Se Francesco ci dà una mano
di Giacomo Galeazzi – La Stampa 29 maggio 2014
In fondo alla chiesa per salutare i fedeli al termine della messa. A dare l’esempio, fin dalla sua prima messa da pontefice nella parrocchia vaticana di Sant’Anna, è stato papa Francesco.
In America Latina e nel mondo anglosassone è consuetudine che il celebrante scenda dall’altare per andare davanti alla porta e stringere la mano a tutte le persone che escono dalla cerimonia religiosa.
Anche in Italia sulle orme di Papa Bergoglio in molte parrocchie è invalsa la consuetudine di
“questo umile e fortissimo segno di condivisione”, spiega l’arcivescovo di Taranto Filippo Santoro, già missionario “fidei donum” in Brasile, parroco a Copacabana, ausiliare dell’arcidiocesi di Rio de Janeiro e presule di Petropolis. “Quella di salutare i fedeli all’uscita dalla messa è una prassi che ho appreso in Sudamerica e che proseguo qui in Italia – racconta Santoro. Per noi è un modo efficace di avvicinarci soprattutto a chi viene in parrocchia solo la domenica o per cerimonie come comunioni o cresime. È un piccolo ma significativo gesto che aiuta a trasmettere il senso di comunità soprattutto ai lontani”.
Una condivisione che abbatte il muro della distanza. Commenta Stefano Ceccanti, ex presidente
della Federazione universitaria cattolica italiana (Fuci): “Il sociologo dell’Azione cattolica Cesare
Martino, morto prematuramente, era solito scioccare le platee cattoliche negli anni ’80 con una
battuta a effetto: “Mi raccomando: più salami e meno salmi”. Dopo lo shock, ovviamente, si
spiegava: senza un senso di condivisione umana, senza un bozzolo di fraternità con tutti, il senso dei
riti e specie dell’eucarestia, finiva per essere incomprensibile, per trasformarsi in una deriva
spiritualista o settaria, di religiosità separata e decontestualizzata. Vedendo questo e altri gesti del
Papa non posso che ripensare a quelle parole”. Aggiunge Ceccanti: “La differenza è che oggi la
testimonianza viene dal Vescovo di Roma e ciò non è poco. Da lassù Cesare Martino, col suo amico
inseparabile Paolo Giuntella, si staranno divertendo un mondo”.
Il vescovo di Ascoli Piceno, Giovanni D’Ercole afferma a “Vatican Insider” che si tratta di “un
simbolo di accoglienza per concretizzare la vicinanza del pastore al gregge e per incontrare ogni
fedele in uno spazio di dialogo e di condivisione: io lo faccio sempre e leggo negli occhi della gente
la gioia della condivisione”.
L’arcivescovo di Trieste Giampaolo Crepaldi (presidente dell’Osservatorio internazionale Cardinale
Van Thuan sulla Dottrina sociale della Chiesa) concorda sull’importanza di “un momento di
comunione che è anche previsto nei riti di alcuni sacramenti come il battesimo e che favorisce il
senso della prossimità”.
Nella parrocchia romana di San Giuseppe Cottolengo, presidio di socialità e fede nel difficile
quartiere popolare di Valle Aurelia, don Giuseppe Grazioli saluta uno per uno i fedeli sia all’inizio
sia al termine della funzione religiosa. “Le porte della chiesa sono aperte a chiunque, nessuno è un
intruso né un estraneo – puntualizza don Giuseppe – La comunità parrocchiale è una famiglia in cui
nessuno deve sentirsi escluso, col calore della solidarietà e un sorriso sincero arrivano al cuore più
di qualunque discorso”.
Un’abitudine condivisa anche da monsignor Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo e
commissario Cei per l’immigrazione. “Scendere dall’altare e salutare ciascun fedele è una lezione di
papa Francesco che aiuta a personalizzare l’assemblea e a dare un segnale diretto di attenzione al
singolo”, sottolinea Mogavero.
Una vicinanza di cui “il sacerdote ha bisogno quanto il laico”, precisa Francesco Belletti, presidente
del Forum delle Associazioni familiari, secondo cui “abbattere le barriere tra il celebrante e la gente
costituisce un’utilissima esperienza di relazione pastorale per la Chiesa di popolo”. Al punto che
quando ciò non avviene le persone avvertono il gelo della lontananza.
“Al funerale di mia madre Elvira più di qualunque omelia mi avrebbe aiutato se il prete fosse
venuto a stringerci la mano”, sostiene Paola Anderlucci, “credente ma praticante poco assidua”. È
anche “con questi gesti simbolici e quotidiani che papa Francesco comunica una visione inclusiva e
non gerarchica della Chiesa”, analizza la giornalista e scrittrice Francesca Barra, autrice di “Tutta la
vita in un giorno – viaggio tra la gente che sopravvive mentre nessuno se ne accorge”. Inoltre
“esiste una dimensione, che immaginiamo distante da noi, e troppo spesso sotto di noi, in cui
sopravvivono uomini e donne, ignorati, invisibili”. Infatti, “siamo stati educati secondo principi
cattolici, abbiamo sentito parlare di accoglienza, carità, parità e generosità. Ma non abbiamo mai
tradotto quelle parole, in azioni. Non abbiamo declinato l’amore di Dio, in amore per il prossimo.
Non abbiamo condiviso la grammatica di Dio. Fino a quando non è arrivato un uomo, papa
Francesco. Che si è fatto ultimo, perché si siede fisicamente fra gli ultimi, stringe le mani,
simbolicamente e in modo rivoluzionario, a chi è seduto negli ultimi banchi. Permettendo così, a chi
è avanti, di girarsi, di voltarsi a guardare e stupirsi di una fede che rinnega gerarchie e poteri e
strutture orizzontali. Di scoprire che esiste qualcuno dietro di noi. Che ha una forma, un volto, un
nome, una storia”.
Francesca Barra ha proposto, “dopo aver condotto la mia inchiesta sui senzatetto e raccolto le
testimonianze degli invisibili”, di destinare “file gratuite di teatri, cinema, concerti, a chi non può
permettersi il biglietto”. Invece che destinarli, ugualmente gratuiti a “personalità”, politici, vip. “Il
mio è un appello a tante amministrazioni. Perché la politica, le istituzioni, i più fortunati, così come
ha dimostrato papa Francesco, dovrebbero sedersi accanto a chiunque: la cultura è un diritto che
rende lucidi, vivi, meno isolati. Così come la fede”. “Se ti accorgerai di me, legittimerai la mia
esistenza” ha detto a Francesca Barra un ex-artigiano, padre separato, senzatetto, che ha vissuto in
auto sette anni, prima di ripronunciare il proprio nome di battesimo a qualcuno.
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