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Sezione italiana del movimento internazionale “We Are Church” per la riforma della Chiesa cattolica

Una guerra non può essere umanitaria: articolo di Raniero La Valle

Insania politica di Berlusconi. La parola "umanitaria" non si può accompagnare alla parola "guerra". Abbiamo rovesciato lo statuto dell’Onu: impedisce di bombardare popolazioni e governi per evitare massacri con altri massacri. All’interno della Chiesa la voce di un solo vescovo

  

Libia, galleggia il Cavalier Travicello

di Raniero La Valle 24-03-2011  su Domani

   La prima cosa da dire è che il termine “umanitario” applicato a una politica, è fuorviante, se non addirittura espressione di un’ideologia perversa. Esso suppone infatti che la qualità umanitaria rappresenti una eccezione o una sospensione o una particolarità della politica, che di per sé avrebbe tutt’altre finalità. Nella nostra concezione, al contrario, la politica deve sempre essere umanitaria, cioè ordinata al bene degli uomini e delle donne in quanto cittadini, non importa se del proprio o degli altri Stati; e basta leggere l’art. 3 della nostra Costituzione, allargato poi nell’articolo 11, per vedere come a questo punto dell’incivilimento umano la politica non può che essere pensata come rivolta alla piena realizzazione delle persone umane e a un ordine di giustizia e di pace tra le nazioni. Se ciò vale per la politica, tanto più vale per la guerra, che non può essere umanitaria nemmeno come eccezione. E infatti, a questo stadio della civiltà, essa è bandita, oggetto di ripudio all’interno e bollata come flagello sul piano internazionale. Altra è la questione dell’uso della forza per impedire genocidi e altre nefandezze o minacce alla pace, previsto dal capitolo VII della Carta dell’ONU. Esso è legittimo non per il semplice fatto che l’ONU lo decida e lo affidi all’esecuzione di questa o quella potenza, ma per il fatto che non abbia altre finalità che quelle ammesse dalla Carta (e non ad esempio rovesciamento di regimi o assassinio dei loro capi) e che in nessun modo sia assimilabile alla guerra. A tal fine esso non può aver luogo se prima non siano stati compiuti, anche dallo stesso Consiglio di Sicurezza, tutti i tentativi per una composizione pacifica, e non solo non deve tendere all’annientamento del nemico, come è proprio della guerra, ma non deve essere espressione della sovranità degli Stati – a cui il diritto di guerra è storicamente avvinghiato – né essere sospettabile di essere funzionale ai loro interessi, petroliferi, territoriali o economici che siano. Per questa ragione secondo la Carta dell’ONU le operazioni devono avvenire sotto la responsabilità non di uno Stato, per quanto grande e potente, e tanto meno della NATO, che imputandosi una guerra esercita una sovranità che non ha, ma del Consiglio di Sicurezza e sotto la direzione strategica del Comitato dei capi di Stato Maggiore dei cinque membri permanenti; e devono essere compiute da forze armate tratte dagli eserciti nazionali ma messe a disposizione del Consiglio di Sicurezza in base ad accordi permanenti tra questo e gli Stati. Questa parte dello Statuto dell’ONU purtroppo non è stata mai attuata, perché le vecchie sovranità e il patriottismo militare che vuole che ognuno combatta sotto le proprie bandiere sono duri a morire. Il caos, l’illegittimità e l’insania politica dell’attuale intervento in Libia sono la conseguenza di questo inadempimento. L’unica cosa giusta è il punto di partenza, ossia la decisione della comunità internazionale di impedire gli eccidi in Libia, come avrebbe dovuto fare, e non fece, per porre termine al genocidio in Cambogia (e ci dovette pensare il Vietnam). Ma tutto il resto è sbagliato, a cominciare da quella “fretta della guerra” che è stata denunciata – unica voce coraggiosa e illuminante levatasi dall’interno della Chiesa – dal vescovo Giovanni Giudici presidente di Pax Christi. E sbagliatissime e addirittura letali (per noi) sono le scelte fatte dal governo italiano. Se pur sono scelte! Repentine e contraddittorie, annunciate e smentite, fedeli e infedeli ai patti sottoscritti, tali da fare ancora una volta dell’Italia un Paese non affidabile, ondivago, esposto agli ultimi venti, come il re travicello che, come dice la poesia di Giusti, “là là per la reggia dal vento portato, tentenna, galleggia, e mai dello Stato non pesca nel fondo: che scienza di mondo! che Re di cervello è un Re Travicello!”. Non c’era alcun bisogno di fare i primi della classe “offrendo” la disponibilità delle basi italiane, peraltro da tempo appaltate ad americani e alleati, e operative senza che nessuno ce ne chieda il permesso (i trattati sono segreti); non c’era bisogno di mettere subito in pista i Tornado, quando eravamo (e ancora siamo) vincolati al trattato berlusconiano con Gheddafi, che garantisce “il rispetto dell’uguaglianza sovrana degli Stati; l’impegno a non ricorrere alla minaccia o all’impiego della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica della controparte o a qualunque altra forma incompatibile con la Carta delle Nazioni Unite; l’impegno alla non ingerenza negli affari interni e, nel rispetto dei princìpi della legalità internazionale, a non usare né concedere l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile nei confronti della controparte; l’impegno alla soluzione pacifica delle controversie”. Pudore avrebbe voluto che venendo la squilla alla guerra, l’Italia piuttosto che correre al fronte, avesse tentato qualche mediazione visibile; e soprattutto che avesse dichiarato che non solo a causa del trattato di amicizia, e nemmeno dei baci di Berlusconi a Gheddafi, ma a causa delle atroci responsabilità del colonialismo italiano nei riguardi della Libia, mai più armi e militari italiani avrebbero potuto rivolgersi contro il dirimpettaio africano. Questo tutti avrebbero potuto capirlo, e non ci sarebbe stato bisogno di ricorrere al gioco delle tre carte degli aerei che sorvolano ma non sparano, o del dirsi disponibili a una guerra comandata dalla NATO ma non dalla Francia, o del “vorrei ma non posso”, se no arrivano migliaia di profughi e di terroristi a Lampedusa. Questa è la corruzione della politica che, già operante nella politica interna, si è ora pienamente manifestata nel
la politica estera. Ed è ancora più grave dei vecchi giri di valzer.
 


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