CHI FARÀ LA RIVOLUZIONE DI FRANCESCO?
(da “Rocca” del 15 febbraio 2014)
C’è una questione seria: chi farà la rivoluzione di papa Francesco? Non parlo della rivoluzione nella Chiesa, che papa Francesco chiama «conversione» o anche «permanente riforma» e che, come dice nella Evangelii Gaudium, deve cominciare dalla conversione del papato: questa la deve fare lui e con lui la devono fare i credenti della sua Chiesa Ma la rivoluzione che papa Francesco invoca per la società, e che lui chiama riforma finanziaria ed etica, per cambiare «un sistema sociale ed economico ingiusto alla radice» (E. G. n. 59) e abbattere la «dittatura dell’economia senza volto né scopo realmente umano», la dobbiamo fare noi, i cittadini, uomini e donne amanti dell’umanità e della giustizia, credenti o non credenti che siamo.
La critica al sistema economico dominante in nome dei poveri e degli esclusi Bergoglio l’ha formulata ben prima di diventare papa, insieme a tanti preti e vescovi che per questo, fossero o no partecipi della teologia della liberazione, in Argentina erano chiamati «comunisti». Ma «la scelta dei poveri risale ai primi secoli del cristianesimo» testimoniò il cardinale Bergoglio a Buenos Aires dinanzi alla Corte che indagava sui crimini del regime militare argentino: «se io oggi leggessi come omelia alcuni dei sermoni dei primi Padri della Chiesa del II-III secolo, su come si debbano trattare i poveri – spiegò ai giudici – direste che la mia omelia è da marxista o da trotzkista», mentre invece «la scelta dei poveri viene dal Vangelo».
Una critica di sistema
Il tema dei poveri doveva essere poi non solo un tema teologico forte del pontificato di Francesco («per la Chiesa l’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica» ha scritto nella Evangelii Gaudium n.198; «tra la nostra fede e i poveri esiste un vincolo inseparabile», n. 48)), ma doveva diventare l’architrave del suo giudizio sulla situazione storica e del suo programma pastorale per il mondo. È rimasta ben presente in lui la consapevolezza, maturata in America Latina, delle cause strutturali della povertà, e questa si è tradotta in una radicale critica di sistema che il papa ha cominciato ad articolare e ad enunciare fin dai primi atti del suo pontificato. Già il tema fu avanzato in tutta la sua ampiezza nel discorso rivolto agli ambasciatori di quattro piccoli Paesi venuti a presentargli le credenziali il 16 maggio 2013, nel quale metteva sotto accusa il «rapporto che abbiamo con il denaro, nell’accettare il suo dominio su di noi e sulle nostre società», per cui «oggi l’essere umano è considerato come un bene di consumo che si può usare e poi gettare. Abbiamo incominciato questa cultura dello scarto – aggiungeva – Mentre il reddito di una minoranza cresce in maniera esponenziale, quello della maggioranza si indebolisce. Questo squilibrio deriva da ideologie che promuovono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria, negando così il diritto di controllo agli Stati pur incaricati di provvedere al bene comune. Si instaura una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale, che impone unilateralmente e senza rimedio possibile le sue leggi e le sue regole. Inoltre, l’indebitamento e il credito allontanano i Paesi dalla loro economia reale ed i cittadini dal loro potere d’acquisto reale. A ciò si aggiungono, oltretutto, una corruzione tentacolare e un’evasione fiscale egoista che hanno assunto dimensioni mondiali. La volontà di potenza e di possesso è diventata senza limiti».
Il papa è poi tornato più volte a tematizzare la «cultura dello scarto». Il mondo di oggi non è concepito, non è pensato per tutti: «Uomini e donne vengono sacrificati agli idoli del profitto e del consumo: è la cultura dello scarto», ha detto Francesco il 5 giugno in piazza san Pietro; e più volte ha citato un midrash ebraico che, a proposito della torre di Babele, diceva che se si rompeva un mattone d’argilla tutti facevano un grande pianto, ma se un operaio cadeva dall’impalcatura e moriva, nessuno si preoccupava. E la stessa cosa accade «se una notte d’inverno in via Ottaviano» (che è vicino al Vaticano) «muore una persona; quella non è una notizia. Se in tante parti del mondo ci sono bambini che non hanno da mangiare, quella non è una notizia, sembra normale…. Al contrario un abbassamento di dieci punti nelle borse di alcune città costituisce una tragedia. Così le persone vengono scartate come se fossero rifiuti».
Questo filo rosso che attraversa tutta la predicazione di papa Francesco, rimarrebbe un puro lamento se non si traducesse in un’assillante richiesta di un cambiamento di sistema, esplicitamente chiamato in causa come tale. Così ha fatto quando, parlando con i giornalisti di ritorno dal Brasile, ha additato «il sistema socio-economico mondiale» come responsabile dei morti e dei naufraghi di Lampedusa; così ha fatto parlando agli operai e ai disoccupati di Cagliari, il 23 settembre 2013, esortandoli a non farsi «rubare la speranza e la dignità» insieme col lavoro, ad avere coraggio, a pregare per avere il lavoro e per imparare «a lottare per il lavoro», mentre egli, per parte sua, non poteva limitarsi a dire solo «una bella parola di passaggio», ma doveva impegnarsi «come pastore e come uomo» per sostenere questo coraggio, per rivendicare insieme ai lavoratori «un sistema giusto, non questo sistema economico globalizzato, che ci fa tanto male».
Finalmente la critica di sistema di papa Francesco prendeva tutta la sua forza in un passaggio cruciale del documento programmatico del suo pontificato, l’esortazione Evangelii Gaudium pubblicata a conclusione dell’anno della fede.
Qui il papa riprendeva alla lettera le tesi già enunciate agli ambasciatori il 16 maggio e diceva che con la stessa forza con cui proclamiamo il non uccidere «oggi dobbiamo dire “no a un’economia dell’esclusione e della inequità”. Questa economia uccide…. Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come conseguenza di questa situazione, grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita» (E.G. n.53).
Né si può pensare che le cose si mettano a posto da sé, come vorrebbe l’assioma ideologico del liberismo; infatti il papa respingeva «le teorie della “ricaduta favorevole”, che presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante. Nel frattempo, gli esclusi continuano ad aspettare».
Dallo sfruttamento all’esclusione
Mai, dopo la critica marxiana al capitalismo era stata espressa un’opposizione così forte al sistema economico vigente, alla sua ideologia, alla sua matrice antropologica, anche se il nome con cui viene chiamato l’oggetto del rifiuto non è «il capitale» ma «il governo del denaro». Senonché la situazione non è più quella analizzata da Marx, e dunque si deve andare oltre Marx: «Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione – dice il papa – ma di qualcosa di nuovo»; si tratta dell’esclusione, e «con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nelle periferie, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”».
Messe così le cose, si pongono alcune domande.
1) In nome di quale ideologia viene formulato questo giudizio? Né ideologia né sociologia, «ciò che intendo offrire – dice Francesco – va piuttosto nella linea di un discernimento evangelico». Dunque siamo in un terreno specificamente cristiano.
2 ) La critica al sistema disumanizzante ha solo una ragione politica e umanitaria, o ha una ragione teologica? È una critica teologica, perché il sistema viene descritto come idolatrico; esso ha scelto il denaro come suo dio, i «benefici» come regola assoluta e il mercato «divinizzato»; perciò esso avverte Dio come una minaccia, perché Dio «è incontrollabile, non manipolabile, perfino pericoloso» nella misura in cui vuole sottrarre l’essere umano ad ogni schiavitù (n. 57). Dunque Dio contro Dio, la causa è specificamente cristiana.
3) Prendendo di petto un problema umano generale, il papa esce dal recinto della Chiesa e si getta nel mondo, inteso come il grande spazio che va oltre la Chiesa? Se si intende la Chiesa nel modo tradizionale e la si identifica con l’istituzione cattolica, certamente il papa esce dal suo recinto. Ma nella visione dell’ Evangelii Gaudium c’è un nuovo «modo di intendere la Chiesa» (n. 111); essa non è solo il popolo che visibilmente le appartiene, ma è il Popolo di Dio che si incarna nei popoli della Terra (n. 115), che ha le sue radici nella Trinità e la cui «armonia» è lo stesso Spirito Santo: dunque si tratta di «tutti», degli «esseri umani di tutti i tempi»; questa Chiesa, ricca della varietà di tutti i popoli e di tutte le culture, come «sponsa ornata monilibus suis» (la sposa che si adorna con i suoi gioielli), è l’umanità tutta intera, è l’intera collettività (anche se non ancora comunione) dei figli di Dio. Dunque quando si parla del mondo dominato dal denaro si parla di una realtà universale che è ancora nel mistero cristiano.
Quali i soggetti della liberazione?
4) Infine c’è l’ultima domanda, difficile. Quali sono i soggetti della liberazione? È la domanda su cui è caduta la sinistra dopo la fine del comunismo, quando al posto degli operai ha evocato il Terzo Mondo, le donne, i giovani. Secondo la risposta classica i soggetti della liberazione sono le stesse vittime. Quindi, nello schema marxista, sono gli sfruttati e gli oppressi. Ma ora, secondo il papa, le vittime sono gli esclusi. E gli esclusi non possono fare la rivoluzione perché, appunto non ci sono, sono messi fuori.
Da ciò vengono alcune conseguenze.
La prima è che la lotta contro l’esclusione è obiettivamente rivoluzionaria, perché attacca il cuore del sistema di «inequità» (come lo chiama il papa, inequidad in spagnolo), e rimettendo gli esclusi nella società vi introduce i soggetti della liberazione. Dunque ciò facendo la Chiesa non fa la rivoluzione, ma la prepara.
La seconda è che, finché gli esclusi sono tenuti fuori e scartati dalla politica, l’azione per il cambiamento del sistema non può che essere condotta da minoranze, capaci di alleanze e di egemonia; nessuno che pretenda avere “vocazione maggioritaria” lo può fare invocando un altro sistema e parlando per gli esclusi.
La terza è che l’ordine esistente, per perpetuarsi, deve fare in modo che gli esclusi restino esclusi e anzi deve creare sempre nuove esclusioni. È impressionante per esempio vedere come la legge elettorale che oggi viene promossa al posto del “Porcellum” sia una legge di esclusione, che tende a escludere pezzi sempre maggiori di elettorato e di forze parlamentari. E si capisce anche perché c’è chi si rallegra affermando che con la legge maggioritaria finisce ogni possibilità di un cattolicesimo politico, restando possibile solo la dispersione dei cattolici nel mucchio delle forze omogenee al sistema. Se l’appello del papa per l’uscita dal sistema di esclusione e d’iniquità riguarda anche loro, essi dovrebbero invece recuperare una loro autonomia ideale e politica, impedire che il sistema sia corazzato e blindato e che le sue gerarchie si perpetuino per cooptazione, e creare gli spazi perché delle minoranze creative e motivate possano rompere i limiti del sistema e riaprirlo all’ingresso dei poveri, degli esuli, degli esuberi e degli esclusi e un mondo più amabile diventi possibile.
Raniero La Valle
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