LA CHIESA È NUOVA
Il Sinodo dei vescovi si conclude aprendo alla misericordia e prefigurando la conversione del papato in una chiesa sinodale
Sorpresa! Per quella novità che viene dallo Spirito, tanto cara a papa Francesco, o forse per le astuzie della storia, la vera questione che ha dominato il Sinodo non è stata la famiglia ma la riforma del papato, e perciò della Chiesa. E mentre sul primo tema la minoranza immobilista si è presentata ben agguerrita e in rimonta rispetto alla precedente fase sinodale, sulla riapertura della questione del primato e della figura della Chiesa si è trovata spiazzata, in conflitto con se stessa e soccombente.
Il risultato è stato straordinario sia sotto il primo che sotto il secondo profilo. Quanto al primo, la famiglia e la coppia umana, assunte nella molteplicità delle loro situazioni, non sono state destinatarie di lusinghe e condanne, com’era fino ad ora, ma solo di misericordia: i divorziati risposati non sono più considerati pubblici peccatori, ma «sono battezzati, sono fratelli e sorelle, lo Spirito Santo riversa in loro doni e carismi per il bene di tutti» e si vedrà come «possano essere superate» le diverse «forme di esclusione» di cui oggi sono gravati, in ambito liturgico e in ogni altra dimensione ecclesiale; non è vero, come dicono gli antipapa, che la comunione non è stata nemmeno nominata, lo è stata invece nella forma della negazione della negazione: «non sono scomunicati», dunque avranno l’eucarestia. E quanto alla pillola anticoncezionale, l’Humanae vitae di Paolo VI viene citata in tutte le sue sagge motivazioni ma la sua proibizione dei mezzi ««non naturali»per la paternità responsabile viene lasciata cadere, e di fatto abrogata. Come aveva scritto papa Francesco nel suo programma Evangelii Gaudium, «ci sono norme o precetti ecclesiali che possono essere stati mol¬to efficaci in altre epoche, ma che non hanno più la stessa forza educativa come canali di vita. San Tommaso d’Aquino sottolineava che i precetti dati da Cristo e dagli Apostoli al popolo di Dio “sono pochissimi”. Citando sant’Agostino, no¬tava che i precetti aggiunti dalla Chiesa posterior¬mente si devono esigere con moderazione “per non appesantire la vita ai fedeli” e trasformare la nostra religione in una schiavitù, quando “la misericordia di Dio ha voluto che fosse libera”». Perciò il papa ricordava «ai sacerdoti che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luo¬go della misericordia del Signore che ci stimola a fare il bene possibile» (EG n. 43, 44).
Quanto alla riforma del papato e della Chiesa, la regola da onorare è che nella Chiesa «nessuno può essere “elevato” al di sopra degli altri» e la novità è che essa è sì una piramide, come è stata rappresentata finora ma, ha detto Francesco, è «una piramide capovolta, il vertice si trova al di sotto della sua base», dove il «vertice» non è solo il papa, ma è anche il Sinodo, è il governo collegiale della Chiesa universale; e il principio è che rispetto all’astrattezza delle dottrine e delle norme è il discernimento che guida le scelte dei pastori e dei fedeli, e la decisione sulla scelta morale da fare nella situazione data non si prende a Roma, ma nel profondo della coscienza di ciascuno in cui Dio dimora come in un tempio. Ecco una Chiesa in cui è bello vivere.
La riforma del papato
La questione del papato era stata posta esplicitamente da Francesco nel discorso del 17 ottobre nel cinquantesimo anniversario dell’istituzione del Sinodo. Lì papa Francesco aveva parlato di nuovo di una «conversione del papato», che aveva già annunciato, poco dopo essere stato eletto, nella esortazione pastorale Evangelii Gaudium, dove aveva scritto: «Dal momento che sono chiamato a vivere quanto chiesto agli altri, devo anche pensare a una conversione del papato» (n. 32).
Il tema però non era nuovo. Anche questo capitolo della riforma della Chiesa era stato aperto da Giovanni XXIII quando nel famoso discorso della luna, quell’11 ottobre 1962 la sera dell’apertura del Concilio, aveva messo anche il papa nel gran corteo dei fedeli dicendo: «Sento le vostre voci…La mia persona conta niente, è un fratello che parla a voi diventato padre per la volontà di Nostro Signore, ma tutt’insieme, paternità e fraternità, è grazia di Dio». E ora gli ha fatto eco papa Francesco dicendo: «Il papa non sta, da solo, al di sopra della Chiesa, ma dentro di essa come battezzato tra i battezzati e dentro il collegio episcopale come vescovo tra i vescovi». Sul piano dottrinale era stato il Concilio Vaticano II a collocarlo così, nonostante le resistenze di Paolo VI che aveva inflitto al Concilio la “nota praevia” al capitolo tre della Costituzione dogmatica Lumen Gentium perché, dopo tutto il cambiamento elaborato dal Concilio, tutto restasse come prima.
E prima le cose per il ruolo del papato nella Chiesa non andavano bene. Grazie alla secolare lievitazione della dottrina romana sul primato, a partire dall’idea di Gregorio VII che il papa fosse santo d’ufficio «per i meriti di san Pietro», fino a giungere al papa «che decide da se stesso e non per il consenso della Chiesa» secondo la prepotente formula del Concilio Vaticano I, il vescovo di Roma era diventato la copia di Dio, l’ “alter Christus”, “il dolce Cristo in terra”, quale era rappresentato nella suprema sovrana figura di Pio XII. E certo sarebbe stata una buona cosa per la Chiesa avere un altro Cristo in terra, se non fosse che in tal modo il Cristo vero non c’era più, e la sua controfigura in nessun caso poteva essere tale da colmarne il vuoto.
Con Giovanni XXIII e il Vaticano II cambia la percezione del papa, e comincia la serie dei papi che non fanno miracoli, anche se bisogna dire in verità che per la vischiosità del passato la Chiesa ha continuato a fare santi tutti i papi più recenti. Tuttavia Giovanni XXIII è stato canonizzato, per volontà di papa Francesco, con «un solo» miracolo, mentre secondo le regole ce ne vorrebbero due; in realtà il vero miracolo che ha fatto è stato di convocare il Concilio, quello è bastato.
Quanto a Giovanni Paolo II, miracoli o non miracoli, la gente lo voleva «santo subito», e così è stato. Ma dopo il Concilio, che aveva rimesso Pietro nel collegio degli apostoli e il suo successore nel collegio dei vescovi, era stato proprio papa Wojtyla che aveva posto, senza però cominciare da se stesso, il problema della riforma del papato, quando nella sua enciclica sull’ecumenismo, Ut unum sint, aveva detto di sentire la «responsabilità di trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova» Prima di quell’enciclica, secondo la testimonianza del camaldolese don Innocenzo Gargano, Giovanni Paolo II parlando con dei teologi del Pontificio Istituto Orientale che erano alla sua tavola, chiese loro di studiare come potessero intendersi oggi le parole di Gesù a Pietro del Vangelo di Luca: «e tu, quando ti sarai convertito, conferma i tuoi fratelli» (Lc. 22, 31-34). Da che cosa, oggi, si doveva convertire il papato per poter confermare i fratelli?
La rinunzia di Benedetto XVI
Dopo di allora il grande evento che ha riaperto la questione della riforma del papato è stata la rinuncia di Benedetto XVI, che ha tolto alle dimissioni del papa quel significato di pavido rifiuto che Dante aveva cucito addosso alla rinuncia di Celestino V, e ne ha affermato il valore teologico, come possibile esito di un ministero esposto alla debolezza e alla precarietà come ogni altro ministero nella Chiesa. Veniva in tal modo demitizzata la figura papale, rimessa nella condizione comune dei discepoli, anche se primaziale nel servizio e nella carità, e l’istituzione del «papa emerito» entrava tranquillamente, come quella dei vescovi emeriti, nella tradizione della Chiesa.
Tuttavia, nonostante questi avvenimenti e queste avvisaglie profetiche, una riforma del papato stentava ad apparire sull’orizzonte della Chiesa. Al Corso di studi cristiani di Assisi dell’agosto del 2013, cinque mesi dopo l’elezione di Bergoglio, si disse che dopo il Concilio non era riuscita la riforma della Chiesa perché questa non si può fare se non si fa la riforma del papato, ma la riforma del papato non è possibile se non è il papa stesso a farla, e che ora toccava a papa Francesco porre mano ad essa, e si aggiunse che già in quell’avvio del suo ministero se ne intravvedevano le premesse. Quando i responsabili della Pro Civitate Christiana a settembre portarono a Francesco gli atti del Convegno e gli riferirono questa opinione egli, come ha raccontato Tonio Dell’Olio, non negò e disse: «Povero papa!».
Cominciando da Santa Marta
In effetti fin dall’inizio il modo di essere e di fare il papa di Francesco è stato una riforma del papato: il presentarsi come vescovo di Roma, l’inchinarsi al popolo, l’abitare a Santa Marta, la lettura e il commento quotidiano del Vangelo, il mettersi davanti, in mezzo e dietro al gregge perché questi ha il fiuto per indicare nuove strade, l’ascolto dei vescovi e il farne risuonare anche le voci più periferiche in tutta la Chiesa, la riforma della Curia, sognata come una piccola Chiesa, ma vista come afflitta da quindici piaghe, l’ecumenismo secondo la logica non della sfera ma del poliedro, dove ogni parte è unita ma in rapporto diverso con tutte le altre parti, la parola data ai discepoli, i poveri riconosciuti come i primi evangelizzatori, le porte delle celle dei carcerati assurte a porte sante giubilari, i peccatori, gli infortunati e gli scarti della vita tutti perdonati e oggetto di misericordia.
La sfida del Sinodo dei vescovi
Ed è così che si è arrivati al Sinodo dei vescovi che da alcuni è stato visto come una sfida tra il papa e il movimento conservatore; un confronto che quest’ultimo ha vissuto come se si trattasse di una sfida sulla fede (“Permanere nella verità di Cristo” avevano scritto polemicamente cinque cardinali), e come se la fede stesse in una Chiesa che chiuda le porte, una Chiesa che usi l’eucarestia come una mannaia, che metta sulla cattedra di Mosè quelli che «usano il Vangelo come pietre morte da scagliare contro gli altri» e infine una Chiesa che neghi la comunione ai cristiani risposati.
Il gruppo conservatore ha perso la sua partita perché si è trovato coinvolto in un momento di vera sinodalità, che ha rivelato la ricchezza e la fecondità del metodo collegiale di governo, in una Chiesa già nuova, e perché si è trovato di fronte lo straordinario carisma del papa che ha ottenuto dal Sinodo soluzioni di misericordia e nello stesso tempo ha dato nuovo vigore e nuova credibilità al ministero petrino, che i tradizionalisti non potevano cercare di distruggere senza tradire se stessi e le loro stesse dottrine.
Così le conclusioni del Sinodo, sia nel merito che nel metodo, sono state profondamente sapienziali e innovative, facendo già vedere l’attuazione di quello che papa Francesco aveva detto il 17 ottobre nella circostanza solenne dei cinquant’anni dall’istituzione del Sinodo.
Una Chiesa sinodale per il terzo millennio
In quel discorso il papa aveva di nuovo rivendicato la continuità col Concilio, e l’aveva identificata nella sinodalità come caratteristica della Chiesa, non per le prossime settimane, ma per il terzo millennio. E come aveva fatto il Concilio nella Lumen Gentium, il papa è partito dal popolo di Dio, dalla totalità dei battezzati, che non può sbagliarsi nel credere, un popolo che non è solo discepolo, ma i cui membri, come discepoli, non sono semplicemente ascoltatori della Parola, ma evangelizzatori, suggeritori e continuatori della fede. Sicché, ha detto il papa, ci sono tre livelli della vita della Chiesa di cui il Sinodo doveva mettersi all’ascolto: l’ascolto del Popolo «secondo un principio caro alla Chiesa del primo millennio: “Quod omnes tangit ab omnibus tractari debet”» (traduzione ad uso dei nostri neo-costituenti: “Quello che riguarda tutti deve essere trattato da tutti”); l’ascolto dei Pastori, ossia dei vescovi che «attraverso i Padri sinodali agiscono come autentici custodi, interpreti e testimoni della fede di tutta la Chiesa»; l’«ascolto del vescovo di Roma, chiamato a pronunciarsi come “Pastore e Dottore di tutti i cristiani” (Vaticano I), “garante dell’ubbidienza e della conformità della Chiesa alla volontà di Dio, al Vangelo di Cristo e alla Tradizione della Chiesa” (Francesco, alla conclusione del Sinodo dell’anno scorso, 18 ottobre 2014)».
Il papa descriveva poi la sinodalità «come dimensione costitutiva della Chiesa», che al suo primo livello si realizza nella Chiese particolari, dove è decisivo il funzionamento degli organismi di partecipazione sia dei preti che dei fedeli (organismi di comunione), al secondo livello si realizza nelle Conferenze episcopali come istanze intermedie della collegialità («non è opportuno che il papa sostituisca gli episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori», per cui è necessario «procedere in una salutare “decentralizzazione”»; al terzo livello si realizza nella Chiesa universale, dove il Sinodo dei vescovi, come voleva il Concilio, «diventa espressione della collegialità episcopale all’interno di una Chiesa tutta sinodale».
Una Chiesa sinodale è per sua natura votata all’ecumenismo nelle relazioni con le altre Chiese e, ha detto Francesco, «sono persuaso che, in una Chiesa sinodale, anche l’esercizio del primato petrino potrà ricevere maggiore luce», col papa battezzato tra i battezzati e vescovo tra i vescovi, «chiamato nel contempo – come successore dell’apostolo Pietro – a guidare la Chiesa di Roma che presiede nell’amore tutte le Chiese». Perciò, alla conclusione del Sinodo, e questo è appunto uno dei suoi frutti più preziosi, papa Francesco ha ribadito «la necessità e l’urgenza di pensare a “una conversione del papato”», per la costruzione di quella Chiesa sinodale che ci fa anche coltivare «il sogno» di una società civile giusta e fraterna e di «un mondo più bello e più degno dell’uomo per le generazioni che verranno dopo di noi».
(da “Rocca” del 25 ottobre 2015) Raniero La Valle
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