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Noi Siamo Chiesa

Sezione italiana del movimento internazionale “We Are Church” per la riforma della Chiesa cattolica

papa Francesco contro populismi e sovranismi. E per la difesa dell’ambiente

Intervista con Papa Francesco. Salviamo l’Europa, il sovranismo porta
alla guerra

intervista a papa Francesco, a cura di Domenico Agasso jr – La Stampa 9 agosto 2019

«L’Europa negli anni si è indebolita, bisogna salvarla». Papa Francesco in un’intervista a «La
Stampa» si rivolge ai vertici Ue dopo il voto del 26 maggio: «Non può e non deve sciogliersi. È
un’unità storica e culturale oltre che geografica. Non si deve perdere questo patrimonio». Il
Pontefice ha fiducia in Ursula von der Leyen: «Può ravvivare la forza dei Padri Fondatori». La
strada da percorrere è quella del «dialogo fra le parti, fra gli uomini. Basta monologhi di
compromesso, serve l’ascolto reciproco». Il punto di partenza sono «le identità, che però devono
integrarsi fra loro». È preoccupato per la deriva dei sovranismi: «Sono un’esagerazione che crea
isolamento e finisce sempre male, porta alle guerre». Sulla questione migranti: «Fuggono da
violenze e fame. Mai tralasciare il diritto più importante, quello alla vita». Invoca una svolta
ecologica mondiale: «Il 29 luglio abbiamo esaurito tutte le risorse rigenerabili del 2019. È una
situazione di emergenza globale. Occorre agire subito». A cominciare dalla salvaguardia
dell’Amazzonia, a cui dedicherà un Sinodo a ottobre: «Gran parte dell’ossigeno che respiriamo
arriva da lì. Insieme agli oceani è decisiva per la sopravvivenza del Pianeta».

Il Papa apre la porta puntuale alle 10,30, con il suo sorriso gentile. Entra in una delle stanze che usa
per ricevere la gente, arredata con l’essenziale, senza distrazioni o lussi, solo un crocifisso appeso
alla parete. Siamo arrivati dall’ingresso del Perugino, il più vicino a Casa Santa Marta. Scenario
abituale: qualche tonaca, gendarmi e guardie svizzere. Sullo sfondo, il Cupolone di San Pietro. In
Vaticano il solito tran tran è rallentato dall’afa e dal clima vacanziero. Per Papa Francesco non è un
giorno qualunque: è il 6 agosto, 41° anniversario della morte di san Paolo VI, pontefice a cui è
particolarmente affezionato: «In questa giornata cerco sempre un momento per scendere nelle
Grotte sotto la Basilica – rivelerà – e sostare, da solo, in preghiera e silenzio davanti alla sua tomba.
Mi fa bene al cuore». I convenevoli durano poco, in un attimo siamo nel pieno della conversazione.
Francesco è allegro e rilassato. E concentrato. Impressiona la sua capacità di ascolto. Guarda
sempre negli occhi. Mai l’orologio. Si prende le pause necessarie prima di esprimere un pensiero
delicato. Parla di Europa, Amazzonia e ambiente. Il colloquio è intenso e senza interruzioni. Il Papa
non beve neanche un sorso d’acqua. Glielo facciamo notare, lui scuote le spalle e risponde,
sorridendo: «Non sono l’unico che non ha bevuto».
Santità, Lei ha auspicato che «l’Europa torni a essere il sogno dei Padri Fondatori». Che cosa
si aspetta?
«L’Europa non può e non deve sciogliersi. È un’unità storica e culturale oltre che geografica. Il
sogno dei Padri Fondatori ha avuto consistenza perché è stata un’attuazione di questa unità. Ora non
si deve perdere questo patrimonio».
Come la vede oggi?
«Si è indebolita con gli anni, anche a causa di alcuni problemi di amministrazione, di dissidi interni.
Ma bisogna salvarla. Dopo le elezioni, spero che inizi un processo di rilancio e che vada avanti
senza interruzioni».
È contento della designazione di una donna alla carica di presidente della Commissione
europea?
«Sì. Anche perché una donna può essere adatta a ravvivare la forza dei Padri Fondatori. Le donne
hanno la capacità di accomunare, di unire».
Quali sono le sfide principali?
«Una su tutte: il dialogo. Fra le parti, fra gli uomini. Il meccanismo mentale deve essere “prima
l’Europa, poi ciascuno di noi”. Il “ciascuno di noi” non è secondario, è importante, ma conta più
l’Europa. Nell’Unione europea ci si deve parlare, confrontare, conoscere. Invece a volte si vedono
solo monologhi di compromesso. No: occorre anche l’ascolto».
Che cosa serve per il dialogo?
«Bisogna partire dalla propria identità».
Ecco, le identità: quanto contano? Se si esagera con la difesa delle identità non si rischia
l’isolamento? Come si risponde alle identità che generano estremismi?
«Le faccio l’esempio del dialogo ecumenico: io non posso fare ecumenismo se non partendo dal mio
essere cattolico, e l’altro che fa ecumenismo con me deve farlo da protestante, ortodosso… La
propria identità non si negozia, si integra. Il problema delle esagerazioni è che si chiude la propria
identità, non ci si apre. L’identità è una ricchezza – culturale, nazionale, storica, artistica – e ogni
paese ha la propria, ma va integrata col dialogo. Questo è decisivo: dalla propria identità occorre
aprirsi al dialogo per ricevere dalle identità degli altri qualcosa di più grande. Mai dimenticare che il
tutto è superiore alla parte. La globalizzazione, l’unità non va concepita come una sfera, ma come
un poliedro: ogni popolo conserva la propria identità nell’unità con gli altri».
Quali i pericoli dai sovranismi?
«Il sovranismo è un atteggiamento di isolamento. Sono preoccupato perché si sentono discorsi che
assomigliano a quelli di Hitler nel 1934. “Prima noi. Noi… noi…”: sono pensieri che fanno paura.
Il sovranismo è chiusura. Un paese deve essere sovrano, ma non chiuso. La sovranità va difesa, ma
vanno protetti e promossi anche i rapporti con gli altri paesi, con la Comunità europea. Il
sovranismo è un’esagerazione che finisce male sempre: porta alle guerre».
E i populismi?
«Stesso discorso. All’inizio faticavo a comprenderlo perché studiando Teologia ho approfondito il
popolarismo, cioè la cultura del popolo: ma una cosa è che il popolo si esprima, un’altra è imporre
al popolo l’atteggiamento populista. Il popolo è sovrano (ha un modo di pensare, di esprimersi e di
sentire, di valutare), invece i populismi ci portano a sovranismi: quel suffisso, “ismi”, non fa mai
bene».
Qual è la via da percorrere sul tema migranti?
«Innanzitutto, mai tralasciare il diritto più importante di tutti: quello alla vita. Gli immigrati
arrivano soprattutto per fuggire dalla guerra o dalla fame, dal Medio Oriente e dall’Africa. Sulla
guerra, dobbiamo impegnarci e lottare per la pace. La fame riguarda principalmente l’Africa. Il
continente africano è vittima di una maledizione crudele: nell’immaginario collettivo sembra che
vada sfruttato. Invece una parte della soluzione è investire lì per aiutare a risolvere i loro problemi e
fermare così i flussi migratori».
Ma dal momento che arrivano da noi come bisogna comportarsi?
«Vanno seguiti dei criteri. Primo: ricevere, che è anche un compito cristiano, evangelico. Le porte
vanno aperte, non chiuse. Secondo: accompagnare. Terzo: promuovere. Quarto integrare. Allo
stesso tempo, i governi devono pensare e agire con prudenza, che è una virtù di governo. Chi
amministra è chiamato a ragionare su quanti migranti si possono accogliere».
E se il numero è superiore alle possibilità di accoglienza?
«La situazione può essere risolta attraverso il dialogo con gli altri Paesi. Ci sono Stati che hanno
bisogno di gente, penso all’agricoltura. Ho visto che recentemente di fronte a un’emergenza
qualcosa del genere è successo: questo mi dà speranza. E poi, sa che cosa servirebbe anche?».
Che cosa?
«Creatività. Per esempio, mi hanno raccontato che in un paese europeo ci sono cittadine semivuote
a causa del calo demografico: si potrebbero trasferire lì alcune comunità di migranti, che tra l’altro
sarebbero in grado di ravvivare l’economia della zona».
Su quali valori comuni occorre basare il rilancio dell’Ue? L’Europa ha ancora bisogno del
cristianesimo? E in questo contesto gli ortodossi che ruolo hanno?
«Il punto di partenza e di ripartenza sono i valori umani, della persona umana. Insieme ai valori
cristiani: l’Europa ha radici umane e cristiane, è la storia che lo racconta. E quando dico questo, non
separo cattolici, ortodossi e protestanti. Gli ortodossi hanno un ruolo preziosissimo per l’Europa.
Abbiamo tutti gli stessi valori fondanti».
Attraversiamo idealmente l’Oceano e pensiamo al Sudamerica. Perché ha convocato in
Vaticano, a ottobre, un Sinodo sull’Amazzonia?
«È “figlio” della “Laudato si’”. Chi non l’ha letta non capirà mai il Sinodo sull’Amazzonia. La
Laudato si’ non è un’enciclica verde, è un’enciclica sociale, che si basa su una realtà “verde”, la
custodia del Creato».
C’è qualche episodio per Lei significativo?
«Alcuni mesi fa sette pescatori mi hanno detto: “Negli ultimi mesi abbiamo raccolto 6 tonnellate di
plastica”. L’altro giorno ho letto di un ghiacciaio enorme in Islanda che si è sciolto quasi del tutto:
gli hanno costruito un monumento funebre. Con l’incendio della Siberia alcuni ghiacciai della
Groenlandia si sono sciolti, a tonnellate. La gente di un paese del Pacifico si sta spostando perché
fra vent’anni l’isola su cui vive non ci sarà più. Ma il dato che mi ha sconvolto di più è ancora un
altro».
Quale?
«L’Overshoot Day: il 29 luglio abbiamo esaurito tutte le risorse rigenerabili del 2019. Dal 30 luglio
abbiamo iniziato a consumare più risorse di quelle che il Pianeta riesce a rigenerare in un anno. È
gravissimo. È una situazione di emergenza mondiale. E il nostro sarà un Sinodo di urgenza.
Attenzione però: un Sinodo non è una riunione di scienziati o di politici. Non è un Parlamento: è
un’altra cosa. Nasce dalla Chiesa e avrà missione e dimensione evangelizzatrici. Sarà un lavoro di
comunione guidato dallo Spirito Santo».
Ma perché concentrarsi sull’Amazzonia?
«È un luogo rappresentativo e decisivo. Insieme agli oceani contribuisce in maniera determinante
alla sopravvivenza del pianeta. Gran parte dell’ossigeno che respiriamo arriva da lì. Ecco perché la
deforestazione significa uccidere l’umanità. E poi l’Amazzonia coinvolge nove Stati, dunque non
riguarda una sola nazione. E penso alla ricchezza della biodiversità amazzonica, vegetale e animale:
è meravigliosa».
Al Sinodo si discuterà anche la possibilità di ordinare dei «viri probati», uomini anziani e
sposati che possano rimediare alla carenza di clero. Sarà uno dei temi principali?
«Assolutamente no: è semplicemente un numero dell’Instrumentum Laboris (il documento di
lavoro, ndr). L’importante saranno i ministeri dell’evangelizzazione e i diversi modi di
evangelizzare».
Quali sono gli ostacoli alla salvaguardia dell’Amazzonia?
«La minaccia della vita delle popolazioni e del territorio deriva da interessi economici e politici dei
settori dominanti della società».
Dunque come deve comportarsi la politica?
«Eliminare le proprie connivenze e corruzioni. Deve assumersi responsabilità concrete, per esempio
sul tema delle miniere a cielo aperto, che avvelenano l’acqua provocando tante malattie. Poi c’è la
questione dei fertilizzanti».
Santità, che cosa teme più di tutto per il nostro Pianeta?
«La scomparsa delle biodiversità. Nuove malattie letali. Una deriva e una devastazione della natura
che potranno portare alla morte dell’umanità».
Intravede una qualche presa di coscienza sul tema ambiente e cambiamento climatico?
«Sì, in particolare nei movimenti di giovani ecologisti, come quello guidato da Greta Thunberg,
“Fridays for future”. Ho visto un loro cartello che mi ha colpito: “Il futuro siamo noi!”».
La nostra condotta quotidiana – raccolta differenziata, l’attenzione a non sprecare l’acqua in
casa – può incidere o è insufficiente per contrastare il fenomeno?
«Incide eccome, perché si tratta di azioni concrete. E poi, soprattutto, crea e diffonde la cultura di
non sporcare il creato».


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