Pubblichiamo integralmente l’articolo di Umberto Folena sulla trasparenza dei conti della Chiesa. Dopo il consueto attacco contro chi ha posto il problema del pagamento ( o del non pagamento) dell’Ici da parte di strutture ecclesiastiche egli fa una bella dissertazione sulla necessità della trasparenza nella gestione delle risorse nella Chiesa e cita i documenti della CEI dell’88 e del 2008. Ma mettiamo i piedi nel piatto: non c’è una diocesi in Italia che pubblichi il proprio bilancio, meno che meno gli Istituti diocesani per il Sostentamento del clero (che, dopo il Concordato, hanno incamerato tutti i beni delle parrocchie). Non c’è un Istituto religioso che, a nostra conoscenza, renda pubblico qualcosa. I fondi dell’ottopermille sono rendicontati allo Stato, secondo quanto previsto dalla legge, in modo così sintetico che non passerebbero al vaglio di nessun serio organo di controllo. I fondi alla carità sono solo il 16% dell’ottopermille ( solo gli interventi nel terzo mondo sono ben documentati). Una gran parte servono per sostenere gli interventi centrali della Chiesa (compreso SAT 2000). Le diocesi rendicontano, quasi sempre, male la gestione dei fondi dell’ottopermille che ricevono dal centro. Stupefacente che nessuno dica niente. Solo nelle parrocchie, in modo diversificato , si hanno bilanci in alcuni casi chiari e discussi.
Folena sa di cosa parla ? O fa solo propaganda approfittando del silenzio di chi dovrebbe parlare ad alta voce ? V.B.
“L’Avvenire”29 dicembre 2011
Offerte, bilanci, imposte: nella Chiesa tutto alla luce del sole
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Il dovere della trasparenza
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Provocazioni e menzogne, orchestrate secondo regole risapute utilizzate dai totalitarismi e dagli imbonitori di vario colore.
Questa è la campagna contro la Chiesa accusata falsamente di evadere l’Ici, nella speranza di renderla odiosa alla gente, sottrarle simpatie e oscurare il bene, a vantaggio di tutti, che opera oggi come e più di ieri. Ma sono cose note.
Adesso che molti, mossi dall’esasperazione, giungono perfino a esporre le ricevute delle imposte, regolarmente pagate, una riflessione è opportuna: anche dal male i cristiani possono ricavare un insegnamento positivo. In questo caso, le lezioni di cui fare tesoro sono almeno due. Nessuna delle quali peraltro nuova.
La prima: il denaro, che la Chiesa riceve e restituisce moltiplicato, non è un capitolo a parte, secondario e accessorio, rispetto all’annuncio del Vangelo, ma ne è parte integrante. Il denaro: il suo reperimento, la sua amministrazione. In teoria tutto è chiarissimo. Il documento della Cei Sovvenire alle necessità della Chiesa (1988) lo dimostra attingendo alle Scritture, al Concilio, al Codice di diritto canonico («Quello del reperimento e dell’amministrazione delle risorse economiche non è un aspetto isolato nel più vasto quadro ecclesiale; anche nella Chiesa ogni profilo dell’esperienza comunitaria è intrecciato strettamente a tutti gli altri»,18). Non bisogna avere paura di parlarne. E un eventuale pudore, in parte comprensibile, oggi diventa un ‘lusso’ che rischia di ritorcersi contro chi ne restasse prigioniero. Non è una virtù, certo non in questi tempi.
Ed ecco la seconda e più importante lezione.
Un valore evangelico decisivo, affinché chi annuncia il Vangelo sia credibile, e quindi credibile sia il Vangelo stesso, è la trasparenza. Nulla va nascosto, tutto va reso visibile.
Ma pure questo era detto a chiare lettere 23 anni fa: «Anche per noi (il documento si sta rivolgendo a preti e vescovi, ndr) deve valere quella correttezza e quella trasparenza che vorremmo fossero sempre di più tratti caratteristici di un’amministrazione ecclesiastica credibile» (22). Tra i tanti «doveri» elencati, uno spicca per la sua radicalità: «Deve essere richiamato con forza il dovere di ciascun prete e di ciascun vescovo (…) di fare testamento (…) evitando così che i beni derivanti dal ministero, cioè dalla Chiesa, finiscano ai parenti per successione di legge». È un gesto concreto di estrema povertà e trasparenza nei confronti dei fedeli: ciò che mi affidate non è mio, io non possiedo nulla ma tutto appartiene alla Chiesa a cui tutti noi apparteniamo.
Un altro documento della Cei, Sostenere la Chiesa per servire tutti, 20 anni dopo dedica un paragrafo apposito all’«obiettivo della trasparenza »: «Amministrare i beni della Chiesa esige chiarezza e trasparenza. Ai fedeli che contribuiscono con le loro offerte, agli italiani che firmano per l’otto per mille, alle autorità dello Stato e all’opinione pubblica abbiamo reso conto in questi anni – scrivono i vescovi italiani – di come la Chiesa ha utilizzato le risorse economiche che le sono state affidate. Siamo fermamente intenzionati a continuare su questa linea», sapendo però che «dobbiamo ancora crescere: ogni comunità parrocchiale ha diritto di conoscere il suo bilancio contabile, per rendersi conto di come sono state destinate le risorse disponibili e di quali siano le necessità concrete della parrocchia » (10). L’obiezione è frequente: pubblicare un bilancio è difficile, farlo in modo che tutti capiscano è difficilissimo. Non tutti i parroci sono dei provetti contabili… Obiezione (cortesemente) respinta. Già Sovvenire, nel 1988, precisava: «Tutti i fedeli, ma specialmente i laici, sono chiamati a mettere a disposizione la loro competenza e il loro senso ecclesiale collaborando disinteressatamente ai diversi livelli dell’amministrazione ecclesiastica». Il Consiglio parrocchiale per gli affari economici serve appunto a questo. Ogni parrocchia ha un contabile, un bancario, un amministratore competente, a cui il parroco può affidarsi.
La trasparenza, a tutti i livelli, è sempre stata richiamata come una necessità. Oggi inderogabile.
Umberto Folena
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