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Noi Siamo Chiesa

Sezione italiana del movimento internazionale “We Are Church” per la riforma della Chiesa cattolica

“Lettera alla Chiesa che è in Italia”

 

Alla Chiesa che è in Italia

a cinquant’anni dall’apertura del concilio Vaticano II*

 

 

.

Nel prendere la parola, come battezzati, sentiamo la

necessità di esprimere la nostra gratitudine per aver ricevuto

l’annuncio evangelico della salvezza da quei credenti

che ci hanno preceduto, nelle nostre comunità (e talvolta in

modo umile e oscuro), nel nostro paese e nel mondo intero,

per la testimonianza di fede che essi ci hanno offerto, per il

coraggio che hanno mostrato nel non annacquare la buona

notizia del Vangelo e per l’impegno che hanno assunto

nell’edificare una Chiesa più libera, più misericordiosa, più

semplice, più audace, più aperta, più fraterna, più evangelica

e conciliare. Il dono che abbiamo ricevuto è insieme un

compito affidato alla nostra responsabilità, perché porti

ancora frutti al popolo di Dio.

Esprimiamo anche la nostra gratitudine a tutti gli uomini

di buona volontà che, all’interno della propria fede,

religione, cultura, cercano la verità, la pace e la giustizia.

La loro testimonianza e la ricerca comune ci aiutano a purificare

la nostra stessa fede in Cristo.

Proprio in nome di questa responsabilità, sentiamo di

non poter tacere di fronte ad alcune sfide che il nostro tempo

pone alla fede cristiana, perché riteniamo che non siano

adeguatamente affrontate dall’annuncio e dalla pastorale

così come oggi sono tendenzialmente impostate.

Nel cuore della storia del nostro tempo

In quali scenari epocali ci troviamo a vivere e a testimoniare

il Vangelo?

Contesti ambivalenti. La globalizzazione determina

contesti ambivalenti che, mentre offrono – grazie ai nuovi

mezzi di comunicazione – occasioni di dialogo e integrazione

culturale, nonché di sviluppo sul piano economico e sociale,

sovente sono connotati da forme di degrado e sfruttamento

a diversi livelli. Ancora oggi sono evidenti sofferenze

sociali e personali che rendono attuale l’incipit della Gaudium

et spes: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce

degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro

che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le

angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente

umano che non trovi eco nel loro cuore» (n. 1, EV 1/1319).

Si possono peraltro notare alcuni segni di novità positiva,

come la più diffusa sensibilità per la libertà di coscienza e di

espressione, la richiesta diffusa di equità nella ripartizione

delle risorse e forme di cooperazione per il superamento del

sottosviluppo, la difesa della dignità delle donne e dei bambini,

la presenza di movimenti per la pace e per i diritti umani.

Tra disagio e speranza. Nella Chiesa cattolica si nota, in

Occidente, il diffondersi di situazioni di disagio di fronte

alla difficoltà della gerarchia di rispondere secondo lo spirito

del Vangelo a questi «segni dei tempi» e di realizzare,

con un positivo confronto tra pastori e fedeli, atteggiamenti

e pratiche di ascolto, sinodalità e corresponsabilità come

frutto e sviluppo del concilio Vaticano II.

Sono presenti però in tutto il mondo esperienze vive di

comunità, di Chiese locali, di gruppi, di laici, di presbiteri,

di religiosi e di vescovi, che cercano di testimoniare il Vangelo

e si impegnano per un mondo più giusto e pacifico e

per la promozione dei più deboli, anche con rischio e sacrificio,

in certi casi, della vita stessa e cercano di costruire un

vissuto di Chiesa come comunità, in cui sia valorizzata la

comune dignità battesimale.

Con questi sentimenti e con il senso vivo delle responsabilità

che comportano, ci pare necessario compiere il tentativo

di comprendere quanto il Concilio possa suggerire oggi

per la vita della Chiesa.

Leggere i nuovi segni dei tempi:

compito e chance

La fedeltà alla metodologia conciliare ci induce a leggere

in profondità i segni dei tempi, operandone un discerni-

mento evangelico. Tre segni ci pare siano oggi la parola

più chiara che lo Spirito suggerisce alla Chiesa.

Dire Dio. Il primo segno è, per noi, radicale: dire Dio.

Nei cinquant’anni che ci separano dal Concilio il processo

di secolarizzazione ha cambiato profondamente il rapporto

della nostra società con il «religioso» e con la tradizione

cristiana. «Dire Dio» significa dunque consapevolezza della

necessità del ritorno ai temi essenziali del Vangelo e, insieme,

coscienza della complessità culturale e delle sfide

reali che ciò comporta: il mondo ha sete di Dio, ma non

necessariamente del Dio cristiano, mostra spesso nuove

istanze di spiritualità, non facilmente decifrabili, accanto a

forme di religiosità laiche, secolari, individuali e chiede un

rapporto con la trascendenza più vicino al suo percorso di

vita e in «presa reale» con esso.

«Dire Dio, il Dio di Gesù di Nazaret» nel pluralismo

culturale, valoriale e religioso del nostro tempo, che non va

demonizzato, ma accolto e fatto fermentare. Questa è la

sfida esistenziale, paradossale e radicale insieme, che sta

davanti a noi. Sarebbe bene che nell’occasione dell’Anno

della fede l’attenzione si rivolgesse, più direttamente, alla

Parola del Vangelo piuttosto che al Catechismo della Chiesa

cattolica.

Il contesto multiculturale. Un secondo segno è il contesto

multiculturale nel quale viviamo. I grandi movimenti

migratori, che stanno cambiando la fisionomia delle nostre

città, ci costringono ad allargare gli orizzonti, a ripensare il

nostro essere cittadini e credenti. Ciò che appare a molti

come minaccia, come un attentato alla nostra identità e al

nostro benessere, costituisce al contrario una grande opportunità

per ripensare il nostro appartenere alla grande

famiglia umana, della cui unione e riconciliazione la comunità

ecclesiale dovrebbe essere segno. Si impone così

l’elaborazione di un’etica della convivenza, dove il tema

dell’ospitalità dello straniero, singolarmente biblico, ci

chiede il riconoscimento dell’altro perché è il volto di Dio.

L’accoglienza non può essere stemperata in nome della difesa

di presunte identità cristiane; posizioni esplicitamente

razziste da parte di movimenti e partiti non devono trovare

silenziosi i pastori, né per conservare la contiguità con il

potere, né per timore di perdere appoggi.

L’immigrazione e l’arrivo di persone provenienti da altri

paesi hanno posto di fatto la questione del rapporto con uomini

e donne di altre religioni e confessioni cristiane, presenti

a volte anche in modo significativo nelle parrocchie. Sono

proprio le parrocchie il luogo opportuno in cui può essere

realizzato un vero ecumenismo di base, a un livello certamente

diverso rispetto a quello necessario del confronto teologico

e dei rapporti istituzionali tra le Chiese. Nell’opera di

evangelizzazione non può esserci, in nome del Vangelo,

concorrenza confessionale e proselitismo. Auspichiamo,

perciò, comunità aperte a ogni opportunità di conoscenza e

incontro con l’altro, che rispondano anche all’esigenza di un

dialogo interreligioso, con persone di religione non cristiana

(ebrei, musulmani, buddhisti, induisti…).

I poveri: una presenza a livello globale. Un terzo, importante

segno è l’emergere della presenza globale dei poveri

al di là della divisione Nord/Sud del mondo. Siamo chiamati

a pronunciare parole evangeliche per un superamento

di una crisi che non è la fine del mondo, ma di un modello

di mondo. È una crisi non solo economico-finanziaria,

ma anche culturale ed etica, una crisi di sistema e non solo

congiunturale, che necessita per il suo superamento non di

semplici aggiustamenti, ma di cambiamenti radicali e alternativi,

sia sul piano delle strutture che su quello degli

stili di vita. Il trionfo del capitalismo selvaggio senza regole,

la finanziarizzazione dell’economia, il presupposto individualistico,

che identifica nell’interesse individuale la molla

dello sviluppo economico, richiedono antidoti anche sul

versante culturale ed etico. In gioco è la visione dell’uomo

come persona, come essere relazionale, propria soprattutto

della concezione ebraico-cristiana.

Più in profondità questo indica la necessità di recuperare

la via non solo pastorale, indicata dal Concilio, di una

Chiesa povera e dei poveri che guarda e valuta la realtà a

partire dalla prospettiva dei poveri: una Chiesa che vive la

povertà e la sobrietà non come optional, ma come scelta

indilazionabile e costitutiva. È un potente segno evangelico

una Chiesa che dismette – a tutti i livelli – ogni vestigia di

potere e opulenza, per una testimonianza amorevole di

servizio e di sobria economia!

Camminare insieme:

le crisi e le parole che ci mancano

Auspichiamo che i pastori e i cristiani si esprimano con

franchezza, in particolare nei riguardi delle ingiustizie (a

livello locale e globale) e dei rapporti tra chi è debole e chi

detiene il potere, considerando che la responsabilità

dell’annuncio del Vangelo richiede sia la veracità, sia che il

parlare e l’agire della Chiesa riconoscano e favoriscano la

libertà e la promozione delle persone.

Ascolto e confronto libero. Riteniamo pertanto necessario,

nella Chiesa, il confronto libero tra le diversità esistenti:

la libertà di pensiero deve essere accettata senza emarginazioni,

avendo presente che l’obbedienza, in certi casi,

non è una virtù. Nella Chiesa locale vorremmo che il ministero

della sintesi e della guida da parte del vescovo non

prescindesse dall’ascolto delle diverse esperienze. Pensiamo

che la libertà di espressione, di ricerca teologica e la

presenza di un’opinione pubblica nella Chiesa non solo

non comprometterebbero, ma anzi darebbero maggior

forza e visibilità alla specifica missione del magistero dei

vescovi.

Aggiornamento/Cambiamento. Abbiamo l’impressione

che oggi il cambiamento o l’aggiornamento (parola conciliare

da recuperare decisamente) necessari nella Chiesa

stiano avvenendo più per necessità (in particolare per la

forte riduzione del numero di presbiteri) che per consapevolezza,

con il rischio concreto di soluzioni del tutto inadeguate,

di un coinvolgimento laicale solo come forza ausiliaria

e truppa di riserva, al di là di riconoscimenti formali.

Trovano così spazio pseudo-aggiornamenti in forme «settarie

» di vita religiosa: mondi sociali chiusi e autosufficienti,

che esigono una dedizione totale da parte dei propri

adepti, elargendo in cambio a chi aderisce una protezione

I l R e g n o – a t t u a l i t à 4 / 2 0 1 3 115

e un’assistenza morale e interiore integrali. Potremmo,

perfino, andare incontro a una settarizzazione anche delle

parrocchie, a scapito della vocazione e dell’indole universale

della Chiesa.

Sacerdozio comune. Secondo il Concilio, fonte e apice

della vita ecclesiale è la liturgia. Alla luce di questo principio

stupisce oggi una forte relativizzazione della riforma liturgica,

fino all’emanazione di norme che hanno reso più

facile l’uso del vecchio rito preconciliare.

Il problema più grave che stiamo vivendo nella vita ecclesiale

è la frattura tra «sacerdozio ministeriale» e «sacerdozio

comune» e la ri-gerarchizzazione autoritaria del loro

rapporto. Il conseguente rischio – pur non sempre immediatamente

percepibile – è l’inefficacia del «sacerdozio comune

» che ha, tra i suoi esiti visibili, anche la perdurante

flessione delle vocazioni al «sacerdozio ministeriale».

Sembra dunque evidente la necessità evangelica e anche

l’opportunità ecclesiale di tentare ogni sforzo per costruire

una Chiesa che coincida effettivamente con il popolo

di Dio, secondo le indicazioni conciliari. A partire dai livelli

minimi, eppure tanto significativi, della purificazione

del linguaggio (la riscoperta del sacerdozio comune dei fedeli

dovrebbe rendere sconveniente e obsoleto l’uso del

termine «sacerdoti» per indicare i soli presbiteri), per giungere

fino a ripensare profondamente le modalità tradizionali

della formazione dei presbiteri superando la «separatezza

» rispetto al popolo di Dio e alla storia dell’uomo.

Corresponsabilità. Quello che, comunque, sembra ancora

evanescente è il ruolo della comunità cristiana. Se la

comunità cristiana, quella che celebra abitualmente l’eucaristia

la domenica, non ha alcun ruolo, non ha alcuna

autonomia decisionale, inevitabilmente si riduce a essere

un’esecutrice, più o meno fedele, di ordini e di prescrizioni

che piovono dall’alto. Non c’è spazio allora, in questo

contesto, per un vera corresponsabilità laicale, anzi si favorisce

un’immagine della Chiesa in competizione più

che in dialogo col mondo, chiusa in se stessa più che aperta

ai «segni dei tempi»; col pericolo di un neo-trionfalismo

liturgico (magari implementato, come si è già accennato,

dal ritorno, legittimato ufficialmente, a ritualità preconciliari).

Autonomia della e dalla politica. Rischia di divenire dominante,

nella gerarchia, la convinzione che, per salvaguardare

l’esistenza stessa della Chiesa, occorra agire «politicamente

» ponendosi come un potere che si confronta

con i poteri della terra, considerando subordinato o perfino

disturbante il ruolo che i credenti dovrebbero laicamente

svolgere nella realtà civile e politica. Viene da domandarci

se l’autonomia della politica sia un principio acquisito

dalla gerarchia o non piuttosto uno slogan astrattamente

e retoricamente proclamato, ma praticamente smentito e

avversato.

Si corre così il rischio di far apparire la Chiesa come un

soggetto politico che vuole affermare il proprio potere, anche

riferendosi a un’autorità divina. Una parte notevole

del popolo di Dio ha la sgradevole sensazione di essere trattata

come incapace di compiere responsabilmente delle

scelte. Per non dire poi che la costituzione conciliare Gaudium

et spes richiama, nei paragrafi finali, il valore del dialogo

sia all’interno della Chiesa sia tra credenti e non credenti,

per lavorare insieme alla costruzione del mondo

nella vera pace (cf. n. 92), auspicando l’unione dei credenti

con tutti coloro che amano e cercano la giustizia per questo

compito immenso da adempiere su questa terra (cf. n. 93 e

anche n. 57): eppure sembra oggi più facilmente riemergere

un rapporto di contrapposizione, che rifiuta la fatica paziente

e mite di tale dialogo e delle conseguenti, possibili,

convergenze operative, dando alla Chiesa un volto inflessibile,

diffidente e ostile.

Occorre allora serenamene riconoscere che queste deviazioni

dalla ‘strada maestra’ del Concilio hanno condotto

e conducono solo a vicoli ciechi.

Sinodalità. Maturare una coscienza globale nuova non

è appannaggio di nessuno ma responsabilità di tutti, in vivo

rapporto dialettico. Prima che pronunciamenti o prassi di

vario genere, il Concilio è stato un’attitudine o modo di vivere

la fede dei padri come «Chiesa» nella storia.

Ci pare che occorra praticare il coraggio della franchezza

e la pazienza della sinodalità, in modo che tutti –

laici, presbiteri, religiosi, vescovi – si aiutino a vicenda nel

riscoprire e rendere operanti le funzioni che competono a

ciascuno, soprattutto in vista di mettere comunitariamente

a fuoco le modalità del necessario aggiornamento.

La sinodalità nella Chiesa si scontra spesso con prassi,

convinzioni, tradizioni che rendono molto difficile capirne

il significato e il valore. In una Chiesa sinodale tutte le

voci debbono, non solo essere ascoltate, ma essere considerate

e coinvolte nell’assunzione delle decisioni, con

particolare attenzione ai giovani che sempre più sono assenti

dalle comunità; solo attraverso il loro coinvolgimento

possiamo sperare in un futuro fattivo. Un futuro che

sappia inventare a tutti i livelli un processo sinodale sembra

essere il modo più autentico per corrispondere a

quanto è donato nell’annuncio del Vangelo, nel battesimo

e nell’eucaristia.

Una diversa prassi pastorale. Nella persuasione che il

Concilio sia stato il grande dono dello Spirito alla Chiesa

del nostro tempo, ci pare di poter così sinteticamente indicare

le conversioni oggi necessarie, in senso conciliare:

– da una Chiesa centrata su se stessa a una Chiesa centrata

sul servizio del Regno dato ai poveri;

– dalla preminente sacramentalizzazione al primato

dell’evangelizzazione;

– dal clericalismo alla corresponsabilità di tutti i battezzati;

– dall’improvvisazione individualistica a una pastorale

progettuale, organica e contestualizzata;

– dall’attivismo alla sapienza della croce come misura

della propria efficacia/efficienza.

È un cammino che comporta un passaggio da una prassi

pastorale pensata per istruire, per insegnare verità (da

apprendere), per illustrare precetti e norme (da eseguire

fedelmente) a una prassi che pone al proprio centro la formazione

di coscienze mature, di persone capaci di assumersi

le proprie responsabilità, di camminare insieme agli

altri con le proprie gambe e di ragionare con la propria testa,

di operare scelte di fondo umanizzanti e liberanti. E

vivere così – in questa feconda dinamica comunitaria – sia

l’eguaglianza di stato battesimale, sia la diversità di ministeri

e carismi, sia il rischio del confronto e dell’agire solidale

nel mondo.

Si scoprirà, allora, con gioia e naturalezza, che il cuore

vivo e pulsante della pastorale sono i rapporti umani, le relazioni

personali. Per cui nella pastorale va dato il primo

posto all’attenzione amorosa all’uomo nella sua concretezza,

all’uomo che soffre, che spera e si apre alla scoperta

dell’amore di Dio. In questo contesto potrà trovare la giusta

collocazione anche l’attenzione a tutte le realtà di solito

percepite come diverse (ad es. quella delle persone omosessuali).

Si svilupperà, contestualmente, una teologia comunitaria

della relazione di liberazione e una pastorale che riconsegni

l’incontro con lo scandalo del Vangelo e la responsabilità

per la Tradizione, che è anche assunzione costante

del servizio al mondo e alla Chiesa.

Ciò ci invita a ripensare la Chiesa come comunità escatologica,

pellegrinante e disseminata nel mondo, in stato di

missione. Il riferimento alla meditazione della Parola dovrebbe,

pertanto, fare da centro cristologico permanente.

Le fondamentali costituzioni del Concilio mettono in

evidenza la comune dignità e responsabilità di tutti i cristiani

fondata su:

– il battesimo;

– l’ascolto della Parola;

– la dimensione comunitaria della Chiesa a partire dalla

vita liturgica;

– il valore della collegialità tra i pastori;

– il rispetto della pluralità delle scelte;

– l’ascolto reciproco tra pastori e fedeli.

Come la Dei Verbum afferma (cf. n. 10), la gerarchia ha

il compito di vigilare perché il deposito della fede non sia

tradito. Il compito e perciò la responsabilità di elaborare e

attualizzare quel deposito di fede toccano, tuttavia, a tutti i

credenti.

In conclusione, la prospettiva di sinodalità permanente

si configura come lo strumento più idoneo per avviarsi verso

quella ecclesiologia di comunione, comunque sempre

da conquistare e confermare: una sinodalità capace di

coinvolgere tutti i membri del popolo di Dio. La valorizzazione

del «ministero laicale» è la condizione principale, per

camminare verso una tale Chiesa sinodale.

Verso un pluralismo

di «forme» ecclesiali?

Il cammino verso la salvezza non può non essere la sollecitudine

primaria di ogni discepolo di Cristo e apostolo

del Vangelo. Tale prospettiva salvifica, incarnandosi storicamente

in un unico modello di Chiesa, fa oggi fatica ad

aderire esistenzialmente alle pieghe (e alle sofferenze) di

una società complessa, molto articolata e spesso frantumata.

Non c’è da spaventarsi davanti all’ipotesi di esperire

forme diverse di Chiesa. Paolo dice: «Visto che a me era

stato affidato il Vangelo per i non circoncisi, come a Pietro

quello per i circoncisi – poiché colui che aveva agito in Pietro

per farne un apostolo dei circoncisi aveva agito anche

in me per le genti – e riconoscendo la grazia a me data,

Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a

me e a Barnaba la destra in segno di comunione, perché

noi andassimo tra le genti e loro tra i circoncisi. Ci pregarono

soltanto di ricordarci dei poveri, ed è quello che mi sono

preoccupato di fare» (Gal 2,7-10).

La convivialità delle differenze non le annulla ma le

postula. Possiamo auspicare una Chiesa di Pietro e una

Chiesa di Paolo (forme differenti dell’unica Chiesa di Cristo),

che si stringano la mano, andando però per direzioni

diverse e avendo come punto irrinunciabile di convergenza

i poveri e il Regno promesso.

Ci pare, questa, una forte sollecitazione, che ci viene

dalla Parola, sulla quale riflettere in profondità, aprendoci

alle libere ispirazioni del fuoco dello Spirito e non mortificandole

e spegnendole.

Sul piano più generale dell’essere ecclesiale, un nodo

da risolvere in tempi ragionevoli è l’assunzione piena del

regime di laicità che le società attuali pongono alla base

della propria costituzione. Una laicità che non esclude e

non emargina le realtà che rimandano a esperienze religiose.

Una laicità che chiede alla Chiesa di dismettere le

forme attuali di presenza nello spazio pubblico che non

ne rispettano lo spirito (come l’insegnamento confessionale

della religione cattolica nello stato di tutti). Già il

Concilio, infatti, mette in guardia la Chiesa: occorre rinunciare

«all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti,

ove constatasse che il loro uso potrebbe far dubitare

della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze

esigessero altre disposizioni» (Gaudium et spes, n.

76; EV 1/1583).

Una cifra ricapitolativa emblematica:

le donne nella Chiesa

Se l’accresciuta sensibilità verso la liberazione della

donna è uno dei più eloquenti segni dei tempi, il ministero

delle donne nella Chiesa appare come il «luogo» di verifica,

in cui si rispecchiano e si ricapitolano, emblematicamente,

tutte le riflessioni che siamo andati svolgendo.

La liberazione evangelica, che è per tutti gli esseri

umani e quindi anche per le donne, deve essere vissuta in

primo luogo nella Chiesa, come testimonianza della vita

nuova creata in Cristo. Con grande fatica tale cammino di

liberazione si svolge nelle comunità ecclesiali, perché obbliga

a rivedere una prassi lunga di svalutazione delle

donne, di esclusione dallo spazio dei ministeri ordinati, di

privazione del diritto a parlare con autorità: prassi che si

vuole fondata sulla esplicita volontà di Gesù e su una millenaria

Tradizione.

Senza pretese di sostituirci al magistero, ci chiediamo

solo, nella semplicità ma anche nell’autenticità della nostra

autocoscienza credente, se era così la prassi di Gesù verso

le donne, quale appare dai Vangeli.

Osserviamo con dispiacere come l’argomento-problema

della situazione delle donne nella Chiesa generi ancora,

in tanta parte del clero, un certo fastidio e comunque

venga considerato marginale. Invece ha una sua evidente

centralità e profonde implicazioni per l’esegesi, per la comprensione

della dottrina e, soprattutto, per le relazioni stesse

dentro il tessuto ecclesiale.

Nel post-concilio, grazie anche al contributo di donne

bibliste e teologhe, ci pare siano emerse importanti indicazioni:

– l’immagine materna e paterna di Dio;

– la novità dirompente del comportamento di Gesù nei

confronti delle donne;

– la «parzialità» dei generi sessuali, per cui uomo e donna

insieme sono l’immagine di Dio;

– la possibilità di «letture di genere» che gettano nuova

luce interpretativa su molte pagine della Bibbia;

– l’esistenza del diaconato femminile, in alcune delle

prime comunità.

Del resto tutte queste riflessioni e nuove consapevolezze

inducono a uno «sguardo» nuovo che vede l’obsolescenza

anti-evangelica di una struttura piramidale clericale,

che sembra tendere all’autoconservazione e che non sembra

disposta a promuovere un ministero presbiterale più

vicino alle comunità, camminando con tutti i battezzati su

un piano di uguale dignità, accogliendone realmente il sacerdozio

comune, su cui si innestano i diversi ruoli del servizio

alla comunità, adeguati ai tempi e ai carismi delle

persone.

Senza alcuna polemica, si sente in verità il bisogno di

un percorso di riconciliazione, che, partendo da un ripensamento

critico del passato, dal riconoscimento degli errori

commessi nei confronti delle donne, possa arrivare alla

consapevolezza di una necessaria conversione e a una richiesta

di perdono.

La bellezza del Vangelo

La Chiesa ha bisogno di ri-esprimere fiducia e speranza

nella forza profetica e nella bellezza del Vangelo, evitando

i toni moralistici, timorosi, difensivi con cui spesso viene

oggi percepita di fronte alle grandi questioni sociali,

bioetiche, culturali che si impongono alla nostra attenzione

e al nostro discernimento.

La Chiesa, peraltro, è forza profetica quando riprende

la Parola e attualizza il deposito di fede con una logica

estranea al mondo e quando opera per alleviare le sofferenze

umane (le opere di Gesù, oltre le sue parole), realizzando

fraternità, cura, giustizia, mitezza, perdono, riconciliazione:

la carità è l’Evangelo praticato, e l’Evangelo è la carità

annunciata. Attraverso questo Vangelo della carità la Chiesa

si apre al mondo, facendo sì che la parola di Dio la inquieti

e la coscientizzi; che al giudizio e al potere e alle armi

della condanna subentri la medicina della misericordia;

che all’inerzia indifferente od ostile subentri l’attenzione e

la dedizione all’altro, in una relazione autentica e densa e,

insieme, evangelicamente liberatrice. Avviene così che il

mondo la interroghi e che essa diventi sacramento del Cristo

luce delle genti.

Sta a tutti noi contribuire ad aprire spazi, in nome della

vera comunione, a una Chiesa fedele al Vangelo.

Le priorità che proponiamo

Ci pare utile, in conclusione, raccogliere le considerazioni,

che siamo andati svolgendo, in «punti», che dovrebbero

essere con più urgenza e più corale determinazione

affrontati dalla Chiesa.

Dialogo con il mondo. Piena assunzione dei problemi

che assillano l’uomo contemporaneo (ingiustizie, violenze,

corruzione, emergenze etiche e sociali), nella consapevolezza

che la Chiesa manifesta l’amore per l’intera famiglia

umana, senza contrapporsi a essa come rivale, ma solo dialogando

e operando assieme per la giustizia e la pace.

Unità della Chiesa. Ripresa decisa del cammino ecumenico,

che appare stanco, se non fermo; slancio verso le

Chiese sorelle e verifica della volontà a convergere nel primato

della Parola.

Celebrazione della fede. Rilancio convinto della riforma

liturgica conciliare, senza confusioni nostalgiche e ritualismi;

centralità ecclesiale dell’eucaristia e riconsiderazione di

discipline rigoristiche (per es.: quella per i divorziati risposati

e le coppie di fatto).

Chiesa sinodale. Reale attuazione – nello spirito e nelle

forme istituzionali – dell’ecclesiologia di comunione del

Concilio, mettendo in evidenza la comune dignità e responsabilità

di tutti i cristiani fondata sul battesimo.

Sacerdozio ministeriale e sacerdozio comune. Riflessione

sul ruolo dei presbiteri, sulla loro formazione e sulla permanenza

della loro disciplina celibataria; considerazione

comunitaria sui modi per valorizzare veramente la ministerialità

femminile nella Chiesa, riflettendo sulla possibilità di

restaurare il diaconato femminile; convinta valorizzazione

di un laicato adulto, con chiare responsabilità all’interno

della comunità ecclesiale.

Chiesa povera e dei poveri. Radicale ripensamento di ciò

che la fedeltà al Vangelo oggi chiede per ciò che attiene:

l’uso e la gestione dei beni; l’opzione preferenziale dei poveri

e della liberazione evangelica; il rapporto con il «potere

» e con la dimensione della laicità dello stato.

 

 

Parma, 22 febbraio 2013, Cattedra di san Pietro

 

 

Associazione culturale Mounier, Cremona;

Casa della solidarietà, Quarrata (PT);

Chiesa oggi, Parma; Chicco di Senape, Torino;

Città di Dio (Associazione ecumenica

di cultura religiosa), Invorio (NO);

Comunità del Cenacolo, Merano (BZ);

Esodo, Mestre (VE);

Fine Settimana (Associazione culturale

«G. Giacomini»), Verbania (VB);

Galilei, Padova; Gruppo ecumenico donne,

Verbania (VB);

Gruppo per il pluralismo e il dialogo,

Colognola ai Colli (VR);

Il Concilio Vaticano II davanti a noi, Parma;

Il filo. Gruppo laico di ispirazione cristiana, Napoli;

Il Gallo, Genova;

L’altrapagina, Città di Castello (PG);

Lettera alla Chiesa fiorentina, Firenze;

Oggi la Parola, Camaldoli (AR).

* Questa lettera si rivolge a tutto il popolo di Dio che è in Italia, a

cinquant’anni dall’apertura del concilio Vaticano II. Essa nasce da una

stesura collettiva realizzata – con un lavoro di alcuni mesi – da una rete

di gruppi e realtà comunitarie (Rete dei Viandanti), attraverso un processo

di tipo sinodale, caratterizzato da discussione e confronto. Con particolare

preoccupazione si rivolge ai vescovi, nostri pastori.

 

 

INTERVENTO SULLA LETTERA “ALLA CHIESA CHE È IN ITALIA”

(Milano, 16 marzo 2013)

Intervengo anche a nome dell’associazione “Noi siamo Chiesa”, sezione italiana dell’International Movement “We are Church”.

1. Vorrei prima di tutto esprimere l’apprezzamento per questo documento, i cui contenuti condivido interamente, per il procedimento profondamente ecclesiale che ha condotto alla sua stesura, nonché per il suo significato e le sue potenzialità nell’attuale momento della Chiesa italiana.

Questo testo, infatti, mi pare il segno di una ripresa di attenzione per la riforma della Chiesa, dopo che per anni molti avevano smesso di occuparsene, ritenendola “questione meramente ecclesiastica” o “missione impossibile”, oltre che fonte sicura di censura ed emarginazione. Oggi è il senso di responsabilità dei credenti a far sentire l’urgenza di “prendere parola” di fronte alla crisi che vive la nostra Chiesa, non solo per gli scandali legati alla pedofilia nel clero o alle lotte di potere nell’istituzione, ma soprattutto per il prevalere di posizioni identitarie e intransigenti, che appaiono incapaci di dare speranza alle donne e agli uomini di oggi, con quel rischio di “settarizzazione” che ben individuate.

2. La lettera dei Viandanti, per l’afflato che l’attraversa, aiuta a sfatare un equivoco ripetuto, non sempre in modo innocente, in questi anni, cioè che alla riforma delle strutture ecclesiastiche vada contrapposta l’esigenza di “un profondo rinnovamento spirituale”, quasi che i cambiamenti del modo di vivere della Chiesa fossero alternativi alla conversione interiore dei suoi membri e non piuttosto tra le concretizzazioni e gli inveramenti di quest’ultima. Inoltre la Chiesa può testimoniare il Dio di Gesù Cristo che ama e libera solo se realizza al proprio interno quella comunione e quella libertà evangelica, può contribuire alla trasformazione della società in senso più giusto e democratico solo se rinnova se stessa, dando spazio al pluralismo e alla partecipazione consapevole. La “opzione per i poveri” esige una Chiesa più fraterna, sinodale e inclusiva, e, al contempo, solo una Chiesa in cui ciascuno e ciascuna sia soggetto parimenti libero e responsabile, la diversità dei carismi possa manifestarsi pienamente e le scelte siano compiute in modo condiviso può davvero operare per la liberazione degli oppressi.

3. Individuando come sfida decisiva quella di “Dire Dio, il Dio di Gesù di Nazaret nel pluralismo culturale, valoriale e religioso del nostro tempo”, mi pare che evochiate l’urgenza di tornare ad adempiere, secondo il mandato del n. 44 della Gaudium et Spes, “il dovere di ascoltare  attentamente, discernere e interpretare i vari linguaggi del nostro tempo, e saperli giudicare alla luce della parola di Dio, perché la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venire presentata in forma più adatta”. Le sfide che ci vengono dalla società non chiedono, infatti, solo una maggiore e migliore capacità della Chiesa di comunicare i tradizionali contenuti dottrinali; esse domandano di prendere sul serio gli interrogativi della cultura moderna e postmoderna alla fede, di ripensare la comprensione che di essa la Chiesa ha maturato  fino a ora. Ciò impone di distinguere il nucleo essenziale e perenne del Vangelo di Gesù dall’insieme delle dottrine espressione del tentativo di dare una lettura cristiana della realtà sulla base delle conoscenze scientifiche ed antropologiche, delle concezioni e delle rappresentazioni, delle idee e dei simboli di epoche passate, sapendo abbandonare quanto vi è di caduco. Il che non significa acritico adeguamento allo “spirito del tempo” o alle mode culturali, ma effettivo riconoscimento che, come ricorda Dei Verbum n. 8, la comprensione della verità o del messaggio evangelico è progressiva e cresce nel tempo, il che, per esempio, dovrebbe spingere oggi a rivedere un’antropologia cristiana fissista ed essenzialista, quando ne emerga il carattere escludente, come spesso di fatto avviene quando ci si riferisce ai cosiddetti “valori non negoziabili”. 

4. Mi pare, infine, molto importante che questo testo sia frutto di una convergenza di diversi gruppi, e quindi uno degli embrioni di quello spazio di confronto e collegamento tra realtà “conciliari” che da tempo stiamo in molti cercando di costruire in Italia per offrire alla nostra comunità ecclesiale una prospettiva di Chiesa partecipativa, impegnata per la giustizia e la pace, aperta al dialogo con le altre fedi e con le culture.  Questo è il senso del cartello “Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri” e dell’impegno a coinvolgere molti soggetti ancora dispersi.

Questo sforzo ci accomuna a molte esperienze presenti in Europa e non solo, che da qualche anno sentono con urgenza la necessità di incontrarsi e coordinarsi dal basso. Con essi, credo, dobbiamo collegarci, anche perché molti temi sollevati nella Lettera riguardano non solo la Chiesa italiana, ma quella universale, fuori dai confini del nostro paese sono oggetto di riflessioni i cui esiti non possono essere lasciati fuori da quell’approfondimento che, a mio parere, potrebbe motivare un’agenda di lavoro condivisa per il futuro. Faccio solo qualche esempio, concentrato nel breve paragrafo sul “sacerdozio comune”: come colmare la denunciata frattura tra “sacerdozio ministeriale” e “sacerdozio comune”? Come rendere la liturgia più legata alla vita delle comunità? Quale formazione dei presbiteri può superarne la separatezza rispetto al popolo di Dio e alla storia? Dobbiamo provare a formulare ipotesi di cambiamento, proposte concrete e a più livelli, sulla base dello spirito di apertura e di ricerca che permea questo testo. In questo, come Noi siamo Chiesa, siamo pronti a collaborare.

 Mauro Castagnaro

 


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Commenti

Una replica a ““Lettera alla Chiesa che è in Italia””

  1. Avatar maria cristina passaponti
    maria cristina passaponti

    Condivido pienamente questo articolo e il commento di Mauro Castagno. C’è veramente bisogno di ristabilire i contatti fra il popolo di Dio e i suoi preti perchè solo così eviteremo di ritrovarci come guide spirituali una casta di burocrati invece che pastori che che puzzano di pecora ( che soddisfazione poter citare il papa, era tanto c he non mi capitava!).
    Mi fanno paura i giovani seminaristi spesso lontani mille miglia dai problemi della gente e molto più formalisti dei vecchi preti di campagna che avevano più umiltà e sensibilità e stavano a contatto con la gente.

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