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Noi Siamo Chiesa

Sezione italiana del movimento internazionale “We Are Church” per la riforma della Chiesa cattolica

Vescovo di Roma e il popolo non come gregge

CHIAMATEMI  FRANCESCO

Un papa che si fa chiamare Francesco suscita prima di tutto un moto d’incredulità: no, non è possibile che sia un Francesco. Infatti nessun papa prima si era fatto chiamare così, e ciò perché a partire da quando era ancora in vita Francesco d’Assisi, Francesco e il papa hanno rappresentato due archetipi, due figure diverse dell’essere cristiano. Da quando il papa, a partire dalla “rivoluzione papale”  dell’XI secolo, è stato costruito dalla tradizione romana come sostituto di Dio e supremo signore terreno, a cui dovesse essere “sottomessa ogni umana creatura”, nessun successore di Pietro avrebbe potuto osare chiamarsi Francesco.

Non era solo questione di un Francesco povero e di un papa ricco. Era questione che la povertà di Francesco era teologale, era il Vangelo stesso “sine glossa”, che raccontava di un Dio che da ricco si era fatto povero, di un onnipotente che si era fatto servo, di un eterno che era finito crocefisso. Le insegne imperiali ereditate da Costantino e ancora presenti nella mozzetta rossa fino a ieri indossata dal papa, erano invece il simbolo di un potere terreno sublimato in potere religioso, che non poteva essere affare di un papa per il quale Francesco fosse non solo un nome, ma una scelta e un programma.

Che ora arrivi un papa che si fa chiamare Francesco, è una scommessa e una sfida. Le durezze teologiche del pontificato precedente, gli scontri nella Curia, i sussurri e le grida dal Vaticano che hanno riempito le cronache prima del Conclave, sembrano già appartenere a una stagione passata. È bastata la discontinuità  di un papa senza mozzetta, che cominciasse il suo rapporto col mondo dicendo “buona sera”, per far pensare che anche il papato si potesse riformare. E’ bastato un papa venuto dal fondo del mondo, che ha chiamato “fratelli e sorelle” e non figli il gregge di cui è pastore, che si è fatto benedire dal popolo prima di benedirlo e si è inchinato davanti a lui quasi a ricevere anche da lui l’investitura già ricevuta da Dio, per far pensare a un’ecclesiologia nuova;  è bastato un eletto che si è detto vescovo della comunità diocesana di Roma, la quale presiede nella carità alle altre Chiese, indicando come suo più prossimo collaboratore il cardinale vicario e non il segretario di Stato, è bastato che facesse appello a rapporti di “fiducia tra noi” e alla preghiera dell’uno per l’altro, per dare l’impressione che davvero la Chiesa può cambiare. È da cinquant’anni che ci prova, dall’inizio del concilio Vaticano II. All’inizio il cambiamento fu avviato da un papa, poi fu continuato da un concilio, adesso di nuovo potrebbe essere promosso da un papa. Vedremo. Certo, non dovrà essere lasciato solo. Ma i suoi primi gesti sembrano voler stabilire una nuova circolarità tra papa, vescovi e popolo, che nella Chiesa non si chiama democrazia, si chiama comunione. Papa, ossia vescovo, e popolo, entrambi “organi della verità”, come diceva il papa Gregorio magno, di cui era la festa proprio il giorno in cui è cominciato il Conclave.

Si indaga, in queste ore, sulla biografia del cardinale Bergoglio, luci ed ombre, come tutte le biografie, per trarne previsioni sul futuro. Credo che sia un esercizio infruttuoso. Non perché una biografia di una persona non contenga già quello che sarà il suo futuro, ma perché la biografia di un papa si comprende  solo a partire dal modo del suo essere papa. Così fu per papa Giovanni, di cui solo alla fine si capì “il mistero”, il “mistero Roncalli”. Così è stato pure di papa Benedetto di cui alla fine, col suo gesto di rinunzia, si è capito molto di più dell’umiltà e della libertà di cui era fatta la sua vita.

Ma quale cambiamento il nuovo papa potrà portare a una Chiesa oggi così tormentata ed in crisi? Forse ci dice che è venuto il momento di provarci non con le commissioni cardinalizie, ma con la fede.

  Raniero La Valle

 (da “Rocca” di marzo)


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