Obama prega sulla tomba del vescovo Romero, ma giornali e tv Usa cancellano
la notizia
24-03-2011
Obama è tornato casa dal suo viaggio in America Latina: le polemiche lo
aspettavano. La destra repubblicana lo accusa di aver trascurato la guerra a
Gheddafi, “pasticciata dai soliti europei”, e di aver perso tempo prezioso
nella sosta in Salvador dove gli Stati Uniti di Reagan hanno finanziato il
massacro della popolazione affamata dal latifondo.
Nessun giornale pubblica la foto del presidente che accende una candela
davanti alla tomba del vescovo Romero. Immagine che entrerà negli annali delle
Americhe quando i persecutori avranno metabolizzato la vergogna del delitto, 31
anni fa, 24 marzo, amministrazione Reagan in guerra contro il “comunismo”;
ritorsione verso i religiosi che difendevano contadini abbandonati alle squadre
della morte. Romero è sepolto nei sotterraneo della cattedrale di San Salvador,
ultimo sosta di Obama nel ritorno a Washington. 31 anni fa era una chiesa
divorata da un incendio e ogni domenica angosciata dalle omelie del vescovo.
Leggeva i nomi di ragazzi, intellettuali, sindacalisti portati via dagli
stivali militari come nell’Argentina dei generali P2.
Romero non si rassegnava. Denunciava (nomi e cognomi) le alte uniformi
responsabili dei delitti. Insomma, sovversivo rosso come i gesuiti e tanti
religiosi finiti sottoterra nel nome della libertà del libero mercato. Ogni
altra comunità di fedeli non aveva mai sofferto questo tipo di persecuzioni
dopo il nazismo. Solo il dolore per un sacerdote assassinato attorno a
Varsavia, Chiesa ufficiale del silenzio, mentre la morte di quattordici
religiosi del Salvador e di migliaia di fedeli svanivano nelle ombre del
Vaticano di Giovanni Paolo II. Se i popoli latini considerano Romero “martire e
santo”, i monsignori romani ne studiano con diffidenza la beatificazione
concessa al povero prete polacco bastonato a morte dalle squadre che obbedivano
Mosca, la stessa obbedienza delle squadre che in Salvador si inchinavano ai 6
milioni di dollari spediti ogni giorno dal Pentagono per “difendere il mondo
cristiano”.
Era il 1980, medioevo della ragione. La Chiesa luterana e la Chiesa
anglicana ricordano il martirio di Romero ogni 24 marzo. E nel suo nome il 24
marzo è consacrato dalle Nazioni Unite “giorno della difesa della verità“.
Adesso l’incontro tra Obama e il vescovo, separati dalla morte ma uniti da una
morale che apre la speranza alle generazioni duemila. Uomini di pace dalla
parte della dignità degli ultimi, con una differenza che i nostri giorni
allargano. Romero ha giocato la vità per difendere il diritto alla normalità di
sconosciuti senza nome e senza censo.
Con gli stessi ideali Obama schiaccia il bottone della guerra per salvare
cittadini che pretendono la democrazia. Bombe buone di Obama; bombe cattive di
Gheddafi. E il popolo condannato a sopportarne gli effetti collaterali non si
accorge della diversità. Da come l’ho conosciuto immagino che Romero non sarebbe
d’accordo. Il primo incontro domenica 29 giugno 1978. Sembrava un prete di
campagna. Scendeva dalla piccola automobile guidata da un seminarista e la
tonaca si alzava scoprendo una caviglia pallida, calza ripiegata sulle scarpe
dall’elastico strappato. Tenerezza e delusione: come può, così fragile, sfidare
l’egoismo delle oligarchie proprietarie di giornali e Tv che ogni giorno lo
massacrano di insulti?
Poi le chiacchiere a San Josè della montagna, seminario trasformato in
accampamento per i profughi in fuga dalle campagne dove le truppe speciali
(bombe al fosforo, berretti verdi ammaestrati da consiglieri Usa) bruciavano la
gente per fare il vuoto attorno alla guerriglia: “Uccidere per spaventare è un
peccato insopportabile, insulto all’umanità, insulto a Dio”. E poi, e poi, fino
all’ultimo saluto: “Perché i giornalisti tornano a casa? Senza testimoni le
luci si spengono, chissà cosa succederà“. Tre mesi dopo gli sparano
sull’altare. L’assassino promosso capitano ormai vive negli Stati Uniti. “Irrintracciabile”
dalle polizie di Bush padre, Bush figlio e Clinton presidente. Chissà se Obama
lo troverà.
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