Conflitti e trafficanti d’armi, perché il Papa ha colto nel segno
di Francesco Peloso
in “La Stampa-Vatican Insider” del 1° aprile 2016
Dietro guerre e terrorismo ci sono i trafficanti d’armi, quelli che guadagnano sulla morte degli
innocenti, che speculano sui conflitti. Il Papa ha ripetuto questo concetto instancabilmente in questi
tre anni e probabilmente le sue parole sono state un po’ sottovalutate o declassate ad argomento
giusto ma in fondo scontato. La questione riveste invece un’importanza cruciale nel dilagare delle
violenze, per spiegare la facilità con cui si realizzano gravissimi attentati terroristici e il perdurare di
guerre sanguinose in una concatenazione inarrestabile di cause ed effetti. Da ultimo, nel corso della
cerimonia della Messa in Coena Domini del Giovedì santo, Francesco, di fronte ai rifugiati di
Castelnuovo di Porto, ha ripetuto in riferimento agli attentati di Bruxelles appena accaduti:
«…l’altro gesto è quello di tre giorni fa: un gesto di guerra, di distruzione in una città dell’Europa, di
gente che non vuole vivere in pace. Ma dietro a quel gesto, come dietro a Giuda, c’erano altri.
Dietro a Giuda c’erano quelli che hanno dato il denaro perché Gesù fosse consegnato. Dietro a quel
gesto di tre giorni fa in quella capitale europea, ci sono i fabbricanti, i trafficanti di armi che
vogliono il sangue, non la pace; che vogliono la guerra, non la fratellanza».
C’è da considerare intanto che Bergoglio ha una conoscenza del fenomeno legata alla realtà
latinoamericana in cui le connessioni fra grande criminalità, traffico d’armi e di droga e tratta dei
migranti, sono fenomeni fra essi collegati e in crescita esponenziale. Si tratta di problemi che, non a
caso, sono stati sollevati e denunciati dal Pontefice pure nel recente viaggio in Messico, paese nel
quale – come in altre nazioni centro e sudamericane – acquistare o procurarsi armi da fuoco anche
pesanti in modo legale o al mercato nero, è estremamente facile.
La storia dei conflitti e del terrorismo degli ultimi vent’anni è fortemente segnata dall’espansione
del traffico d’armi operato sia dai grandi network criminali – fra i quali spicca il ruolo della
’ndrangheta che controlla i commerci illegali al centro di un’area nevralgica come il Mediterraneo –
che dagli Stati per i quali l’industria degli armamenti è spesso una voce importante dei propri
bilanci.
I dati diffusi dal Sipri ( lo Stockholm international peace research institute che dal 1950
registra e studia le transazioni relative agli armamenti)
, illustrano alcune tendenze significative
degli ultimi anni.
Nel periodo che va dal 2010 al 2014, la classifica dei paesi esportatori vede al primo posto gli Stati
Uniti seguiti da Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Regno Unito. In Usa le esportazioni sono
aumentate del 23% rispetto al periodo 2004-2009, una crescita dovuta anche alla diminuzione degli
investimenti governativi nella spesa militare, una sorta di compensazione per il settore e per
l’economia a stelle e strisce. La Russia, da parte sua, ha fatto registrare un incremento importante
del 37%; la Cina invece è stata protagonista, è il caso di dire, di un balzo in avanti con un aumento
del 143% della vendita di armi. La Germania al contrario, ha diminuito le esportazioni del 43%,
tuttavia a partire dal 2014 ha ricominciato a crescere nel commercio verso il Medio Oriente. In ogni
caso Stati Uniti e Russia coprono il 58% di tutte le esportazioni di armamenti.
Fra i maggiori importatori ai primi cinque posti si segnalano India, Arabia Saudita, Cina, Emirati
Arabi Uniti e Pakistan che insieme coprono il 33% del mercato globale delle importazioni (sempre
nel periodo 2010-2014), sul piano generale e continentale sono però Asia e Oceania a fare la parte
del leone nelle importazioni (48% del totale). E tuttavia per comprendere il fenomeno bisogna
restringere un po’ la visuale: nell’ultimo quinquennio preso in considerazione rispetto al periodo
precedente, il boom nell’importazione di armi riguarda l’Africa con una crescita del 45% – in questo
ha contribuito il diffondersi del gruppo estremista di Boko Haram – seguita ancora dall’Asia e poi
dal Medio Oriente. Da rilevare, poi, come fra i dieci paesi leader nelle importazioni, cinque siano
asiatici: India (15% del totale), Cina (5%), Pakistan (4%), Corea del Sud e Singapore (3%). L’India
ha superato in questa classifica la Cina mentre il piccolo Azerbaigian, ha aumentato l’importazione
di armi del 249%.
Se questi sono i dati economici di fondo già di per sé significativi, bisognerebbe poi tenere conto di
un florido mercato nero o illegale che può sfuggire alle statistiche ma risulta in molti casi decisivo.
Tre conflitti in particolare – quello nell’ex Jugoslavia, e poi le guerre in Afghanistan e Iraq – hanno
contribuito – «liberando arsenali», disfacendo Stati e mettendo in moto un meccanismo di
commercio illegale – alla diffusione fuori controllo delle armi e a flussi che hanno raggiunto gruppi
terroristici, milizie, mafie.
In questo contesto spicca come l’Europa abbia sottovalutato il fenomeno
della circolazione di armi illegali al suo interno, gli attentati di Parigi e poi di Bruxelles dimostrano
invece – anche in base alle indagini condotte fino a ora – come questo sia un
mercato fiorente e
poco controllato (per esempio la dissoluzione della Libia ha portato nuovi flussi di armi in Europa)
e come sotto tale aspetto proprio il Belgio rappresenti l’anello debole nel commercio di armi
destinate a cellule terroristiche (ma in generale qui si registra una carenza di politiche a livello Ue)
.
Un discorso a parte poi merita la Siria dove, in base agli studi del Sipri, praticamente tutti i
principali produttori e importatori hanno contributo ad armare il regime o le varie fazioni di ribelli
fino ai gruppi terroristici dell’Isis. Russia, Iran, Corea del Nord, Cina, Bielorussia e Venezuela
hanno alimentato gli arsenali di Assad; la Siria d’altro canto aveva già speso enormi quantità di
risorse per ammodernare il proprio esercito nel periodo 2001-2010. Sul fronte opposto troviamo
Arabia Saudita, Qatar, Libia, Giordania, Turchia, Iraq, Sudan, Croazia, Stati Uniti, Gran Bretagna.
Nel primo caso la parte del leone l’ha fatta la Russia seguita dall’Iran che si è avvalsa anche di
Hezbollah e di Hamas e di altre milizie locali, la Corea del Nord ha fornito materiale missilistico.
Nel secondo flussi importanti sono giunti dall’Arabia Saudita e dal Qatar.
Più frastagliato e discontinuo il contributo europeo dovuto alle varie decisioni relative agli
embarghi Ue e alla loro revoca in una sorta di politica a singhiozzo nella vendita di armi verso le
parti in conflitto in Siria. Importante poi il ruolo giocato dal mercato nero nel passaggio di
armamenti da paesi come Libano e Iraq.
Un capitolo a parte è quello dell’uso di armi vietate dalle convezioni internazionali come quelle
chimiche o i barili bomba il cui utilizzo è stato provato da diverse inchieste delle Nazioni Unite.
In questo scenario preoccupante assumono un altro peso le parole del Papa, i suoi appelli
drammatici, affinché vengano fermati i profittatori di guerra, i trafficanti d’armi. D’altro canto in tal
senso il Papa prosegue su una linea di proposta di disarmo generalizzato portata avanti già da
diversi decenni dalla Chiesa sia in merito agli arsenali nucleari che a quelli convenzionali.
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