuovo quod semper, quod ubique et quod ab omnibus tenendum est, utpote ad fidei depositum pertinens. In questo caso, un atto del Magistero ordinario pontificio, in se stesso per sé non infallibile, attesta il carattere infallibile dell’insegnamento di una dottrina già in possesso della Chiesa”1

Il Commento della Congregazione, come appare evidente, avanza la pretesa di definire come “definitivo e infallibile” un insegnamento della Chiesa che non sarebbe contenuto in OS, ma che starebbe “a monte” di OS. Il documento papale, dunque, che in sé viene apertamente riconosciuto come “non infallibile”, dovrebbe essere semplicemente inteso come un atto di costatazione – fuori e prima di sé – della infallibilità di una tradizione, che tuttavia, proprio a causa della sua problematicità, ha richiesto l’intervento magisteriale. Vi è qui una dura e inaggirabile tensione tra il documento nuovo e i fatti della tradizione. I fatti della tradizione chiedono al documento un pronunciamento, perché assuma una “domanda nuova”, scaturita dallo sviluppo civile, culturale, antropologico ed ecclesiale dell’ultimo secolo: una nuova concezione della donna, della sua soggettività e della sua autorità; ma il documento dice che i fatti della tradizione sarebbero di per sé evidenti, rinunciando a spiegarne il perché e il come, e assumendo invece soltanto la prospettiva classica, non quella nuova. Forse la chiave ermeneutica più sensibile di questa ardita ricostruzione sta nel breve, ma prezioso inciso: “tenuto conto delle circostanze attuali”. Questa delimitazione temporale e contestuale, che contrasta con il semper ubique ab omnibus della riga seguente, consente di assumere la portata del documento come “non infallibile”, condizione che non risulta affatto surrogabile in seconda battuta da chiarimenti a posteriori, pronunciati ad un livello gerarchico non dotato autonomamente di autorità infallibile. In altri termini, se il papa non ha detto apertis verbis di assumere una decisione tecnicamente infallibile – come ad es. Pio XII fece per il dogma della Assunzione di Maria – nessuna autorità diversa da un Papa che parli ex cathedra potrà pretendere di “riconoscere” come infallibile ciò che infallibilmente non è stato definito. Altrimenti noi avremmo il paradosso – o, peggio, quasi la mistificazione – di un documento dichiarato apertamente come non infallibile, che una esplicazione ancora meno infallibile carica di una irreformabilità che sarebbe in questo caso garantita soltanto da quella “tradizione universale” che in realtà risulta così poco pacifica e incontestata, da aver fatto sorgere la domanda di un pronunciamento da parte del Magistero. Non siamo lontani, qui, da un circolo vizioso e da una autoimplicazione che si avvicina molto alla autoreferenzialità. E neppure è difficile scorgere, in questa obiettiva contorsione argomentativa, un certo imbarazzo verso la questione, come pure la non nascosta tensione tra la volontà di chiudere univocamente e autoritariamente la discussione e la impossibilità positiva – insieme alla prudenza negativa – nell’assumere in questo ambito una posizione assolutamente irreformabile.

  1. Dunque nel 1994, nelle circostanze del momento, papa Giovanni Paolo II ha ritenuto di non avere la autorità per modificare una tradizione che tecnicamente non ha dichiarato definitiva e che tale non può essere dichiarata da altri soggetti ecclesiali di grado inferiore al suo. L’unica cosa definitiva è la mancanza di autorità dichiarata in quel momento, che deve essere assunta con grande serietà. Ma nulla impedisce ad un altro papa, “in altre circostanze di un altro momento”, di leggere diversamente la tradizione, poiché non è vincolato da un giudizio definitivo sulla tradizione, ma solo dal giudizio definitivo sulla assenza di autorità assunto autorevolmente da un suo predecessore. Se la dottrina irreformabile fosse immediatamente quella della tradizione premoderna, non si sarebbe posta la questione di un pronunciamento in materia. La scelta di un pronunciamento meramente negativo, con cui si dichiara di “non avere la facoltà” di modificare la tradizione, lascia aperta la possibilità di una dichiarazione diversa, in un contesto nuovo, quando si vogliano davvero assumere non solo vecchie risposte per vecchie domande, ma una nuova risposta per una domanda che venga riconosciuta – apertamente e coraggiosamente – nella sua decisiva novità. La domanda sull’eventuale riconoscimento di autorità a soggetti battezzati di sesso femminile va onorata con risposte all’altezza, non con minestre riscaldate, basate su argomenti fragili, su citazioni bibliche e magisteriali non pertinenti e fondate su pregiudizi del passato. Che la donna sia “soggetto pienamente autorevole” è una realtà meravigliosa di cui la Chiesa potrà e dovrà arricchirsi: non è una costruzione insidiosa del pensiero moderno da tenere a debita distanza e di cui diffidare. Negare alla donna – per natura e/o per autorità – ogni riconoscimento ministeriale ufficiale è una strategia meramente difensiva e autoreferenziale, vuota di profezia e senza futuro.
  2. Comunque sia, e indipendentemente da questo dibattito ancora aperto, resta sempre la distinzione della questione della “ordinazione sacerdotale” da quella della “ordinazione diaconale”, che non può essere considerata inclusa nel ragionamento prodotto dalla discussione che abbiamo fin qui considerata. Quindi, anche al di là della conclusione cui si giungesse nella valutazione di OS, bisognerebbe riconoscere pur sempre che il documento esaminato nulla dice a proposito di una eventuale ordinazione diaconale, quando venisse estesa a soggetti battezzati di sesso non maschile, ma femminile. A meno che non si ritenga, con la logica del piano inclinato, che ogni cedimento iniziale, anche minimo, possa poi a cascata risultare incontrollabile. E che la Chiesa possa fiorire solo nella misura in cui la donna resta definita dalla categoria medievale della “condizione di soggezione” e del “difetto di autorità”, secondo quella definizione tomista, che risuona ormai da un mondo che non c’è più:

“Nel sesso femminile non può essere significata una ‘eminenza di grado’, poiché la donna ha una condizione di soggezione e perciò non può ricevere il sacramento dell’ordine.” (Thomas Aquinas, S.Th., Suppl, 39, 1, c).

Questa conclusione si impone a Tommaso a partire da una lettura antropologica, culturale e sociale che oggi non ha più nulla a che fare con il Vangelo. Purtroppo essa continua ad esercitare qualche influsso e non poco fascino sulle parole preoccupate, ma anche preoccupanti, del Prefetto Ladaria.

Realtà negata, silenzio imposto, comunione fittizia. Sulla relazione tra sesso e ministero ordinato

di Andrea Grillo

Pubblicato il 2 giugno 2018 nel blog: Come se non

 

Alcune settimane fa il card. Mueller, ex Prefetto della CDF, sosteneva in una intervista che “l’omofobia non esiste…”; alcuni giorni dopo il suo successore come Prefetto, Mons. Ladaria, ha riproposto una comprensione del tutto antitetica del rapporto tra ministero ordinato e sesso femminile, dicendo, sostanzialmente, che tale rapporto “non esiste e non può esistere”. Credo che sia molto utile una riflessione sul “metodo” con cui queste dichiarazioni affrontano la realtà, non solo ecclesiale, ma anche mondana e secolare. Io credo che siano rivelatrici di un approccio distorto e troppo unilaterale o, come lo definisce Amoris Laetitia, “pusilli animi”, meschino (AL 304).

E’ evidente che la storia offre sempre realtà nuove, che pongono in questione la tradizione umana ed ecclesiale. La Chiesa non sta altrove: deve fare i conti, apertamente e schiettamente, con queste novità della storia. Tra le quali ci sono quelle che riguardano la “sfera della sessualità”, così come sono entrate potentemente nella cultura comune e come obbligano anche la Chiesa ad una comprensione rinnovata, accurata, attenta e non generica di se stessa.

Che la identità della donna sia una delle “novità” più significative del XX secolo non può essere discusso; esattamente come non può esserlo la trasformazione del “sesso” in “sessualità”, con tutta la incidenza che ciò determina sulla identità e sulla coscienza dei soggetti. Su entrambi questi livelli, se si pretende di ragionare “come se nulla fosse cambiato”, come se ogni novità fosse il frutto di una ideologia sospetta, di una perversione dei cuori, di una distrazione delle menti, allora davvero tutto è compromesso e la Chiesa perde l’occasione non solo di “comprendere il reale”, ma di dar voce efficacemente al Vangelo.

Lo stile autoreferenziale

Come dicevo, mi colpisce molto, in queste dichiarazioni di Prelati di prima fila, il modo di aver a che fare – o, meglio di non aver a che fare – con la realtà. Anzitutto si deve negare la realtà problematica: che si parli di omofobia, o di donna, la cosa più importante sembra quella di “squalificare” l’interlocutore. O negando che ci sia una realtà di cui occuparsi o riducendo quella realtà ad una caricatura. Si può dire così, del tutto senza controllo, che la omofobia è “una invenzione marxista”, oppure che la donna “pretende un potere e rivendica un diritto che non la riguarda”. Questo modo di pensare e di provvedere è una pesante eredità dell’antimodernismo. Dipende da opzioni culturali ed ecclesiali che ne restringono la prospettiva e la portata. Ovvero risente del sospetto verso tutto ciò che è moderno e che “altererebbe” le forme storiche di esercizio della autorità e del potere. Tutte le forme di “emancipazione” – dalla schiavitù o dalla malattia, dalla emarginazione o dalla irrilevanza – tendono ad essere lette, in questa prospettiva, semplicisticamente come “disobbedienze” o come “insubordinazioni”. La incomprensione del principio di libertà e il facile ricorso ad un “principio di autorità” totalizzante costituiscono il cuore di una reazione, tanto viscerale quanto poco meditata. Così, anziché difendere la tradizione cristiana, si finisce col difendere soltanto la sua traduzione in forme culturali una volta di certo efficaci, ma ora vecchie, unilaterali e inadeguate.

Nessun confronto, ma solo obbedienza

Se questo è l’orizzonte che circonda le recenti reazioni considerate – e che non si identifica affatto con lo stile della Chiesa post-conciliare – una sua ricaduta inevitabile è la soluzione proposta, che evita il confronto e che si rifugia nella “obbedienza all’autorità”. Il silenzio diventa l’unica alternativa. Tale pretesa, che già nel 1994 aveva segnato Ordinatio Sacerdotalis, e che ora viene ripetuta, per quanto su un livello di autorevolezza e di autorità sicuramente minore, costituisce il segnale di una grande difficoltà. La Chiesa cattolica sembra non sapersi confrontare in modo equilibrato con la tradizione del Vangelo e della esperienza degli uomini. A tal proposito occorre ricordare ciò che ha detto in modo indimenticabile GS 46: “il Concilio, alla luce del Vangelo e dell’esperienza umana, attira ora l’attenzione di tutti su alcuni problemi contemporanei particolarmente urgenti, che toccano in modo specialissimo il genere umano”. Ed è da sottolineare che la “luce”, in questo testo, viene dal Vangelo e dalla esperienza umana: quindi abbiamo bisogno non solo di leggere l’esperienza alla luce del Vangelo, ma anche il Vangelo alla luce dell’esperienza umana. E la grande trasformazione della esperienza femminile nell’ultimo secolo deve condurre ad un cammino ecclesiale, ad un processo di discernimento, che riguardi le forme possibili di “esercizio ufficiale della autorità” da parte dei membri della Chiesa di sesso femminile. Questo, ovviamente, deve riguardare anche il ministero ordinato, nel modo di concepirlo e di esercitarlo. Su questo papa Francesco ha aperto un dibattito utile e positivo, che rilancia questa domanda di fondo, sul modo con cui sappiamo accogliere e ripensare la autorità femminile nella ufficialità ecclesiale.Senza pretendere immediatamente tutto, occorre predisporre un “cambio di paradigma” e una “rivoluzione culturale”, che provveda quanto prima ad integrare le donne nell’ ambito dell”ordine sacro”, accettando una prudente logica della gradualità, ma mai irrigidendosi in una schema “apologetico”.

Una comunione “diffidente”

Se invece di un sereno dibattito e di un discernimento comunitario, si preferisce imporre il silenzio e non ascoltare la realtà, è inevitabile che si determini uno stato ecclesiale, dal quale si genererà una “comunione mancata”, in una condizione forzata e in una comunità diffidente. Ascoltare il popolo di Dio, nella sua componente femminile, e riconoscerne in modo nuovo e più radicale la “eminentia auctoritatis” è oggi un compito inaggirabile. Non sarà un cammino breve, ma esso deve iniziare senza veti e senza resistenze di principio. Solo così potremo costruire una vera comunione. Se pensiamo di negare la realtà e di imporre il silenzio, come potremo realizzare una autentica comunione ecclesiale? Perché mai, in un tale contesto, parlare della “autorità femminile” dovrebbe essere considerato come un “turbamento della comunione”? Questa strategia del sospetto, che è tipica di una società chiusa, non si addice alla Chiesa. Essa non deve avere paura di esporsi alla verità, anche quando questa la costringe a mettersi in cammino, a rivedere i propri progetti e a convertirsi. Così anche lo “scandalo” deve essere completamente riconsiderato: non è scandaloso voler approfondire il profilo autorevole della componente femminile della Chiesa, per attribuire ad essa il dovuto riconoscimento; scandaloso è, piuttosto, utilizzare ogni tipo di argomento – storico, cristologico, antropologico, mariologico – pur di impedire alla donna ogni rilevanza in fatto di autorità. Capovolgere la concezione di che cosa è scandalo – come suggerisce Francesco in AL – è l’inizio di un cammino promettente e di un processo di integrazione. Scandaloso non è parlarne. Scandaloso è tacere e ancor più chiedere agli altri di tacere.

Francesco ai teologi argentini e alle future “accademie cristiane”.

La voce del Concilio Vaticano II, che da queste forme di mentalità ristretta e asfittica viene puntualmente offuscata, trova provvidenzialmente ben altra risonanza nel magistero di Francesco, che in diversi casi ci ha chiesto di “ascoltare” e di renderci attenti alla realtà, il cui primato sulla idea è un dato inaggirabile del suo magistero. Vorrei ricordare due punti particolarmente espliciti in questo campo di riflessione.

Scrivendo alla Università Cattolica di Buenos Aires (2015), Francesco ha detto:

Le nostre formulazioni di fede sono nate nel dialogo, nell’incontro, nel confronto, nel contatto con le diverse culture, comunità, nazioni, situazioni che richiedevano una maggiore riflessione di fronte a quanto non esplicitato prima. Perciò gli eventi pastorali hanno un valore considerevole. E le nostre formulazioni di fede sono espressione di una vita vissuta e ponderata ecclesialmente.

In un cristiano c’è qualcosa di sospetto quando smette di ammettere il bisogno di essere criticato da altri interlocutori. Le persone e le loro diverse conflittualità, le periferie, non sono opzionali, bensì necessarie per una maggiore comprensione della fede. Perciò è importante chiedersi: A chi stiamo pensando quando facciamo teologia? Quali persone abbiamo davanti? Senza questo incontro con la famiglia, con il Popolo di Dio, la teologia corre il grande rischio di diventare ideologia. Non ci dimentichiamo, lo Spirito Santo nel popolo orante è il soggetto della teologia. Una teologia che non nasce nel suo seno ha l’olezzo di una proposta che può essere bella, ma non reale.

Ma, in modo ancora più significativo, nello straordinario proemio della Costituzione Apostolica Veritatis Gaudium (2018) troviamo questa espressione grandiosa e profetica del magistero che oggi ci è richiesto:

L’esigenza prioritaria oggi all’ordine del giorno, infatti, è che tutto il Popolo di Dio si prepari ad intraprendere “con spirito” una nuova tappa dell’evangelizzazione. Ciò richiede «un deciso processo di discernimento, purificazione e riforma» …Questo ingente e non rinviabile compito chiede, sul livello culturale della formazione accademica e dell’indagine scientifica, l’impegno generoso e convergente verso un radicale cambio di paradigma, anzi – mi permetto di dire – verso «una coraggiosa rivoluzione culturale»[27]. In tale impegno la rete mondiale delle Università e Facoltà ecclesiastiche è chiamata a portare il decisivo contributo del lievito, del sale e della luce del Vangelo di Gesù Cristo e della Tradizione viva della Chiesa sempre aperta a nuovi scenari e a nuove proposte.”

In questa prospettiva occorre dialogare, ascoltare e sognare, non tacere. Una chiesa viva parla e discute, anche delle cose più fondamentali. Così essa potrà generare silenzio: il silenzio della comunione, non il silenzio della imposizione. La intelligenza della fede non può mai accontentarsi di tale silenzio imposto: deve produrre il silenzio della comunione attraverso il dialogo e il confronto. Altrimenti, per usare una bella espressione di S. Tommaso, rischieremo di scontrarci con questa lucida denuncia della riduzione della teologia ad atto di autorità

“Se noi risolviamo i problemi della fede col metodo della sola autorità, possediamo certamente la verità, ma in una testa vuota”.


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