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Noi Siamo Chiesa

Sezione italiana del movimento internazionale “We Are Church” per la riforma della Chiesa cattolica

Martin Luther King, sono passati cinquanta anni

Martin Lut her K ing

PELLEGRINAGGIO ALLA NONVIOLENZA

Dal momento che la filosofia della nonviolenza ha avuto un tale ruolo positivo nel movimento di Montgomery, puo’ essere saggio volgersi ad una breve discussione di alcuni aspetti fondamentali di questa filosofia.

In primo luogo, si deve sottolineare che la resistenza nonviolenta non è un metodo per codardi; essa è autentica resistenza. Se uno usa questo metodo perché ha paura o semplicemente è privo degli strumenti di violenza, costui non è un vero nonviolento. Questa è la ragione per cui Gandhi spesso diceva che se la viltà è l’unica alternativa alla violenza, è meglio combattere. Egli fece questa affermazione conscio del fatto che c’è sempre un’altra alternativa: non è necessario che un individuo o un gruppo si sottomettano a qualche ingiustizia, nè che usino la violenza per riparare tale ingiustizia; c’è la via della resistenza nonviolenta. Questa è in definitiva la via dell’uomo forte. Non è un metodo di stagnante passività. La frase “resistenza passiva” offre spesso la falsa impressione che questo è una sorta di “metodo del far niente”, in cui il resistente accetta il male quietamente e passivamente. Ma nessuna affermazione è più lontana di questa dalla verità. Perché, mentre il resistente nonviolento è passivo nel senso che non è fisicamente aggressivo verso il suo avversario, la sua mente e le sue emozioni sono sempre attive, costantemente cercando di persuadere l’avversario che egli è nel torto. Questo metodo è passivo fisicamente, ma fortemente attivo spiritualmente. Non è non-resistenza passiva al male, è invece attiva resistenza nonviolenta al male.

Un secondo fatto fondamentalE che caratterizza la nonviolenza è che essa non cerca di sconfiggere o umiliare l’avversario, ma di conquistare la sua amicizia e comprensione. Il resistente nonviolento deve spesso esprimere la sua protesta attraverso la non-cooperazione o il boicottaggio, ma egli comprende che questi non sono fini in se stessi; essi sono semplicemente mezzi per svegliare un senso di vergogna morale nell’avversario. Il fine è la redenzione e la riconciliazione. La conseguenza della nonviolenza è la creazione della comunità nell’amore, mentre la conseguenza della violenza è la tragica amarezza.

Una terza caratteristica di questo metodo è che l’attacco è diretto contro le forze del male piuttosto che contro le persone alle quali succede di stare facendo il male. È il male che il resistente nonviolento cerca di sconfiggere, non le persone ingannate dal male. Se sta combattendo l’ingiustizia razziale, il resistente nonviolento ha l’intuito di capire che la tensione fondamentale non è fra le razze. Come mi piace dire alla gente di Montgomery: “La tensione in questa città non è fra la gente bianca e quella nera. La tensione è, in fondo, tra giustizia e ingiustizia, fra le forze della luce e le forze delle tenebre. E se ci sarà una vittoria, sarà una vittoria non semplicemente per cinquantamila neri, ma una vittoria per la giustizia e le forze della luce. Noi siamo fuori per sconfiggere l’ingiustizia e non uomini bianchi che eventualmente siano ingiusti”.

Un quarto punto che caratterizza la resistenza nonviolenta è una disponibilità ad accettare la sofferenza senza vendetta, ad accettare le percosse dell’avversario senza restituirle. “Fiumi di sangue devono forse scorrere prima che conquistiamo la libertà, ma deve essere sangue nostro”, diceva Gandhi ai suoi compatrioti. Il resistente nonviolento è disposto ad accettare la violenza se necessario, ma mai ad infliggerla. Non cerca di evitare il carcere. Se andare in prigione è necessario, egli entra in prigione “come uno sposo entra nella camera della sposa”. Qualcuno potrebbe chiedere giustamente: “Qual è la giustificazione del resistente nonviolento per questa prova alla quale invita gli uomini, per questa applicazione politica di massa dell’antica dottrina di offrire l’altra guancia?”. La risposta si trova nel riconoscimento che la sofferenza non meritata è capace di redimere. La sofferenza (lo capisce il resistente nonviolento) ha tremende possibilità di educare e trasformare. “Le cose di fondamentale importanza per il popolo non sono assicurate dalla sola ragione, ma devono essere acquistate con la sua sofferenza”, affermava Gandhi. Egli aggiunge: “la sofferenza è infinitamente più potente della legge della giungla per convertire l’avversario e aprire le sue orecchie, che altrimenti sono chiuse alla voce della ragione”.

Il quinto punto riguardante la resistenza nonviolenta è che essa evita non solo la violenza fisica esterna, ma anche la violenza interiore dello spirito. Il resistente nonviolento non solo rifiuta di sparare all’avversario, ma rifiuta anche di odiarlo. Al centro della nonviolenza sta il principio dell’amore. Il resistente nonviolento sostiene che, nella lotta per la dignità umana, i popoli oppressi del mondo non devono soccombere alla tentazione di divenire pieni di rabbia o di indulgere a campagne di odio. Reagire nella stessa maniera non farebbe altro che intensificare l’esistenza dell’odio nell’universo. Lungo il corso della vita, qualcuno deve avere giudizio e moralità sufficienti per troncare la catena dell’odio. Questo può essere fatto soltanto proiettando l’etica dell’amore al centro delle nostre vite.

Parlando di amore, a questo punto, non ci stiamo riferendo a qualche emozione sentimentale o affettiva. Sarebbe privo di senso esortare gli uomini ad amare i loro oppressori in un senso affettivo. Amore in questo contesto significa comprensione, buona volontà redentrice. Qui la lingua greca viene in nostro aiuto. Ci sono tre parole per esprimere amore nel Nuovo Testamento in greco. La prima è eros. Nella filosofia di Platone eros significa l’aspirazione dell’anima al regno del divino. Essa è giunta oggi ad esprimere una specie di amore estetico o romantico. La seconda parola è philia che significa affetto intimo tra amici personali. Philia denota una specie di amore reciproco; la persona ama perché è amata. Quando diciamo di amare i nostri oppositori non ci riferiamo nè ad eros nè a philia; parliamo di un amore che è espresso dal termine greco agape. Agape significa comprensione, buona volontà redentrice per tutti gli uomini. È un amore traboccante, puramente spontaneo, non motivato, ingiustificato e creativo. Non è messo in moto da qualche qualità o funzione del suo oggetto. È l’amore di Dio operante nel cuore umano.

Agape è amore disinteressato. È amore nel quale l’individuo non cerca il proprio bene, ma il bene del prossimo (1 Cor. 10, 24). Agape non comincia col discriminare fra persone degne o indegne, o le qualità che le persone possiedono. Comincia con l’amare gli altri per il loro bene. È un “interesse completamente altruistico per gli altri”, che scopre il prossimo in ogni uomo che incontra. Perciò, agape non fa nessuna distinzione fra amico e nemico; si dirige verso entrambi. Se uno ama un individuo semplicemente a causa della benevolenza che riceve, lo ama per i benefici da guadagnare attraverso l’amicizia, piuttosto che per il bene dell’amico. Di conseguenza, il miglior modo di assicurarvi che l’Amore è disinteressato è di provare amore per il prossimo-nemico, dal quale non potete attendervi nessun bene in cambio ma solo ostilità e persecuzione.

Un altro punto fondamentale riguardante l’agape è che nasce dal bisogno dell’altra persona – il suo bisogno di appartenere alla parte migliore della famiglia umana. Il samaritano che aiutò l’ebreo sulla strada di Gerico fu “buono” perché rispose al bisogno umano che gli fu presentato. L’amore di Dio è eterno e non viene meno, perché l’uomo ha bisogno di questo amore.

Paolo ci assicura che l’atto di amore della redenzione fu compiuto “mentre eravamo ancora peccatori” – cioè nel momento del nostro più grande bisogno di amore. Poiché la personalità dell’uomo bianco è grandemente distorta dalla segregazione, e la sua anima è grandemente sfregiata, egli ha bisogno dell’amore del nero. Il nero deve amare il bianco, perché il bianco ha bisogno del suo amore per rimuovere le proprie tensioni, insicurezze e paure.

Agape non è amore debole, passivo. E amore in azione. Agape è amore che cerca di preservare e creare comunione. È insistenza sulla comunione anche quando qualcuno cerca di romperla. Agape è disposizione a percorrere qualunque distanza per restaurare la comunione. Non si ferma al primo miglio, ma fa anche il secondo per restaurare la comunione. È disposizione a perdonare, non sette volte, ma settanta volte sette per restaurare la comunione. La croce è l’eterna espressione della distanza alla quale Dio andrà allo scopo di restaurare la comunione infranta. La resurrezione è un simbolo del trionfo di Dio su tutte le forze che cercano di ostacolare la comunione. Lo Spirito Santo è la comunione continua, creante la realtà, che si muove attraverso la storia. Colui che opera contro la comunione, sta operando contro l’intera creazione. Perciò, se rispondo di ricambiare l’odio, non faccio altro che intensificare la spaccatura nella comunione infranta. Posso soltanto sanare la rottura della comunione affrontando l’odio con l’amore. Se affronto l’odio con l’odio, divengo privo di personalità, perché la creazione è così concepita che la mia personalità può realizzarsi soltanto nel contesto della comunione. Booker T. Washington aveva ragione: “Non lasciatevi spingere da nessuno così in basso da giungere al punto di odiarlo”. Quando vi spinge così in basso, vi porta ad operare contro la comunione; vi trascina al punto di sfidare la creazione e così diventare privi di personalità.

In conclusione, agape significa il riconoscimento del fatto che tutta la vita è in correlazione. Tutta l’umanità è coinvolta in un singolo processo, e tutti gli uomini sono fratelli. Nella misura in cui faccio del male al mio fratello non importa cosa egli mi stia facendo – faccio del male a me stesso. Per esempio, i bianchi spesso rifiutano il sussidio federale all’educazione allo scopo di non concedere ai neri i loro diritti; ma poiché tutti gli uomini sono fratelli, essi non possono escludere i bambini dei neri senza far del male ai propri. Finiscono per danneggiare se stessi, nonostante tutti gli sforzi in senso contrario. Perché accade questo? Perché gli uomini sono fratelli. Se mi fai del male, lo fai a te stesso.

L’amore, agape, è l’unico che può ripristinare la comunione, quando è spezzata. Quando mi si comanda di amare, mi si comanda di restaurare la comunione, di resistere all’ingiustizia, e di andare incontro ai bisogni dei miei fratelli.

Un sesto fatto fondamentale riguardo alla resistenza nonviolenta è che essa si basa sulla convinzione che l’universo è dalla parte della giustizia. Di conseguenza, il credente nella nonviolenza ha profonda fede nel futuro.

Questa fede è un’altra ragione per cui il resistente nonviolento può accettare la sofferenza senza vendicarsi. Poiché egli sa che nella sua lotta per la giustizia ha un alleato cosmico. È vero che ci sono devoti credenti nella nonviolenza che trovano difficile credere in un Dio personale. Ma anche queste persone credono nell’esistenza di qualche forza creativa che lavora per la totalità universale. Sia che la chiamiamo processo inconscio, impersonale Brahmam, o Essere personale di impareggiabile potenza e infinito amore, c’è una forza creativa in questo universo che lavora per portare gli aspetti sconnessi della realtà in un tutto armonioso.

 


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