L’EREDITÀ SPIRITUALE DI GIOVANNI FRANZONI
Raniero La Valle
La morte di Giovanni Franzoni è un lutto per la Chiesa italiana ed è – come del resto lo fu quella di don Milani, il cui valore di recente è stato riconosciuto dai capi della Chiesa cattolica – un lutto per la società italiana. Per la società e la Chiesa, perché all’incrocio (o sulla croce) di questi due modi di essere degli uomini insieme, si sono consumate le vite e le testimonianze di “dom” Franzoni come di don Milani.
È un’interazione che di solito non viene evocata, quando si parla della morte di un uomo di Chiesa, così come si tace della Chiesa quando muore un uomo delle istituzioni, magari noto come “non credente”, come fu di recente nel caso di Stefano Rodotà. Tuttavia grande è l’influenza dell’uno e dell’altro, quando la personalità è forte e l’impegno pubblico è strenuo, su ambedue i mondi, religioso e civile.
Ciò vale soprattutto per la storia italiana dopo il Concilio Vaticano II. È stato poco studiato (e per nulla dalla cultura laica) l’impatto che il Concilio ha avuto sullo sviluppo della società, anche politica, italiana, sull’evoluzione del diritto, sulla storia delle istituzioni civili. Eppure è stato un impatto fortissimo, decisivo. Basti pensare alla revoca della legittimazione sacrale al partito cattolico (fu quella per l’Italia la vera fine della concezione carolingia o costantiniana del potere, della “cristianità”), basta pensare all’irrompere della secolarizzazione, veicolata dal Sessantotto, che la Chiesa aveva anticipato nel Concilio; basta pensare alla variabile introdotta nella politica italiana dall’incognita referendaria, inaugurata dal “NO” cattolico all’abrogazione della legge sul divorzio, e poi della 194 sull’aborto; basta pensare al rinnovamento del diritto di famiglia, con la sottrazione della donna al dominio maritale; basta pensare all’interdetto che prima del Concilio gravava perfino sul dialogo con i socialisti (i “punti fermi”!), e che diventa dopo il Concilio alleanza di governo con i comunisti, pagata col sangue di Moro e con la morte angosciata di Paolo VI. È chiaro che un così grande sommovimento storico ha portato con sé frutti e scorie, grano e zizzania, che non si possono separare ora, ci penserà la storia, o la coscienza profonda del popolo, a farne l’inventario.
Ora, in tutti i passaggi di questo incrocio di Chiesa e società, di fede e storia, dopo il Concilio, Giovanni Franzoni è stato al centro, è stato coinvolto, è stato protagonista: ha scelto e ha dato legittimità e forza alla libertà cristiana di scegliere.
Per questo la sua vita, dopo l’avvio fulgente come abate di San Paolo fuori le Mura fino al 1973, è stata vissuta nella solitudine istituzionale, attraverso i vari passaggi delle dimissioni da abate, della sospensione a divinis (1974) e della riduzione allo stato laicale (1976); solitudine istituzionale che lo ha visitato anche nella morte, avvenuta il 13 luglio mentre era solo nella sua casa di Canneto (Rieti), e che è stata lenita e compensata, fino alla fine della vita, dalla sequela e dall’affetto della comunità di base che egli aveva fondato nell’androne di via Ostiense al momento del suo esodo dalla basilica.
Quell’esodo aveva anticipato l’immagine della “Chiesa in uscita” che sarebbe stata resa canonica da papa Francesco; ed anche l’atto magisteriale che l’aveva preceduta, la lettera pastorale scritta come abate di San Paolo, “La terra è di Dio”, era stata la proposta di una uscita della Chiesa dall’involucro di una Chiesa temporalista; infatti prendendosi cura della terra anticipava la “Laudato sì” di papa Francesco, ma nello stesso tempo affermava che la cura della terra richiedeva anche un atteggiamento di povertà e di spossessamento, a cominciare dalle proprietà fondiarie che la Chiesa aveva a Roma e dalle speculazioni edilizie che vi prosperavano, contro cui doveva levare la sua voce perfino un’istanza istituzionale della Chiesa romana, nel famoso convegno del febbraio 1974 su “i mali di Roma”.
Ma se lì doveva cominciare la solitudine istituzionale di Giovanni Franzoni, non per questo veniva meno il rispetto e la stima – anche se anonima – di molti uomini di Chiesa; e fu una bella sorpresa quando due anni fa alla presentazione della sua autobiografia nella grande sala dei Musei capitolini, si presentò inaspettato il vescovo ausiliare di Roma, Matteo Zuppi, ora arcivescovo di Bologna. Era l’autobiografia di “un cattolico marginale”, e la presentammo al Campidoglio, di cui del resto Franzoni era stato per alcuni mesi al servizio, come consulente dell’Assessorato “Roma cambia millennio, progetti per una città aperta e solidale”, che avevamo messo su in vista del 2000 (ma poi rapidamente stroncato) all’ombra della giunta Rutelli.
Un altro ponte lanciato sulla sua solitudine fu l’intervento richiestogli per un convegno biblico, e l’anno scorso quando l’attuale abate di San Paolo e il cardinale Harvey, arciprete della basilica, fecero visita alla comunità di via Ostiense e insieme a lui hanno letto la pagina paolina sulla diversità dei doni in un unico Spirito.
Giovanni Franzoni continuerà a vivere in ciò che ha seminato, e anche nella lezione delle contraddizioni che ha attraversato. Non ha fondato un ordine, un’obbedienza, una chiesuola con pretese di durata, ma lascia un’eredità spirituale che sarà custodita da quanti lo hanno amato e poi ancora sarà riscoperta, come Dio vorrà.
Alla comunità di San Paolo e alla moglie Yukiko le condoglianze fraterne del sito Chiesa di tutti Chiesa dei poveri.
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