Intervista all’Ordinario militare Mons. Pelvi (Jesus di luglio 2012)
Monsignor Pelvi parla con Jesus nei
giorni che seguono il Family 2012.
Entra nel suo ufficio al termine di
un momento conviviale con una delegazione
dell’Ordinariato militare della Colombia,
reduce dal VII Incontro mondiale delle famiglie,
che ha colorato Milano, e in procinto di
tornare in Sudamerica: «Nel mondo esistono
38 Ordinariati militari che operano in altrettanti
Stati; tutti svolgiamo la nostra missione
secondo le linee indicate da Giovanni
Paolo II nella costituzione apostolica Spirituali
militum curae del 1986». Quello italiano
(che pubblica una rivista, Bonus miles Christi,
e cura, aggiornandolo di continuo, il sito
www.ordinariato.it) ha sede a Roma, al numero
37 della Salita del Grillo, tra i Fori imperiali
e piazza Venezia. «Essere cristiani ed essere
militari non sono dimensioni divergenti, ma
convergenti e coerenti, in quanto la condizione
militare in un’autentica visione cristiana
della vita trova il suo fondamento morale
nella logica della carità», ragiona monsignor
Pelvi, cominciando a rispondere agli interrogativi
che ruotano attorno al se e al come
Vangelo e Forze armate possano conciliarsi.
«Queste domande hanno sempre interessato
le comunità cristiane, provocando riflessioni,
inquietudini, lacerazioni, approfondimenti
dottrinali e pastorali. Dinanzi al nodo
della guerra, con le violenze e il carico di sangue
che comporta, la vocazione alla santità
del militare rischia di non essere compresa,
particolarmente da coloro che esaltano la
pace a oltranza». È una stoccata al vasto
fronte interno che, dalla Caritas a Pax Christi,
passando attraverso decine di gruppi,
movimenti e associazioni, ha praticato l’obiezione
di coscienza e si batte per il disimpegno
dell’Italia dalle missioni militari sparse
per il pianeta? «Nessuna voglia di azzuffarmi
con nessuno», replica pacato Pelvi, «tanto
meno con fratelli e sorelle che condividono
la mia stessa fede in Cristo. Abbiamo sottolineature
diverse, ci sta. In seno alla Conferenza
episcopale italiana, poi, siedo accanto a
monsignor Giuseppe Merisi, presidente della
Caritas italiana, e a monsignor Giovanni
Giudici, presidente di Pax Christi, due confratelli
nell’episcopato, due amici. No, no, nessuna
polemica, mi creda».
«Professiamo tutti la nostra fede nel
Dio della pace. Non uccidere rimane per tutti
il quinto comandamento. “Rimetti la spada
nel fodero” è l’invito di Gesù che attraversa
il tempo e lo spazio giungendo intatto fino a
noi. Ma sappiamo anche che se di fronte a
noi c’è un dover essere, illuminato dalla pienezza
della Grazia, noi siamo immersi in una
realtà minata dal peccato. In altre parole: fedele
all’insegnamento del suo Signore, la
Chiesa ha sempre tentato di prevenire, limitare e moralizzare la guerra, ma non si è mai
lasciata intimorire dinanzi all’esigenza di un
confronto concreto, non retorico con essa.
La guerra, infatti, non è estirpata dalla condizione
umana e gli uomini, in quanto peccatori,
sino alla venuta di Cristo saranno minacciati
da conflitti. Eppure anche nelle guerre, i
credenti rispondono alla chiamata universale
alla santità, facendo prevalere le virtù sui vizi,
gli ideali sulle ideologie, gli interessi comuni
su quelli individuali, auspicando alternative
di giustizia e di pace. Perciò, la vita militare è
stata in passato e può essere ancora oggi luogo,
strumento ed epifania di santità per quei
laici che, dediti al servizio della Patria, espletano
la loro professione militare come ministri
della sicurezza e della libertà dei popoli. Le
sto ripetendo quello che trova solennemente
scritto al numero 79 della Gaudium et
spes, la costituzione pastorale sulla Chiesa
nel mondo contemporaneo, uno dei documenti
più belli del Vaticano II».
Siamo a un passo dalla teoria della
guerra giusta, eccellenza… «Mutano i tempi,
muta il diritto, muta la riflessione teologicopastorale
», replica monsignor Pelvi. «La
guerra non c’è più. O meglio non c’è più la
guerra come la si è sempre intesa, ovvero
come un confronto armato, sanguinoso, ma
regolato da alcune norme, che oppone due
eserciti, espressione di due Stati, animati da
voglia di conquista e da desideri di annessione.
Si fa un gran parlare di guerra asimmetrica.
Per il mio ruolo e i miei compiti preferisco
limitarmi ad alcune osservazioni. Quelle
a cui partecipa l’Italia sono missioni decise
da legittime autorità sovrannazionali in accordo
con quanto previsto dal capitolo VII
della Carta dell’Onu che disciplina l’uso della
forza a tutela dei più deboli e dei perseguitati.
Dal punto di vista tecnico-giuridico sono
operazioni di polizia internazionale in cui
l’aspetto militare è affiancato in maniera significativa
da attività di cooperazione».
Una situazione ibrida, in cui guerra e
pace si confondono e la possibilità di
orientare le coscienze può appannarsi…
«La situazione appare ibrida se letta da
fuori, con un pizzico di pregiudizio. Se ci si cala
nella vita concreta, invece, la prospettiva si
chiarisce. Emerge così quanto i nostri militari,
impegnati in missioni di sicurezza all’estero,
sostengano la democrazia, aiutino lo sviluppo
dei popoli, costruiscano la pace in luoghi
martoriati. Lo documentano anche le tante
onlus costituite da soldati italiani al rientro
dalle loro missioni, mediante le quali si propongono
di proseguire il loro impegno e di
ampliarlo con la collaborazione degli amici.
Sono canali sotterranei, e poco visibili, di carità,
ma offrono grande speranza. Alcuni nostri
militari in Kosovo hanno devoluto le tredicesime
per acquistare scarpe ai bambini
del luogo. E un sottufficiale mi ha detto: “Al
rientro in famiglia, l’ho raccontato ai miei figli
per far comprendere loro l’importanza di fare
qualche sacrificio in favore di chi ha molto meno di noi”. C’è comunque una lezione
più generale da trarre…». Quale? «Proprio
motivando l’impegno per la pace come forma
autentica di fedeltà a Dio sarà possibile
passare dalle condizioni, ormai impossibili, di
una guerra giusta alle condizioni, viceversa
possibili, di una pace giusta, vivendo conversioni
di mentalità e di scelte, in ascolto delle
esigenze del Vangelo e dei segni dei tempi.
Servire l’uomo nella carità non è forse servire
Dio, sempre e dovunque?».
Cosa fanno allora i cappellani militari?
«Annunciano la Salvezza, predicano la Parola
di Dio, si fanno prossimo dei soldati e delle
loro famiglie, asciugano le lacrime. I nostri
militari sono dei fedeli che amano la vita e
proprio in questo trovano la forza, il coraggio,
l’entusiasmo, la passione per aiutare chi
invece rischia di perderla. A noi cappellani
spetta accompagnarli e sostenerli, contribuendo
a costruire la comunità militare in
modo che sia sempre più ricca della capacità
di servire per amore l’umanità». Si muore
e si uccide, in missione. «E si rimane feriti
o mutilati. Ci si misura con il dolore che devasta
la propria esistenza e quella altrui. Ci
si confronta con l’odio che può irrompere
anche nel cuore più buono. Si capisce cosa
significhi deporre la voglia di vendetta, quanto
costi il perdono cristiano che porta, con
la Grazia di Dio, ad amare il nemico. Nessun
versetto del Vangelo rimane estraneo,
la sapienza biblica permea ogni azione. Sempre
e comunque indichiamo il mistero della
Croce. Neppure Gesù spiega il dolore, ma
l’assume su di sé e lo redime».
Icappellani impegnati all’estero sono poi
quasi degli avamposti nel campo del dialogo
interreligioso… «Attualmente abbiamo
quattro sacerdoti in Afghanistan, uno in
Libano e uno in Kosovo, più un altro ancora
imbarcato con la Marina, attualmente al largo
del Corno d’Africa. Dai loro racconti
emerge quanto sia prezioso il contatto con
esponenti di altre religioni. Si manifesta sempre
un grande rispetto. Alcuni spazi e servizi
sostenuti dall’Ordinariato italiano divengono
luoghi di incontro e di amicizia a disposizione
anche dei cappellani di altre confessioni.
Una collaborazione molto bella c’è in Kosovo,
dove i nostri militari custodiscono fra
l’altro alcuni monasteri ortodossi, e questo
fa crescere la fiducia reciproca e il dialogo».
Avete un seminario vostro per la preparazione
dei cappellani? «Sì, è alla Cecchignola,
alle porte di Roma. Accoglie giovani
provenienti dalle Forze armate che sentono
la vocazione. I seminaristi sono nove. Prima
dell’ordinazione ci tengo che facciano esperienze
pastorali in parrocchia, nelle varie diocesi
italiane. La Chiesa è una. Ovunque siamo
chiamati a gettare semi di Vangelo testimoniando
la bontà di Dio nelle realtà più disagiate
e complesse, talvolta addirittura terribili,
non importa se queste si chiamano Casoria o
Quarto Oggiaro, Le Vallette o Bala Murgab,
per citare un avamposto in Afghanistan. Certo,
noi abbiamo una missione specifica da
compiere. La santità di Dio arricchisce ogni
professione, anche quella militare, per cui
“pretendere di eliminare la vita devota dalla
caserma del soldato”, per dirla con san Francesco
di Sales, è un errore, anzi un’eresia».
Siamo daccapo. Si può diventare santi
facendo il soldato? «Sì, si può», conclude
monsignor Pelvi. «Dal centurione a Cornelio,
da Sebastiano a Maurizio, da Martino a
Giovanni XXIII, da Faà di Bruno a Secondo
Pollo, da Carlo Gnocchi a Nuno Àlvares
Pereira, non mancano volti credibili della
santità militare, di cui la Chiesa si rallegra,
additandoli come modelli di fede e di preghiera,
al servizio del bene comune e della
gloria di Dio».
Alberto Chiara
Afghanistan, gli aerei italiani bombardano i talebani
di Gianandrea Gaiani (Il Sole 24 ore del 6-7-2012)
I quattro cacciabombardieri italiani AMX Acol del 51° Stormo
dell’Aeronautica militare schierati a Herat effettuano diverse
operazioni di bombardamento contro gli insorti. Le fonti del Sole 24
Ore non rivelano il numero di raid messi a segno né il numero di
bombe sganciate o di talebani uccisi ma è certo che le incursioni
sono state effettuate sia nel settore occidentale del Paese posto
sotto il comando italiano sia in altre aree su richiesta del comando
alleato di Kabul. Il pieno coinvolgimento dei jet italiani nei raid aerei
condotti dalle forze aeree alleate è stato autorizzato in gennaio dal
ministro della Difesa, Giampaolo di Paola, dopo due anni di impiego
dei velivoli limitato alla ricognizione o, in caso di emergenza, all’attacco con i soli cannoncini di
bordo. Già l’anno scorso l’allora ministro Ignazio La Russa aveva cercato invano il consenso del
Parlamento ad autorizzare l’impiego di bombe sui nostri velivoli schierati a Herat.
Dopo aver informato le Commissioni Difesa di Camera e Senato il 28 gennaio scorso Di Paola
annunciò che «tutti i mezzi che abbiamo useranno tutte le loro capacità perché abbiamo il
dovere, oltreché il diritto, di difendere i nostri militari, gli amici afghani e gli alleati». Da allora
però nessuna notizia è stata resa pubblica circa i raid aerei italiani e il loro esito effettuati in un
contesto di crescenti tensioni tra le forze alleate e il Governo afghano per i danni collaterali,
cioè le vittime civili provocate accidentalmente dai militari dell’International Security Assistance
Force. Anche i jet italiani, inseriti nella Joint air task Force, applicano le sempre più stringenti
regole d’ingaggio rese necessarie dalla priorità di ridurre i danni alla popolazione e che di fatto
impediscono di sganciare ordigni in presenza anche solo supposta di civili e impongono
l’impiego di bombe sottopotenziate per limitare il raggio d’azione delle esplosioni.
Gli AMX non sono certo al loro primo impegno bellico. Vennero impiegati nel 1999 sulla Serbia
e, aggiornati nella versione Acol, l’anno scorso sulla Libia in bombardamenti di precisione.
Imbarcano bombe a guida laser e satellitare Gbu-16, Gbu-32 oltre a bombe dotate del sistema
di guida ad alta precisione Lizard. In questi giorni gli AMX sono impegnati con altri aerei alleati
per attaccare i talebani nel sud della provincia di Farah, nell’ambito di un’offensiva italo-afghana
denominata “Rete per gamberi” tesa a scardinare le roccaforti degli insorti in Gulistan, distretto
dal quale gli italiani si ritireranno in ottobre e che verrà presidiato da sole forze afghane.
L’operazione vede impegnati circa 3 mila militari italiani e afghani, droni Predator ed elicotteri da
trasporto e attacco.
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