Il dramma e la speranza di Mosul dinanzi alla ferocia dell’Isis
Pubblicato: 24/10/2016 14:40 CEST Aggiornato: 24/10/2016 14:40 CEST
di Martina Pignatti Morano di “Un ponte per…”
A una settimana dall’inizio dell’offensiva militare per la liberazione di Mosul, noi che lavoriamo in quel governatorato (Ninive) dal 2009 e seguiamo in realtà da marzo l’avvio delle operazioni militari contro Daesh, proviamo gli stessi sentimenti contrastanti degli iracheni. Mentre firmiamo i contratti di operatori di pace iracheni che in quattro distretti di Ninive lavoreranno sulla prevenzione e la mediazione dei conflitti locali, mentre ci attrezziamo per partecipare all’accoglienza di chi fugge con il nostro programma di emergenza, ed estendiamo i progetti già in corso per includere i nuovi sfollati in arrivo da Mosul, osserviamo con profonda preoccupazione le scelte fatte dalla comunità internazionale.
La liberazione deve avere una dimensione militare, ma bastava interrompere i bombardamenti americani per 20-30 giorni per assicurare con i risparmi la copertura del piano di risposta umanitaria dell’Onu per l’Iraq del 2016, al momento finanziato al 65%. E molte altre risorse potevano essere messe in campo dalla diplomazia per pre-negoziare strategie di gestione dei conflitti tra comunità e forze politiche irachene che dovranno spartirsi il potere nelle aree liberate. La cittadina a maggioranza cristiana di Qaraqosh è stata liberata, con somma gioia di molti nostri operatori che lì vivevano con le loro famiglie. Ma prima di immaginare il loro ritorno si dovrà attendere un accordo tra esercito iracheno e peshmerga curdi sul controllo del distretto. In molti di questi villaggi dunque la liberazione è solo militare, non è restituzione ai civili.
Inoltre, come scrivono attivisti di Mosul sulla pagina facebook di Mosul Eye, il vero motivo per cui gran parte dei combattenti di Daesh non scapperà verso la Siria, e resisterà in città fino alla morte con le rispettive famiglie, è che questi sentono di non avere scampo. Nessun accordo e nessun lavoro diplomatico è stato fatto per immaginare un processo di riconciliazione e superamento delle vendette verso i tanti iracheni che hanno collaborato con Daesh, spesso per costrizione, o di reinserimento dei tanti ragazzini a cui Daesh ha fatto il lavaggio del cervello prima di metter loro in mano un fucile. Questi minorenni verranno probabilmente imprigionati, spesso torturati, a volte giustiziati senza processo come i combattenti maggiorenni. Parliamo di migliaia di persone che non possono essere giustiziate in massa, molti dei quali non hanno alcuna aspirazione al martirio, ma che in mancanza di alternative sono disposti a resistere per mesi a Mosul, usando i civili come scudi umani, e armi chimiche per fare il maggior danno possibile all’esercito iracheno.
Già giungono notizie di campi di sfollati vicino a Qayyarah dove famiglie sunnite di sospetti simpatizzanti di Daesh, incluse le loro spose bambine e i rispettivi figli, sono soggetti alle vessazioni e ritorsioni delle tribù circostanti. Fermare questi episodi è il primo compito della diplomazia nazionale e internazionale, questo doveva essere il primo fronte. Perciò, a due giorni dall’inizio dell’offensiva, alcune Ong internazionali tra cui “Un ponte per…” e “Geneva Call”, hanno radunato a Dohuk 130 rappresentanti di associazioni, autorità locali e religiose di tutte le comunità di Ninive, che hanno firmato un appello congiunto alle forze militari per la protezione dei civili durante e dopo l’offensiva, indipendentemente dalla loro etnia e religione. Evitare il reclutamento di minori, violenze sessuali, esecuzioni sommarie e bombardamenti indiscriminati è importante anche per il futuro: ricostruzione e riconciliazione non possono scaturire da atrocità.
È essenziale inoltre che si faccia chiarezza con gli iracheni sui reali obiettivi di questa offensiva. In molti si chiedono perché sia stato sferrato l’attacco su Mosul invece di liberare altre città come Hawija o Rawa, più vicine a Baghdad, che sono al momento alle spalle dell’esercito iracheno. Osservando il ruolo giocato da Brett H. McGurk, inviato speciale di Obama per la coalizione anti-Daesh, nel negoziare i patti militari tra forze politiche irachene possiamo indovinare che la strategia tenda a tagliare la testa del serpente, piuttosto che iniziare pestandogli la coda. Ma il vero obiettivo dell’amministrazione americana oggi, oltre alla speranza che i progressi militari in Iraq aiutino la Clinton alle elezioni presidenziali, è affermare un nuovo modello nella lotta contro Daesh, alternativo a quello iraniano basato sul sostegno alle milizie sciite. Per rompere l’asse Baghdad-Teheran e scongiurare i pericolo che tutti gli attori iracheni iniziassero a vedere greggio all’Iran, McGurk ha negoziato un accordo tra il primo ministro iracheno Al-Abadi e il presidente della regione del Kurdistan iracheno, Barzani, per la vendita del petrolio alla Turchia, spartendosi i proventi, e per la collaborazione militare nell’offensiva di Mosul. In questo momento ad entrambi serviva deviare l’attenzione dalle proteste popolari contro i rispettivi governi, quindi l’accordo sembra reggere, ma non è basato su una visione comune per il futuro.
Daesh sa bene che le alleanze politiche si possono rompere, e per questo ha sferrato un attacco a Kirkuk, città in cui possono entrare sia le milizie sciite che le forze curde di Talabani, avversarie dei peshmerga di Barzani. Non c’era speranza che la città cadesse sotto il controllo di Daesh ma sicuramente l’offensiva poteva far traballare le alleanze e questo continuerà ad essere l’obiettivo strategico del “Califfato”. Fa ben sperare invece la scelta del leader sciita Moktada al-Sadr, che ha convocato a Najaf il 18 ottobre tutti i leader delle principali milizie sciite, alleate o no delle brigate sotto il suo controllo, per rafforzare il patto di non ingresso a Mosul e non partecipazione diretta all’offensiva su Ninive, se non a protezione dei distretti circostanti a maggioranza sciita. Si dovrebbero prevenire così massicce violazioni dei diritti umani commesse da tali milizie contro la popolazione sunnita durante la cosiddetta liberazione di Falluja e Ramadi. Finché le milizie filo-iraniane si terranno fuori da Mosul lo faranno anche le truppe turche, altrimenti Erdogan ha già annunciato di voler entrare nel cuore della battaglia, in una pericolosa escalation.
Le truppe irachene avanzano quindi verso Mosul, pur facendo gravi errori nella comunicazione con la popolazione dei villaggi che si apprestano a liberare. Alcune delle 284 persone giustiziate a Mosul nei giorni scorsi venivano da villaggi in cui la popolazione si è sollevata contro Daesh, nell’illusione dell’arrivo imminente dell’esercito iracheno, che non è riuscito a raggiungerli. Le famiglie ostili sono state sequestrate da Daesh e portate a Mosul per farne scudi umani, gli uomini e alcuni bambini giustiziati. Questo errore di valutazione ricorda quello fatto nel lontano 1991 da tante tribù e forze sciite del Sud dell’Iraq, ribellatesi a Saddam nell’attesa dell’esercito americano, che li ha poi traditi rinunciando a portare a termine l’offensiva, per paura di rafforzare l’Iran. Speriamo che oggi nessuno tradisca le speranze della popolazione di Ninive, che non ne ha più un briciolo da sprecare.
Comincia quindi un periodo potenzialmente molto lungo di attesa e terrore per gli abitanti di Mosul, che in gran misura non possono più nemmeno fuggire, sapendo inoltre che non c’è posto per 1 milione e mezzo di persone nei campi profughi che l’Onu e le istituzioni irachene stanno allestendo. I giovani tentano coraggiosamente di scherzare su facebook, usando la satira o i graffiti scritti di notte sui muri contro il “Califfato”. Daesh ha minacciato di incendiare fiumi di petrolio nelle trincee attorno a Mosul appena si avvicineranno le truppe irachene, e le immagini già rievocano i roghi neri della prima guerra del Golfo. Ma noi di “Un ponte per…” vogliamo dare voce alle speranze dei tanti iracheni che già oggi, durante la battaglia, lavorano per la riconciliazione e per la possibilità del ritorno a Ninive di tutte le comunità di sfollati, minoranze incluse.
A marzo, mentre iniziava l’offensiva militare a sud di Mosul, eravamo a Dohuk in un forum sulla pace, la coesistenza e la riconciliazione che abbiamo organizzato con enti locali, leader delle comunità e associazioni irachene. Oltre 300 persone, in maggioranza giovani, hanno tessuto strategie e condiviso metodologie per il lavoro di pace, chiudendo il forum con un ballo collettivo sotto gli occhi sorridenti dell’imam di Mosul, che in altre circostanze avrebbe fortemente disapprovato quella danza. Lui, che ha dovuto cedere la sua moschea al leader di Daesh, Abu Bakr al-Baghdadi, ed è sfuggito a diversi attentati, lavora dall’esilio per proteggere la sua comunità dall’odio. Nella ricerca di un equilibrio tra i sogni di quei giovani ezidi, arabi e curdi, uomini e donne, che ballavano davanti a lui, tra la visione politico sociale di quell’imam e dei leader politici che sedevano lì accanto, sta la speranza per Mosul e la sua gente.
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