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Noi Siamo Chiesa

Sezione italiana del movimento internazionale “We Are Church” per la riforma della Chiesa cattolica

Sulla Populorum Progressio

L’enciclica sullo sviluppo dei popoli

A 40 anni dalla Populorum progressio

Il messaggio della Populorum progressio, come apparve dal vivace dibattito seguito alla sua pubblicazione, metteva in discussione lo stesso diritto umano al "possesso" dei campi, dei minerali, dell’acqua, degli alberi, degli animali, eccetera, che non sono di una singola persona o di un singolo paese, ma "di Dio".Giorgio NebbiaFonte: Missione Oggi (Brescia), n. 3, marzo 2007, p. 13-16Sembrano passati secoli, eppure sono passati solo quarant’anni dal 1967, quando è stato pubblicato un documento rivoluzionario che, se fosse stato ascoltato, avrebbe evitato infiniti guai, sia umani, sia economici, sia ambientali. Mi riferisco all’enciclica "Populorum progressio", scritta da Paolo VI poco dopo la conclusione del Concilio Vaticano II, quando l’aria e il cuore di tanti paesi e popoli del mondo erano ancora pieni di speranza per la liberazione dall’arretratezza e dall’ingiustizia. Il "progressio", lo sviluppo di cui parla l’enciclica, è qualcosa di diverso dal nuovo idolo della crescita. Anche nella lingua italiana lo sviluppo è riferito alle persone e ai popoli e parla della liberazione dall’ignoranza, dalla discriminazione e dalla povertà, mentre il termine crescita non si applica alle persone e ai popoli, ma soltanto alle cose, al denaro. L’enciclica sullo sviluppo dei popoli diceva bene che "il fine ultimo e fondamentale dello sviluppo non consiste nel solo aumento dei beni prodotti né nella sola ricerca del profitto e del predominio economico; non basta promuovere la tecnica perché la Terra diventi più umana da abitare; economia e tecnica non hanno senso che in rapporto all’uomo che esse devono servire" (n. 34). Poco prima della pubblicazione dell’enciclica, Paolo VI aveva istituito una speciale commissione pontificia, denominata "Iustitia et pax", ispirata ad una frase del profeta Isaia, 32:17, secondo cui la pace è "opera" della giustizia. Nel presentare la nuova commissione Paolo VI l’aveva paragonata al "gallo sul tetto", il simbolo che si trova su tanti campanili e anche abitazioni nei paesi nordici, ma anche da noi in Italia. Il gallo sul tetto vede l’alba mentre le persone nella casa dormono, e canta e disturba quelli che vorrebbero continuare a dormire, ma alla fine anche chi dorme deve svegliarsi. Qualcuno cerca di tirare un sasso al fastidioso gallo, ma alla fine, nel nostro caso la domanda di nuovi diritti e giustizia e pace, che viene da lontano, riesce a prevalere e ad essere ascoltata. Giustizia e pace non avrebbero potuto essere realizzati senza prestare attenzione all’iniquo uso delle risorse naturali, beni comuni dell’umanità, da parte di una minoranza dei paesi e popoli della Terra, una iniquità che la Santa Sede ha sempre denunciato, con interventi "profetici" e anche impopolari, alle conferenze delle Nazioni Unite sui grandi problemi planetari — sull’ambiente, sull’acqua, sulla popolazione, sull’alimentazione, sulla donna, sugli insediamenti umani, eccetera — ricordando ogni volta che il rispetto della natura è un dovere verso un bene che non è nostro e che ci è stato dato da Dio per coltivarlo e custodirlo (Genesi 2:15). Il messaggio della Populorum progressio, come apparve dal vivace dibattito seguito alla sua pubblicazione, metteva in discussione lo stesso diritto umano al "possesso" dei campi, dei minerali, dell’acqua, degli alberi, degli animali, eccetera, che non sono di una singola persona o di un singolo paese, ma "di Dio". E del resto i vari anni "giubilari", seguiti al 1967 erano (avrebbero dovuto essere) ispirati allo spirito del comando biblico (capitolo 25 del libro del Levitico) secondo cui il popolo di Dio ogni 50 anni avrebbe dovuto lasciare "riposare la Terra", fermando lo sfruttamento delle risorse naturali, avrebbe dovuto essere restituita alla comunità la terra acquistata, cioè i beni accumulati, avrebbe dovuto liberare gli schiavi. Tutto il contrario di quello che prescrive la saggezza economica. Non a caso l’invito della "Populorum progressio" è stato accantonato e le celebrazioni successive, come l’enciclica "Sulla cura per le cose sociali", pubblicata nel 1987, venti anni dopo, non hanno avuto adeguato ascolto o seguito. Tanto che al perpetuarsi delle ingiustizie e al ritardo dello "sviluppo dei popoli", di tanta parte (almeno i due terzi) degli abitanti della Terra si possono attribuire la diffusione dei conflitti locali, della corsa agli armamenti, della violenza e del terrorismo. Sarebbe il caso di ricominciare a chiedersi come "economia e tecnica" possano rendere la Terra più umana da abitare (aptior ad habitandum). Economia e tecnica, in definitiva, non fanno altro che usare le risorse della Terra — minerali, acqua, energia, prodotti agricoli, eccetera — trasformandole al fine di soddisfare bisogni umani; finora l’economia e la tecnica sono state usate per il "solo aumento dei beni prodotti" e la "sola ricerca del profitto e del predominio economico", per l’aumento dei beni materiali accessibili a una minoranza di terrestri, con l’effetto di peggiorare, attraverso la violenza e l’inquinamento, le condizioni di vita della maggioranza dei terrestri e le stesse condizioni della natura. L’economia e la tecnica potrebbe essere impiegate e orientate, invece, per alleggerire le ingiustizie, per assicurare ai popoli e alle comunità meno favorite una terra davvero "più umana da abitare". Occorre sviluppare una "tecnologia sociale", una "ingegneria dell’amore" per il prossimo e della speranza, rivolte a identificare come i meno abbienti possono usare le risorse naturali disponibili nei rispettivi territori per eliminare la miseria. L’obiezione, apparentemente "sensata", a questi progetti sta nel fatto che dare case igieniche e acqua potabile e gabinetti e medicine ai poveri non rende, non permette di assicurare agli azionisti adeguati dividendi, non fa aumentare il prodotto interno dei paesi industriali, non assicura lavoro. A mio modesto parere, invece, è proprio un impegno nello sviluppo dei popoli che permette di attenuare la violenza e nello stesso tempo assicura occupazione, la soddisfazione di ineludibili bisogni, con beni materiali tratti dalla Terra, senza rendere inabitabile la Natura, ma che richiedono innovazioni, soluzioni tecnico-scientifiche e strutture sociali e culturali del tutto diversi dalle attuali. Lo sviluppo e la liberazione dei poveri richiedono anch’essi beni materiali tratti dalla natura e la grande sfida di una tecnologia sociale consiste nel procurarli attenuando le conseguenze planetarie e future che hanno caratterizzato la crescita fino ad oggi. Il primo bisogno umano fondamentale riguarda la liberazione dalla fame: gli alimenti possono essere forniti soltanto dall’agricoltura che si rivela il settore veramente primario di ogni economia. Le terre coltivabili potrebbero fornire alimenti in grado di sconfiggere la fame e la denutrizione di tanti terrestri, se venissero sconfitti gli innumerevoli sprechi generati dagli errori alimentari dei paesi ricchi e da assurde regole economiche e commerciali internazionali. Finora l’agricoltura è stata considerata non come servizio per l’umanità, ma come fonte di denaro e di profitto per i proprietari dei suoli; così nei paesi ricchi estensioni sempre maggiori dei terreni coltivabili vengono abbandonate perché non sono sufficientemente redditizie — in termini monetari, secondo le regole capitalistiche — e preziosi prodotti agricoli vengono distrutti o destinati all’alimentazione del bestiame per fornire i ricchi alimenti carnei alle mense dei popoli ricchi. Eppure se le conoscenze tecnico-scientifiche disponibili fossero messe al servizio della guerra alla fame, potrebbe aumentare drasticamente la disponibilità di cibo nei paesi poveri; in essi esistono infatti risorse natural
i di grande potenziale importanza alimentare — ben differenti da quelle delle coltivazioni intensive del Nord del mondo — ma mancano le conoscenze sulla maniera efficace di sviluppare le coltivazioni indigene di piante dimenticate o ancora sconosciute; inoltre gran parte dei raccolti va perduta perché mancano impianti di conservazione e di protezione dall’attacco dei parassiti. Nel Nord del mondo una tecnologia rinnovata potrebbe permettere il recupero di sostanze nutritive da molti sottoprodotti dell’industria agroalimentare, oggi gettati via ad inquinare il suolo e le acque. In molti paesi del Sud del mondo la produzione agricola potrebbe aumentare se fosse disponibile acqua: eppure nei paesi poveri spesso le risorse idriche non mancano, ma mancano le tecniche per il sollevamento dell’acqua dai pozzi o per la depurazione delle acque contaminate dai rifiuti e dagli escrementi. Manca acqua potabile di buona qualità e milioni di persone bevono acqua contaminata, veicolo di epidemie e malattie. Se anche solo una piccola frazione dei denari spesi nel Nord del mondo per merci frivole — e addirittura per merci oscene come le armi — fosse impegnata nella costruzione ed esportazione di processi adatti per la depurazione degli escrementi e per servizi igienici, si salverebbero milioni di vite. Spesso non si pensa al ruolo liberatorio che avrebbe la disponibilità, in tanti villaggi e paesi, di gabinetti, anche rudimentali, che potrebbero essere fabbricati con materiali disponibili sul posto. Si parla tanto dei diritti delle donne, dei fanciulli, della famiglia, ma ci si dimentica che tali diritti possono essere esercitati e difesi soltanto se ciascuna unità familiare ha una casa. Gli ammassi inquinati delle baraccopoli, la promiscuità nelle abitazioni rudimentali, sono la fonte della violenza familiare, della prostituzione, della distruzione dei valori della solidarietà e della dignità, una parola che ha senso se comincia a manifestarsi nella casa. Le abitazioni possono avere strutture e caratteri ben diversi da quelli a cui siamo abituati noi; possono essere fabbricate con materiali disponibili in ciascun villaggio o paese se si riesce a trasferire nei paesi poveri gli strumenti di lavoro, le conoscenze e le tecniche, per noi comuni e banali, che oggi mancano. L’energia è lo strumento indispensabile per la liberazione dalla fatica, per rompere l’isolamento. Il contenimento dei consumi e degli sprechi di energia nel Nord del mondo metterebbe a disposizione di tanti paesi del Sud del mondo l’energia indispensabile, anche solo nelle quantità limitate che pure avrebbero un effetto liberatorio. Basterebbero piccole quantità di elettricità per alimentare, in tanti paesi, i frigoriferi in cui conservare medicinali deperibili e vaccini; per illuminare un ospedale o una scuola; per far funzionare le pompe per l’acqua. Eppure sono ormai disponibili conoscenze per fabbricare generatori di elettricità alimentati con l’energia solare e con l’energia del vento, due fonti di energia disponibili gratuitamente in tutti i paesi del Sud del mondo. I dispositivi di cellule fotovoltaiche solari, o i motori a vento, o gli impianti solari per dissalare l’acqua marina e ottenere acqua dolce potabile, talvolta costruibili con materiali disponibili sul posto di applicazione, forniscono "poca" energia, rispetto alle colossali richieste di energia delle città industriali, ma sarebbero sufficienti a far muovere, a centinaia di milioni di persone, i primi passi verso un genuino sviluppo. Disporre di energia, anche in piccole quantità, significa disporre di informazioni. E’ assurdo che nei paesi industriali i venditori si affannino a moltiplicare i telefoni cellulari, a diffondere trasmissioni televisive planetarie, e che si investano crescenti cifre spesso solo per moltiplicare la noia o le chiacchiere, quando gli stessi strumenti, in forma più rudimentale, potrebbero offrire informazioni essenziali a milioni di persone isolate. Adatti sistemi di telecomunicazioni consentirebbero di diffondere avvertimenti di carattere meteorologico, indicazioni igieniche, informazioni agricole, permetterebbero di far fare i primi passi nel campo dell’istruzione più elementare — cioè dello sviluppo. La liberazione dall’ignoranza e dall’isolamento richiede anche lo sviluppo di mezzi di trasporto adeguati e qui appare in pieno la miopia dei governi e degli imprenditori del Nord del mondo, che si affannano a contendersi un mercato ormai saturo di autoveicoli potenti, bellissimi, personalizzati, e non sono capaci di progettare veicoli e autobus capaci di muoversi nei boschi e nelle savane, di facile manutenzione, robusti e di lunga durata. Ma vi sono altri campi in cui la nascita di una cultura e tecnologia della carità e della speranza avrebbe un ruolo liberatorio e non solo nel Sud del mondo. Sto pensando ai mezzi in grado di rompere l’isolamento e la miseria — una miseria che non si sana con nessun reddito monetario — degli anziani, dei disabili, dei mutilati. La conoscenza e la tecnica sono in grado di affrontare e risolvere qualsiasi problema umano, se orientate opportunamente, se motivate da domande diverse da quelle del denaro e del profitto. La diffusione di una tecnologia della speranza è però possibile soltanto se si attua un grande mutamento storico nelle economie e nei governi dei paesi del Nord del mondo, quelli che dominano i mercati delle materie prime e delle merci e anche in quelli dei paesi di un "terzo mondo", in mezzo a quello del Nord dei ricchi e del Sud dei poveri e poverissimi, costituito da paesi, come quelli asiatici, che stanno muovendo i primi passi nell’industrializzazione e nella crescita economica e che stanno seguendo i modelli di economia e tecnica già rivelatisi perdenti nel Nord del mondo. Soltanto la diffusione di differenti abitudini di consumo, di diversi stili di vita, soltanto una grande campagna di austerità nell’uso del denaro e dei materiali da parte di chi ha già tanto, può mettere a disposizione denaro e materiali e conoscenze per liberare i poveri del Sud del mondo. La rivoluzione della speranza non è soltanto un’operazione caritativa: se i paesi del Nord del mondo non accetteranno il mutamento che viene loro proposto saranno travolti da domande, pressioni migratorie e sociali, conflitti, generati dal loro egoismo e che tale egoismo finiranno — giustamente — per travolgere.


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