Lidia Brisca (Menapace è il cognome del marito Nene con cui ha condiviso la vita) nasce a Novara nel 1924 e da giovanissima diventa staffetta partigiana nella formazione della Val d’Ossola. Nome di battaglia: Bruna. “Anche se mai ho voluto toccare le armi”, ci teneva a dire. “Vengo alla fine ‘congedata’ col brevetto di ‘partigiano combattente’ (ovviamente al maschile) e col grado di sottotenente e divento furiosamente antimilitarista“, raccontò in un contributo pubblicato dalla Libera università delle donne. Della sua storia partigiana ha parlato fino al 25 aprile scorso, nell’ultima intervista a Gad Lerner trasmessa su Rai3: “Contesto l’idea che le donne potessero essere solo staffette perché la lotta di liberazione è una lotta complessa”. E “il Cnl del Piemonte mi disse che potevo essere partigiana combattente anche senza portare armi“. Di noi dicevano che “eravamo le donne, le ragazze, le puttane dei partigiani”. Ma “senza le donne che ricoveravano l’esercito italiano in fuga non avrebbe potuto esserci la resistenza“. E anche per questo, nonostante Togliatti avesse chiesto alle donne di non partecipare alla sfilata della Liberazione a Milano “perché il popolo non avrebbe capito”, lei Lidia Menapace quella sfilata la fece comunque. “Sono rimasta partigiana tutta la vita, perché farla è una scelta di vita“. Un racconto limpido che disarmava nel suo essere incontestabile. Ci provarono i renziani ai tempi del referendum sulla Costituzione ad aprire distinzioni tra “partigiani veri” che votavano a favore contro gli altri che si battevano in difesa della Carta. Lidia Menapace, intervistata a Di Martedì, ci rise sopra: “Devono ripassare un po’ la storia”. Non c’era molto altro da dire.
Lidia Menapace si laurea a 21 anni nel 1945 con il massimo dei voti in letteratura italiana. Come ricorda l’Enciclopedia delle donne, in occasione di un incontro a Genova nel 2011 racconta che il giorno della sua laurea un professore la lodò dicendo che il suo lavoro era “frutto di un ingegno davvero virile”. Naturalmente non gliela fece passare, ma alla sua replica venne bollata come “un’isterica”. Quella frase non l’ha mai dimenticata e fu, a suo modo, l’inizio di tante battaglie. Dopo la guerra Lidia Menapace si impegna con la Fuci – Federazione Universitaria Cattolica Italiana e nel 1964 è stata la prima donna eletta nel Consiglio provinciale di Bolzano con la Democrazia cristiana insieme a Waltraud Deeg. In quella stessa legislatura diventa la prima donna ad entrare nella giunta provinciale, come assessora effettiva per affari sociali e sanità. Nel 1968 però, lascia la Democrazia cristiana e dopo esseri professata marxista perde ogni possibilità di fare carriera all’università Cattolica (dove insegnava). Nel 1969 è tra i fondatori nel primo nucleo de “Il Manifesto” per il quale ha scritto fino agli anni ’80. Nel 1973 è tra le promotrici del movimento Cristiani per il Socialismo. Dal 2006 al 2008 è senatrice di Rifondazione comunista. Avrebbe dovuto diventare presidente della commissione Difesa, ma perde il posto per le sue dichiarazioni contro le Frecce tricolori: “Solo in Italia vengono pagate con i fondi pubblici”, disse a Trieste. Bastò perché al suo posto andasse Sergio Di Gregorio dell’Italia dei valori. Finisce il suo impegno in Parlamento, ma non per questo interrompe l’attività politica. Nel 2011 entra nel Comitato Nazionale dell’Anpi. Nel 2013 viene lanciata una raccolta firme perché fosse nominata senatrice a vita. Tra le promotrici Monica Lanfranco che scrisse: “E’ probabilmente la miglior testimonianza di come il Paese nel suo complesso, e la sinistra in particolare, non sappia valorizzare i suoi talenti”. Senatrice a vita Lidia Menapace non lo diventerà mai. Ma il suo impegno in prima fila continua: dalla campagna per il no al referendum Renzi alla candidatura con Potere al popolo nel 2018.
Lidia Menapace è stata una femminista, in molti casi la prima a portare avanti temi che poi sarebbero diventati cruciali. “Nei paesi formalmente democratici, non si può più escludere un genere da alcuni diritti. Bisogna però stare attenti. Conviene buttarsi al massimo nelle lotte paritarie. Cominciare a protestare subito se le bambine hanno minor accesso all’istruzione o se si chiede alle donne di stare in casa a occuparsi della famiglia”, ha detto a ilfattoquotidiano.it nel 2013. Ma nella sua lotta c’era una consapevolezza che arrivava da lontano: “Mia mamma ha coniato un codice etico per le due figlie”, raccontò nel 2016 nel documentario “Non si può vivere senza una giacchetta lilla”. “Siate indipendenti economicamente e poi fate quello che volete. L’importante è che siate indipendenti per le calze. Non si può essere indipendenti per la testa e non nei piedi”. La libertà economica come punto di partenza imprescindibile per avere l’emancipazione delle donne: tutt’oggi le battaglie femministe partono da quel semplice e ancora così fragile assunto. Ma non solo. E’ stata la prima Lidia Menapace, scrive sempre l’enciclopedia delle donne, a “mettere l’accento sull’importanza del linguaggio sessuato come strumento fondamentale contro il sessismo“. Anticipando, ancora una volta, battaglie che sono oggi quanto mai attuali. Scrive nel 1993 nella prefazione di “Parole per giovani donne”: “Se è tanto poco, dicevo, perché non si fa? Non si fa perché il nome è potere, esistenza, possibilità di diventare memorabili, degne di memoria, degne di entrare nella storia in quanto donne, non come vivibilità, trasmettitrici della vita ad altri a prezzo della oscurità sulla propria”. La risposta per tutti coloro che ancora oggi si ostinano a non declinare al femminile sindaco, avvocato e ministro.
A lei si deve una delle definizioni più belle del Movimento femminista: lo ha chiamato “carsico”, come un fiume che “sprofonda” e riemerge in spazi e tempi apparentemente lontani. Lidia Menapace credeva nella potenza degli incontri, del “parlarsi di persona”, scambiare gesti ed espressioni. Comunicare guardandosi in faccia e capire andando a vedere. I suoi tour per l’Italia, la sua spinta continua a viaggiare fino all’ultimo per andare là dove veniva invitata. Perché l’immaginazione per avere sfogo ha bisogno di sensazioni ed emozioni raccolte in prima persona. Per trovare i suoi scritti bisogna cercare le tracce tra articoli (Marea, Liberazione, Il paese delle donne) e libri (da “Economia politica della differenza sessuale” a “Resisté, Il dito e la luna”). Ma la sua testimonianza è andata oltre la parola scritta ed è stata in prima linea ogni volta che lo ha ritenuto necessario: dal no dal Molin alle sardine fino alle lotte per il diritto delle donne a non avere figli (è tra le voci del documentario prezioso Lunàdigas). Lidia Menapace credeva nella politica, ma prima tutto credeva nella politica di pace. “Insieme ad altre ho dato vita a una Convenzione permanente di Donne contro le guerre che ha una articolazione teorica di nome Associazione “Rosa Luxemburg”, spiegò sempre nell’intervento per l’università delle donne, “vogliamo costruire una cultura politica che escluda la guerra come strumento per il governo dei conflitti. Rosa con i suoi scritti e la vita ci fornisce tracce di pensiero e pratiche di azione di grande respiro e attualità, anche per una ipotesi rivoluzionaria non leninista-militarista ma sociale e quasi senza stato. E anche molti suggerimenti di analisi economica. Rosa era ebrea, come si sa, e quando fuggì dalla Polonia nativa, che era sotto gli Zar, per andare in Germania fu preceduta dai suoi compagni del partito socialista polacco con una lettera ai compagni del partito socialdemocratico tedesco in cui si diceva: ‘arriverà da voi Rosa Luxemburg, non lasciatevi sedurre da quella ragazzotta ebrea polacca’: carini,no?”.
Ma di tante cose che ha scritto Menapace, più di tutto forse oggi vale la pena ricordare le parole per l’amico Alexander Langer, pubblicate sul Manifesto a luglio 1995: “Che vuole dirmi Alex Langer con la sua morte così “ostentatamente” celebrata? Non sopporterei lo spreco del suo gesto. E allora ripercorro qualche memoria di un’amicizia intensa, affettuosa, calda, anche se saltuaria, fatta spesso solo di incontri nelle stazioni dei treni per raggiungere riunioni, dibattiti”, è il suo attacco. E continua con parole che, ancora oggi, possiamo ritagliare e usare come fonte di ispirazione: “Si può reggere a lungo una solitudine politica aspra in momenti volgari, sciocchi, vani e pericolosissimi? Mentre le mediocri biografie di personaggi per lo più meschini occupano colonne e colonne di giornali? Voci e intrighi si svolgono intorno a qualsiasi vicenda, tutto è grigio e noioso? E strumento del dibattito politico diventa il pitale che misura la gettata del piscio?”.
In ricordo di Lidia
Noi donne dell’Osservatorio Interreligioso contro le violenze sulle donne (OIVD) vogliamo dedicare a Lidia Menapace, recentemente mancata all’età di 96 anni, questo ricordo che pubblichiamo come testimonianza della riconoscente amicizia che a lei ci lega, anche per la stretta vicinanza e condivisione dei suoi ideali ed obiettivi.
La sua storia, dall’appartenenza alla FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana) alla guerra partigiana, dall’impegno politico come amministratrice pubblica e come parlamentare comunista all’attività nella Convenzione permanente di donne contro tutte le guerre, nonché quella che i suoi scritti ci tramandano, ci richiamano oggi più che mai all’impegno in difesa delle libertà delle donne.
E’ stata una femminista che ha avuto a cuore la questione del cambiamento di linguaggio discriminante come una questione fondamentale; è stata una pacifista che intendeva l’azione nonviolenta come una pratica politica moderna ed efficace; è stata una voce critica e forte anche nei confronti della chiesa cattolica da cui proveniva; è stata una credente con una spiritualità profonda, che non ha mai voluto confondersi con l’osservanza rigida e antistorica dei dogmi, ma ha avuto una fede autentica che l’ha portata a prendere posizione ferma e seria nei confronti dei pronunciamenti delle gerarchie ecclesiastiche cattoliche sulle tematiche della sessualità, della famiglia, dell’interruzione di gravidanza, dell’omosessualità e delle violenze subite dalle donne.
Ricordiamo una riflessione per tutte: al papa disse che chiedere scusa delle colpe della chiesa nei confronti delle donne non era sufficiente se non si ammettevano i gravi errori commessi e se a quelle dichiarazioni non seguivano fatti di una vera inversione di tendenza.
In questo senso si è sempre ritrovata in vicinanza con il movimento delle Comunità cristiane di base, ai cui incontri ha più volte ha partecipato, nel percorso di ricerca alternativo delle donne e dei giovani.
Nel ricordare ciò la sentiamo vicina anche nel disvelamento di teorie che hanno discriminato da sempre le donne. La sua lettura delle ‘origini’ è illuminante : ” Ormai il terreno della conoscenza è stato riconquistato: la condanna di Eva perché voleva avere accesso ai frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male, cioè voleva diventare adulta e accedere alla responsabilità, potrebbe essere cancellata e diventare una lettura della Genesi non punitiva per lei, anzi con il riconoscimento che il cammino dell’umana civiltà incomincia perché nel mito delle origini Eva spinge Adamo fuori dal suo torpore e lo incita a fare ciò cui – a quanto pare – Dio lo aveva destinato, cioè a dare il nome a tutte le cose, tranne che ad Eva che non era una cosa”!
Così ha interpretato bene quelli che anche lei chiamava i segni dei tempi; la sua disobbedienza civile è oggi più che mai necessaria per il movimento delle donne che può riemergere da periodi di quiescenza, proprio nei confronti dell’immaginario patriarcale imposto dalle religioni.
L’atteggiamento di denuncia che ha sempre avuto, improntato alla franchezza e alla politica integra e seria, unite alle caratteristiche della sua persona, gioviale, allegra e aperta verso l’incontro, aperta all’ascolto e accoglimento delle diversità, ci indica ancora una volta quale può essere la strada: mondare il riso, come racconta di aver fatto da bambina, “Sassi e macigni che ingombrano il cammino hanno nomi noti: guerra, militarismo, patriarcato…sono da buttare…anche le forme politiche consunte che sono nel passato, come i partiti…” in questo è stata lungimirante!
Quella a cui si ispirava era una visione rivoluzionaria e anticipatrice, la stessa che caratterizzò le scelte politiche e di vita di Rosa Luxemburg, donna fragile e forte nello stesso tempo, che aveva a cuore come lei l’amore per la natura, il mondo agricolo e per gli animali.
L’insegnamento di Lidia Menapace ci accompagna in questo percorso di ricerca e rinnovamento del movimento delle donne, espressione di diverse religioni, fra noi accomunate da un desiderio forte e determinato di contrasto verso le violenze sulle donne, soprattutto quelle derivanti dalla formazione di miti, simboli, dottrine delle religioni patriarcali.
Dicembre 2020 Osservatorio interreligioso sulle violenze contro le donne (O.I.V.D.)
Don Renato Sacco su Famiglia Cristiana
«Ho avuto il piacere e l’ onore di conoscerla personalmente. La ricordo come una donna libera. Umile anche quando sedeva in Parlamento. Coerente al punto di bruciarsi la carriera per non tradire le sue idee. Capace di trasmettere passione, sapere, valori». Don Renato Sacco 65 anni, coordinatore nazionale della sezione italiana di Pax Christi coltiva ricordi personali di Lidia Menapace, morta il 7 dicembre all’età di 96 anni (da alcuni giorni era ricoverata per Covid nel reparto di malattie infettive dell’ospedale di Bolzano). «Pur essendo novarese come lei, la incontrai la prima volta proprio a Bolzano dove Pax Christi ha da sempre gruppi motivati ed attivi. Da allora ci siamo visti più volte, collaborando insieme contro le guerre di fine Novecento e di inizio Duemila, quelle idel 1991 e del 2003 in Iraq, quelle che seguirono la disgregazione della Jugoslavia, quella in Afghanistan, e più di recente, quella in Siria. Ma ci trovammo insieme anche nel contestare le spese militari dei Governi italiani, in primis l’ acquisto dei cacciabombardieri Lockheed F35».
Conosce ovviamente la storia della Menapace, don Sacco. Nata a Novara il 3 aprile 1924 da una madre che si autodefiniva «una ragazza emancipata d’inizio Novecento» e da un padre geometra «illuminista senza saperlo», Lidia Menapace prese parte – come staffetta – alla Resistenza partigiana nella Val d’ Ossola, con il nome di battaglia «Bruna», ottenendo il grado di sottotenente che rifiuterà nel dopoguerra, assieme al riconoscimento economico: A soli 21 anni si laureò con il massimo dei voti in letteratura italiana all’Università Cattolica di Milano e si impegnò nei movimenti cattolici, in particolare nella Fuci (Federazione universitaria cattolica italiana), e successivamente nella Democrazia Cristiana. Simpatizzante del Partito comunista e sostenitrice dell’incontro tra cattolici e marxisti, fu tra i fondatori de Il manifesto e del movimento Cristiani per il Socialismo, fino a diventare esponente del Pdup e infine senatrice di Rifondazione comunista.
«Tutto questo lo riportano le biografie ufficiali», riprende don Renato Sacco. «Quando ci vedevamo lei non parlava di sé, ma dei problemi che via viva dovevamo affrontare. Unica concessione all’ album di famiglia era quando ci salutavamo. Lei si era spostata dopo la guerra a Bolzano “una terra che vide molti dire no a Hiler” ci rammentavano l’ un l’ altro fino alla figura esemplare del beato Josef Mayr-Nusser, martire cristiano, vittima del nazismo. Quando in uell’estremo lembo orientale ci accomiatavamo spesso mi chiedeva notizie dalla sua terra natale e amava ricordare con stima e affetto la figura di monsignor Leone Giacomo Ossola, vescovo di Novara sul finire della guerra, che salvò la città dalla furia nazista battendosi anche per evitare trucide rappresaglie a conflitto finìto. I partigiani volevano fare sfilare nude per Novara le ausiliarie della Repubblica sociale italiana fatte prigioniere, ma monsignor Ossola si presentò al comando e minacciò di sfilare anche lui nudo, assieme a loro, ottenendo la cancellazione di quella drammatica vendetta».
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