Martini, profeta di un nuovo Concilio
di Luigi Sandri (da “Il Trentino” del 2 settembre 2012)
Poliedrica è l’eredità, morale ed ecclesiale, che lascia il cardinale Carlo Maria Martini, l’ex arcivescovo di Milano (1979-2002) deceduto, ottantacinquenne, venerdì. Del suo corposo magistero, naturalmente non riassumibile in poche righe, qui vogliamo focalizzarci su un aspetto, assai particolare ma, ci sembra, dirimente: la sua idea di un nuovo Concilio – un Vaticano III – della Chiesa cattolica romana.
Il 7 ottobre 1999, intervenendo al Sinodo dei vescovi che rifletteva sull’evangelizzazione dell’Europa, il porporato stupì i “padri” parlando loro di un suo “sogno”: la convocazione di qualcosa di analogo al Concilio Vaticano II per affrontare una serie di temi urgenti: “Penso in generale agli approfondimenti e agli sviluppi dell’ecclesiologia di comunione del Vaticano II. Penso alla carenza in qualche luogo già drammatica di ministri ordinati e alla crescente difficoltà per un vescovo di provvedere alla cura d’anime nel suo territorio con sufficiente numero di ministri del vangelo e dell’Eucarestia. Penso ad alcuni temi riguardanti la posizione della donna nella società e nella Chiesa, la partecipazione dei laici ad alcune responsabilità ministeriali, la sessualità, la disciplina del matrimonio, la prassi penitenziale, i rapporti con le Chiese sorelle dell’Ortodossia e più in generale il bisogno di ravvivare la speranza ecumenica, penso al rapporto tra democrazia e valori e tra leggi civili e legge morale”.
Per affrontare argomenti tanto impegnativi, aggiunse il prelato, “non sono certamente strumenti validi né le indagini sociologiche né le raccolte di firme. Né i gruppi di pressione. Ma forse neppure un Sinodo potrebbe essere sufficiente. Alcuni di questi nodi necessitano probabilmente di uno strumento collegiale più universale e autorevole, dove essi possano essere affrontati con libertà, nel pieno esercizio della collegialità episcopale, in ascolto dello Spirito e guardando al bene comune della Chiesa e dell’umanità intera. Siamo cioè indotti ad interrogarci se, quaranta anni dopo l’indizione del Vaticano II, non stia a poco a poco maturando, per il prossimo decennio, la coscienza dell’utilità e quasi della necessità di un confronto collegiale e autorevole tra tutti i vescovi su alcuni dei temi nodali emersi in questo quarantennio”.
Martini non proferì la parola “tabù”, Concilio, ma a questo egli mirava, come poi preciserà in varie interviste. Un Concilio, aggiungeva, che non trattasse un’enorme quantità di temi come il Vaticano II, ma che si limitasse ad un elenco più ristretto. La Curia romana (salvo eccezioni), la maggioranza dei padri sinodali e del collegio cardinalizio contrastarono, con un ostinato silenzio o con una minimizzazione insistita, l’idea del prelato: vi si oppose, ignorandola vistosamente, Giovanni Paolo II; vi si oppose il cardinale Joseph Ratzinger (che, diventato papa, contribuirà a seppellirla). La ragione di tanta ostilità fu motivata, tra l’altro, dal fatto che, sia pur indirettamente ed evitando uno scontro frontale, in realtà l’arcivescovo di Milano lasciava intendere che su varie tematiche da lui suggerite – la collegialità episcopale, la posizione della donna nella Chiesa, i ministeri femminili, la sessualità, lo status del prete, l’ecumenismo, il rapporto leggi civili e legge morale come indicata dal magistero ecclesiastico – si dovevano ridiscutere le norme, restrittive, stabilite in proposito dal pontefice allora regnante, in quest’opera di restaurazione fortemente sostenuto da Ratzinger. Di qui la profonda irritazione – invisibile a occhi profani, ma ben reale – del mondo vaticano all’ipotesi di Martini.
Consapevole dell’ostilità che il racconto del suo “sogno” avrebbe provocato nell’establishment ecclesiastico, il cardinale aveva cercato di renderlo più accettabile prendendo fortemente le distanze da un’altra iniziativa, assai invisa al Vaticano. Affermando la sua contrarietà alla “raccolta di firme”, l’arcivescovo prendeva infatti le distanze, in particolare, da “Wir sind Kirche” (Noi siamo Chiesa), un movimento nato in Austria nel 1996, e subito diffusosi in Germania e in altri paesi – l’Italia, tra essi – che aveva raccolto 2,5 milioni di firme per un appello che, in sostanza, chiedeva molte delle riforme fatte balenare da Martini. Questa opposizione – in linea di principio – a “Noi siamo Chiesa” (a Milano il cardinale rifiutò sempre di ricevere il portavoce italiano del Movimento) mostra la sua difficoltà ad instaurare, anche all’interno della Chiesa ambrosiana, quel dialogo che egli auspicava a tutti i livelli. Ma, forse, egli scelse questa strada per non dare ulteriori motivi all’establishment ecclesiastico per opporsi al suo “sogno”.
Un “sogno” che, evaporato sotto i pontificati di Wojtyla e di Ratzinger, potrebbe tornare di attualità al prossimo conclave, perché i problemi che negli ultimi trent’anni, e ancor più sotto il regno di Benedetto XVI, la Curia romana ha ignorato, o affrontato solo per ribadire lo status quo, pendono irrisolti, e con urgenza crescente. Perciò siamo convinti che la questione di un Vaticano III tornerà ad essere discussa dai cardinali riuniti per eleggere il vescovo di Roma; non sappiamo con quale esito ma se, ancora una volta, il “sogno” (solo di Martini? Oh no, esso, da dieci anni a questa parte, è stato riproposto da decine di vescovi, da molti teologi e teologhe, da migliaia di cattolici di molti paesi!) sarà svuotato, non si farà che differire una riforma che, prima o poi, sarà ineludibile. E, continuamente differita, ancora più ardua da attuare.
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